§ PROPOSTE

PER UN FISCO DEMOCRATICO




Giulio Tremonti



Il corso della vita politica della prima Repubblica si è rotto tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Prima di questa rottura, la vita politica italiana riusciva ad assorbire e a soddisfare gli interessi, le ragioni e le passioni proprie delle masse popolari, basata come era sull'alternativa ideologica, e per così dire pitagorica, tra le due forze elementari tra di loro opposte: la democrazia, il comunismo.
Nella fase che va dalla Costituzione al'68, il fattore P (la politica) è alto; il fattore D (il debito pubblico) è basso. Poi il gioco delle forze è cambiato: la forza di attrazione decrescente, esercitata dalla politica pitagorica, è stata infatti progressivamente compensata dalla forza empirica di una nuova politica, fatta per soddisfare la crescente domanda di benessere materiale e di giustizia sociale.
La trasformazione dell'ideologia in pratica fu, all'inizio, giusta. Giusta tanto nel fine, quanto nel mezzo. L'acquisizione del consenso democratico, da parte delle masse popolari, non poteva infatti essere operata, se non con l'intervento dello Stato. Solo successivamente il mezzo si è rivolto contro il fine. Il big bang generatore del debito pubblico italiano è stato causato da una miscela esplosiva di centralismo politico e di statalismo amministrativo (miscela della quale la sinistra è stata prima artefice e poi vittima). E' così cominciata la democrazia del deficit.
E' così che il nostro Parlamento, nato storicamente per controllare la spesa dei sovrani, è progressivamente divenuto il sovrano della spesa. Sovrano di una spesa sempre meno controllata perché le classi politiche, fuso il Parlamento con il governo in un unico blocco istituzionale, più spendevano, o peggio spendevano, più voti prendevano. E più i soldi si spendevano a debito, più aumentava il consenso, da parte degli elettori beneficiati, degli evasori tollerati, dei sottoscrittori dei titoli pubblici super-remunerati. Così fino a un nuovo punto di rottura, che si manifesta al principio degli anni Novanta, quando la macchina politica, fatta per acquisire consenso, si è rivoltata contro la stessa classe politica che l'aveva creata, rovesciandole addosso dissenso. Le prestazioni sociali essendo cancellate da sempre più onerose prestazioni imposte, rese queste a loro volta necessarie dall'onere di pagamento degli interessi su di una massa crescente di debito pubblico.
E' in questo contesto che la politica fiscale ha finito per diventare una politica gabellare, fine a se stessa, sempre più orientata verso il gettito e sempre meno verso la giustizia: sempre più una spremitura indiscriminata e sempre meno una redistribuzione ordinata ai fini di solidarietà. Tra l'altro, aggiungendosi alla pressione la beffa di un'oppressione fiscale fatta di infiniti balzelli, da milioni di controversie bagatellari.
In questo campo, anche l'azione di risanamento più incisiva, come quella del governo Amato, era destinata a produrre effetti non decisivi. Mentre le azioni meno incisive sono state battaglie di logoramento, in cui la vittoria è stata illusoriamente scambiata con la scoperta di essere rimasti - più deboli - a ridosso del punto di partenza. Ciò che si deve superare è il cadornismo finanziario. Ciò che si deve assicurare non è solo la tenuta dei conti pubblici, ma la prospettiva di un cambiamento, l'unica forma di risanamento possibile.
In particolare, si deve uscire dal sistema delle tasse che inseguono le spese "a piè di lista". E lo si può fare solo partendo dal basso, ricollegando il potere di spesa pubblica al dovere fiscale, riattivando dalla periferia il circuito della democrazia fiscale: vedo (l'opera e il servizio pubblico), pago (il tributo per finanziarli), voto (a favore o contro il pubblico amministratore responsabile). Poi, cercando verso l'alto il giusto equilibrio, tra quanto di beneficio è giusto avere in contropartita dell'esborso fiscale, e quanto di sacrificio è invece imposto dal dovere di solidarietà. Infine, cercando di rendere il rapporto fiscale trasparente e tollerabile nella sua necessaria semplicità strutturale.
Solo se si marca il cambiamento, solo se si diffonde nella gente la Fiducia in ordine alla possibilità di avere un fisco nuovo, più giusto e più semplice di quello che c'è adesso, solo così si può avere fiducia nel futuro e gestire a stralcio lo "stock" di debito pregresso, avendo finalmente agito sulle sue cause, più che sui suoi effetti.
Dunque, obiettivo essenziale è una strategia che si sviluppi:
a) dal centro alla periferia. Per introdurre nel nostro sistema il federalismo fiscale; cioè l'autogoverno che, alternativo a un eccesso di statalismo, è l'unico mezzo per avvicinare la politica alla gente e la gente alla politica;
b) dal complesso al semplice. Per esemplificare il sistema attuale, basato su di una pletora di balzelli, di procedure e di liti bagatellari, concentrando le norme in codici unitari di leggi semplici;
c) dalle imposte dirette alle imposte indirette. Si tratta di detassare gradualmente le persone, soprattutto il lavoro delle persone (lavoro che, da un eccesso di tassazione, è scoraggiato e penalizzato), spostando simmetricamente e gradualmente l'asse del prelievo sulle cose e sui consumi non necessari. Dato che la materia fiscale è materia costituzionale per eccellenza, e dato che, sia pure in gradi diversi, questi passaggi sono comunque presenti nei programmi di tutti gli schieramenti politici rappresentati in Parlamento, pare davvero che si offra l'occasione per fonderli insieme in una sintesi equilibrata, ordinata a rafforzare la democrazia del Paese.


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