§ LE RADICI DELLA LIBERTA'

ELOGIO DELL'INSUCCESSO




Aldo Bello



Capita sempre più frequente, in questa nostra epoca, che vittorie sconcertanti coronino battaglie sacrosante. E' l'intera tematica del progresso - di ciò che una volta appariva auspicabile e anche sommamente desiderabile - ad averci dimostrato in modo inequivocabile il pericolo insito in molte aspirazioni sociali, che sono state mal progettate e peggio guidate. Così, per esempio, in pugno al capitalismo senza princìpi e senza piani degli anni del dopoguerra, come in pugno allo statalismo sovietico infarcito di princìpi e di gosplan, si è allo stesso modo contribuito a distruggere la natura e a mettere in forse - piegando la scienza alla creazione di armi totali - il futuro stesso del pianeta.
Ugualmente, le splendide battaglie culturali (che poi furono politiche) che intorno al 1960 modificarono lo stato stesso delle arti - e fu l'ultimo grande momento di vitalità per molte di loro, tant'è che sulle loro acquisizioni ancora oggi si vive, o si sopravvive - hanno avuto destini imprevisti: soprattutto, un successo eccessivo, che ha finito col negarne il valore che prospettavano, quello di una soggettività liberata, di un nuovo metro da dare all'individuo e alle sue scelte. Il fenomeno delle nouvelles vagues, alla fine degli anni '50, fu innanzitutto rivolta di giovani contro un modo d'intendere posto e ruolo dell'individuo, a cominciare da quelli dell'artista. Si finì col farne un oggetto di spettacolo quasi folcloristico, col risultato di ricacciare nei ghetti della provincia gli apporti che altrove - in Francia, in America, per esempio - proprio dalla provincia confluiscono verso i centri nevralgici della cultura nazionale. E via di seguito.
Il peso della tradizione politica e della guerra, e quello della negazione dell'individuo in un sistema, nel partito o nel popolo - schierato dentro un esercito, o dentro una chiesa, comunque - era continuato nel dopoguerra con i ricatti dei muri e delle guerre fredde, e nonostante gli avvisi ai naviganti, per esempio ancora, di un Camus o di un Dos Passos, l'impegno era tornato ad essere un cedimento ai superiori piani e programmi delle organizzazioni.
L'affermazione del soggetto contro l'uomo-massa, contro il giovane-massa, manipolati e manipolabili, doveva sfociare inevitabilmente nel Sessantotto, nel joli mois de mai, nel tempo autentico e brevissimo della sua esplosione, quando una generazione imparò a dire "io", rifiutandosi al condizionante "noi" delle chiese. Ma forse fu proprio il coraggio giovanile di quest'affermazione a spaventare gli stessi che l'avevano promossa o fatta, di fronte alle prime difficoltà proposte dalla "politica", cioè dall'intervento nella società, dalla necessità e dalla ricerca di alleanze, una volta che si fosse usciti dalla scuola. E rinacque irrimediabilmente il vecchio modello organizzativo - quello confutato e rifiutato - del partito: esattamente il peggiore, il leninista, sia pure coniugato in varie versioni, da Potere Operaio a Lotta Continua, all'autonomia operaia organizzata; poi fino alle Brigate Rosse, a Prima Linea, ai Nuclei armati proletari, alle Cellule comuniste combattenti, alle Ronde proletarie armate, e via sanguinando.
Il tentativo del '77 di ritornare al soggetto naufragò nel "tiro alzato" ad altezza d'uomo, in una tragica parodia di rivoluzione che finì per avvitarsi nella sua stessa indiscriminante ferocia.
Ed è a questo punto il caso di ricordare agli smemorati due fatti. Il primo: fu proprio allora che, di fronte agli arretramenti dello Stato e alla colpevole decrepitezza del "sistema", la difesa delle istituzioni e le garanzie della nostra libertà furono assunte, direi "naturalmente", dalla magistratura. Pochi conoscono, e tra coloro che l'hanno conosciuta pochi amano ricordare oggi la drammatica solitudine nella quale agirono gli uomini di toga, che furono costretti ad agire su fronti diversi, diffusi, compartimentati, nello stesso momento in cui dovevano scuotere l'inerzia delle istituzioni, mettere allo scoperto le complicità ideologiche, avvertire del pericolo di formazione di altri -magari opposti, ma sempre occulti - gruppi o club. Tutto questo pagando di persona, sulla propria pelle e con la propria vita.
Il secondo: forse non fu per caso che esplosero insieme - trovando persino ambigui sostegni reciproci - il terrorismo di rigurgito stalinista e il successo dello yuppismo rampante, rapinatore, onnivoro della piccola borghesia arricchita, che fino a ieri soltanto si è "sporcata le mani", prima di incappare nelle maglie - ancora una volta - della giustizia.
Dovevano essere gli anni della "nuova frontiera", dell'aggressione dei problemi secolari che squilibravano il paese. Dovevano essere "anni strepitosi". E invece gli anni '80 misero dovunque l'accento sui diritti, e ceti sempre nemici dei doveri (ve le ricordate, sapienti della politica e del diritto, le vostre squallide battute sull'ingenuo Mazzini dei "doveri"?) ebbero modo di gettarsi anima e corpo su una indiscriminata proposta rivendicativa accolta da tutti - senza eccezioni -con adesione entusiastica. Quando ci sono diritti da rivendicare, gli italiani sono maestri: ogni corporazione contro le altre, ogni settore contro gli altri, ogni gruppo sociale contro gli altri, e ora ogni regione contro le altre.
Risultato: la proposta vincente, e tuttora dominante, è stata quella di una straripante volgarità, non disdegnata, per esempio, neanche dai politici e dai mass media. Così, al "protagonismo di massa" (slogan transitorio degli anni '70) si sostituì caoticamente il "narcisismo di massa": nella pretesa di ogni individuo alla centralità, si è assistito - si assiste - alla negazione di ogni forma vera di individualismo. Aveva scritto Andy Warhol: tutti possono finire, prima o poi, al centro della scena (politica, economica, professionale, televisiva, persino della cronaca) per cinque minuti. Ma scendere dal piedistallo di quell'effimera, e risibile, "centralità" era ben più duro.
Che è come dire: meno autentica, più povera e riduttiva è l'esperienza di ognuno, e più la si vive in una dimensione di frustrazione, di invidia, di sofferenza; e in ultima analisi di aspirazione a un riscatto nel potere, nel denaro, nella fama, comunque procacciati, e che si ritengono meritati e anche dovuti per il semplice fatto che altri -vistosamente di scarso o nullo talento - li hanno raggiunti. Il trionfo del "look", la pesantezza, la volgarità, la bruttezza (proprio così: la bruttezza) di chi ha successo trascinano nella loro scia altre volgarità e bruttezze, corrompono ogni potenziale talento indirizzandolo su obiettivi raggiungibili solo con grandi dosi di cinismo (di intelligenza nel cinismo) che non tutti necessariamente possiedono. Per questo non abbiamo mai visto servi più servi di coloro i quali, scarsi di talento, piegano energie e volontà alla ricchezza veloce e al potere, al protagonismo, ad una "centralità" temuta più che rispettata, adulata più che onorata.
La proposta di un individualismo conseguente (coerente) richiede molto lavoro, un'etica senza trasgressioni, disposizioni al sacrificio e, appunto, alla solitudine: cioè all'insuccesso. Per affermare la propria individualità è necessario crederci con orgoglio; e sopportare stoicamente tutto quel che ne consegue di rischiosa distanza dal conformismo, dai valori per modo di dire, dai moralismi organici a progetti illiberali, dalle ideologie che negano soggettività in funzione di contesti sociali grigi, massificati. Questa individualità, nobile, schiva, può ripiegarsi su se stessa e serenamente rinunciare a tutto, o a moltissimo (potere, ricchezza, centralità: cioè visibilità), meno che alla libertà.
Le individualità apparenti, quelle che inseguono le mode e i trasformismi, sono solo vocazione al servilismo, colorato, spesso feroce, sempre corruttibile, che cerca nel look una differenza: è massificazione di tic personalizzati e di costose griffes rifilate per segni di diversità, di padronanza della propria mente e del proprio volere, del proprio destino. Perciò la società oscilla tra gli opposti poli dei ciompi e dei liberti, con lacerazioni che la rendono divaricata, opulenta e miserabile, moderna e attardata. E ancora una volta viene in primo piano la lezione di Croce: i grandi spiriti solitari hanno dato identità, autenticità, onorabilità alla storia della nazione. Solitari: perché la loro azione politica e di politica economica è stata una lezione di comportamento, ancorché inascoltata; perché, essendo un'azione anticipatrice, fu destinata all'insuccesso, e dunque al rimpianto postumo; perché seppero restare uomini liberi, e tanto fu sufficiente a gratificarli d'ogni altra amarezza e incomprensione. Basta essere "fuori moda" per essere in sintonia con loro. Ma quanti sono disposti, oggi, a seguire l'esempio e a tessere l'elogio dell'insuccesso? Quanti sono portatori di un personale (originale) pensiero?
E quanti sono pronti a spendere fino all'ultimo centesimo per difendere la propria individualità? Il paesaggio ha orizzonti desolati. E si deve ricominciare proprio da qui: in nome di un'utopia che non intende cambiare il mondo, ma un modo di concepire il mondo. Partendo, se possibile, da quello che ci portiamo dentro.


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