§ Gli antenati figli delle stelle

Padri nostri




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta, John F. Mannino
Coll.: Giancarlo Santini, Francesca La Motta, Richard W Robson, Walter Reisener



Il paleoantropologo francese Yves Coppens non ha alcun dubbio: siamo tutti scimmie africane. Direttore del Laboratorio di Paleoantropologia del Collège de France, fornisce le chiavi per forzare il mistero delle nostre origini. Definisce scherzosamente il suo modello l'East Side Story: una tesi che avvalora la provenienza africana della specie umana. I postulati: il motore dell'evoluzione, cioè il determinismo aleatorio che Jacques Monod aveva individuato nel caso, per Coppens si esprime attraverso la "rottura di equilibri naturali". Quali, ad esempio, gli sconvolgimenti geologici e climatici che, sette milioni e mezzo di anni fa, costrinsero i primi ominidi della savana africana ad alzarsi su due zampe per adattarsi ad un ambiente nuovo. L'acquisizione della posizione eretta e l'aumento del volume cranico furono conseguenze dirette di questa mutazione.
Per sondare gli abissi delle preistoria, i paleontologi devono arrangiarsi con una scarsa sequela di fossili. Per costoro, la catena dell'evoluzione è ancora composta da maglie larghissime: un dente a sei milioni di anni, mezza mandibola a cinque milioni e mezzo, e a quattro milioni un frammento di femore, un osso frontale, il collo di un omero... Il ritrovamento in Tanzania di impronte lasciate nel fango 3,8 milioni di anni fa da esserini ancora scimmieschi, ma già dotati di locomozione bipede, fu la prima riprova della potenziale esattezza della teoria di Coppens. La seconda fu la scoperta, insieme all'americano Johanson, dello scheletro della giovane Lucy, un Australopiteco di tre milioni e mezzo di anni fa, dal cui bacino, dice lo studioso francese, "possiamo dedurre che già ancheggiava come una ballerina".
Il lungo cammino dell'uomo è un romanzo che Coppens racconta con eloquenza incontenibile: dopo gli Australopiteci, l'Homo abilis, il primo uomo; poi, un milione e mezzo di anni fa, appare l'Homo erectus, che dall'Africa si lancia alla conquista del pianeta. E' grande come noi, impara ad usare il fuoco, costruisce capanne, risente i primi brividi metafisici. Progressivamente, l'uomo emerge dal contesto biologico. L'Homo sapiens, ossia l'uomo moderno, incomincia a popolare l'Europa solo quarantamila anni fa. La rivoluzione del Neolitico, i primi popoli stanziali, l'allevamento, risalgono a ottomila anni fa. Il resto è Storia.
Ricapitolando, potremmo sostenere che la storia dell'uomo è quella del suo cervello, fin dai tempi remoti. Circa quaranta milioni di anni fa viveva un nostro lontanissimo antenato, l'Egittopiteco. Era grande come un gatto, camminava a quattro zampe e aveva una lunga coda. Questa scimmietta apparteneva alla famiglia degli ominoidi, già si differenziava dagli altri primati per le trasformazioni che aveva subito il suo piccolo cervello. Trasformazioni che riguardavano i lobi frontali e i centri ottici legati alla corteccia cerebrale. Dice Coppens: "Fu il primo passo verso la meditazione".
Egittopiteco, Kenyapiteco, Australopiteco, Homo abilis, Erectus, e via elencando: non si dovrebbe parlare dell'origine dell'uomo, ma piuttosto di una lunga evoluzione, di una filiazione zoologica nel corso della quale sono apparsi i diversi caratteri umani. In effetti, sostiene Coppens, l'uomo non deriva dalla scimmia, ma da una scimmia particolarissima, appartenente a una specie oggi scomparsa, che fu l'antenato comune dell'uomo e dello scimpanzé. "Urge una premessa", precisa. "La storia dell'uomo è parte della storia dell'Universo, che include la storia della Terra, la quale a sua volta comprende la storia della vita. In un certo senso, siamo figli delle stelle".
Ad un certo punto, i "figli delle stelle" si separano dai cugini scimpanzé. Ma quando? Si era pensato a lungo che questo distacco fosse avvenuto quindici milioni di anni fa e che il nostro primo antenato fosse una scimmia asiatica chiamata Ramapiteco. In realtà, si tratta probabilmente dell'antenato dell'orango. Qualche anno fa, in un seminario tenuto a Roma, ci fu un "compromesso preistorico": i paleoantropologi si misero d'accordo con i colleghi biologi molecolari, partigiani di una cronologia molto più recente: la spaccatura tra scimmie e ominidi, i nostri primi antenati diretti, si è prodotta sette milioni e mezzo di anni fa, in Africa. Da quel momento, l'uomo abbandonò per sempre il mondo animale.
Sette milioni e mezzo di anni fa, infatti, si produsse l'immensa spaccatura della Rift Valley, la faglia geologica che corre lungo l'Etiopia, il Kenya e la Tanzania. Lì viveva un piccolo antenato comune di ominidi e grandi scimmie, il Kenyapiteco, che popolava le rigogliose foreste dell'Africa equatoriale. Improvvisamente, la parte orientale del continente si sollevò, dando luogo agli attuali altopiani dell'Est. La prima conseguenza fu un drastico cambiamento di clima. I venti umidi che provenivano da Ovest si scontrarono contro questa barriera e in tutto il versante orientale si verificò un periodo di forte siccità. Diminuirono le piogge, la foresta regredì e cominciarono a formarsi sterminate savane. Mentre le scimmie rimaste nel versante occidentale continuarono a vivere nella foresta, i nostri antenati isolati a Est dovettero invece adattarsi alla savana. Questa separazione in diverse nicchie ecologiche provocò due evoluzioni diverse: a Ovest, le grandi scimmie attuali, gorilla e scimpanzè; ad Est, una nuova famiglia che dovette adeguarsi a un ambiente diverso, arido e con pochi alberi.
Nacque così la famiglia dei primi ominidi, gli Australopiteci, già avvezzi alla posizione eretta, come rivela l'allargamento del loro bacino. A questa famiglia appartiene Lucy, "la prima donna dell'umanità", di cui si sono ritrovati 52 frammenti di ossa. Una scoperta senza precedenti, che ha consentito di stabilire la sua statura (un metro e 20 centimetri), il suo peso (20-25 chili), la sua locomozione, e in un certo senso anche il suo comportamento. Grazie all'osservazione dei denti al microscopio elettronico si sa anche di che cosa si nutriva.
Bilancio di due decenni di scavi e di verifiche dell'East Side Story: su duecentomila reperti fossili rinvenuti in Etiopia, in Kenya e in Tanzania, duemila sono frammenti di ominidi e non uno solo di grandi scimmie. Ad Est della Rift Valley vissero dunque soltanto pre-umani e umani; ad Ovest, pre-scimpanzè e pre-gorilla. Come dicono i biologi molecolari, siamo geneticamente vicinissimi ai nostri cugini scimpanzé (abbiamo in comune il 99 per cento del nostro genoma). Ma ne siamo anche molto lontani, poiché fummo separati sette milioni e mezzo di anni fa dalla faglia africana.
Dunque: se non si fosse sollevato il Rift, non sarebbe cambiato il clima, le foreste non sarebbero scomparse, non sarebbe mai nato l'uomo. Oggi, anche a Est del Rift, i discendenti del Kenyapiteco assomiglierebbero al gorilla dell'Ovest. La posizione eretta, la locomozione bipede, lo sviluppo del cervello, la fabbricazione dei primi manufatti sono il risultato di un adattamento ad un ambiente più arido. Nella savana, i nostri antenati furono costretti ad alzarsi sulle zampe posteriori per scampare ai pericoli, per avvistare una preda, per trasportare il cibo, per mettere al sicuro i loro piccoli. La formazione di una nuova specie "avviene sempre all'interno di popolazioni periferiche rispetto alla popolazione centrale: per esempio, un gruppo di individui che sviluppa ossa del bacino diverse dagli altri. Quando si produce il cambiamento ambientale, questa specie di handicappati si ritrova fortemente avvantaggiata. La selezione naturale provvede al resto".
Lo sviluppo del cervello, pertanto, è legato alla stazione eretta. Il predecessore di Coppens al Collège, André Leroi-Gourhan, era solito dire: "dobbiamo rassegnarci. La nostra storia è cominciata con i piedi". Siamo diventati intelligenti solo quando ci siamo alzati. L'Australopiteco ha potuto servirsi delle mani per fabbricare i primi ciottoli. Con il corpo eretto improvvisamente è cambiata la sua concezione del mondo: il suo campo visivo non era più quello di una scimmia a quattro zampe; ora, abbracciava l'orizzonte, aveva il senso dell'infinito. Da lì, le prime angosce dell'uomo preistorico. Insomma, la coscienza dell'umanità è emersa quando l'uomo iniziò a guardare il firmamento.
Ma non si trattava ancora di uomini. L'Homo abilis, primo rappresentante della nostra specie, apparve subito dopo, tre milioni di anni fa. E coabitò con l'Australopiteco almeno per un milione di anni.
L'Homo abilis aveva il cervello più sviluppato, più vascolarizzato; aveva perfezionato la locomozione bipede; non era più arboricolo; ed era dotato di una dentatura che gli consentiva di variare la sua dieta. Gli Australopiteci si cibavano soltanto di alcuni vegetali; lui era onnivoro, anzi opportunista. Intorno ai suoi insediamenti sono stati ritrovati i resti di lumache, ranocchie, camaleonti, gazzelle, cavalli, ippopotami, elefanti. Un ulteriore carattere evolutivo legato all'adattamento alla siccità riguardava le vie respiratorie e l'abbassamento della laringe: caratteristiche morfologiche che predisponevano il nostro antenato al linguaggio articolato. L'Homo abilis, in ogni caso, viveva in un paradiso terrestre: la grande savana africana, un immenso giardino pieno di animali, di fiori e di piante meravigliose.
Conoscendo l'ecosistema africano, si è potuto valutare anche l'effettivo dei pre-umani e dei primi umani. Nella provincia bio-geografica di Kenya, Tanzania, Etiopia e Uganda vivevano circa 70 mila Adami e altrettante Eve. Ciò corrispondeva a una densità di 0,2-0,5 abitanti, se così possiamo chiamarli, per chilometro quadrato. E' una cifra analoga all'attuale densità degli aborigeni nelle regioni meno popolate dell'Australia. Considerando che il primo uomo ha tre milioni di anni, da allora si sono succedute 200 mila generazioni. Tenendo conto di altri fattori demografici, ciò equivale a circa cento miliardi di individui.
Ma l'uomo moderno chi è? Il moderno per eccellenza è il Sapiens. Apparve anche lui in Africa orientale, duecentomila anni fa.
Giunse in Europa circa quarantamila anni fa, con Cro-Magnon. Disegnava, dipingeva, intagliava, e possiamo affermare che il suo pensiero concettuale era sufficientemente elaborato da poterlo paragonare al nostro. Era molto simile a noi, dal momento che non solo sapeva di sapere, ma lo faceva anche sapere dipingendo sui muri. Tuttavia non è credibile che l'Homo faber, l'uomo che lavorava la pietra, l'uomo religioso, l'uomo cosciente, l'uomo sociale siano apparsi necessariamente nel medesimo momento.
Magia, religione, consapevolezza della morte: le sepolture più antiche, attraverso le quali l'uomo manifestò la sua prima emozione metafisica, risalgono a circa centomila anni fa. La consapevolezza della morte si sovrappose al concetto stesso di religione. Era quella forma di angoscia che, in seguito, tutte le mitologie cercarono di mitigare, spiegando ai diversi popoli che cosa facevano sulla Terra e a che cosa erano destinati. Ma la coscienza era apparsa molto prima, in modo progressivo.
Probabilmente, assieme al primo uomo, all'Homo abilis che già scheggiava il sasso secondo un progetto ben definito.
Le prime tracce religiose risalgono a un milione di anni fa: crani spaccati dopo la morte con un colpo di selce. Era un gesto rituale, cioè volontario. La sepoltura denotava una presa di coscienza molto più decisa, perché si scavava una fossa, si coloravano le pareti con l'ocra, si calava il cadavere e si cospargeva di fiori, aggiungendo pezzi di carne per il "viaggio".
In sintesi, l'uomo ha impiegato due milioni e 900 mila anni per diventare un "animale razionale". All'inizio, dagli Australopiteci a Neandertal, i progressi tecnologici furono lentissimi. Non c'era molta differenza tra i manufatti fabbricati dall'Homo abilis e quelli fabbricati dall'Homo erectus o dai primi Homo sapiens. Durante questo lungo periodo della storia dell'umanità continuò l'evoluzione biologica. Dall'Abilis al Sapiens, per esempio, il volume del cervello raddoppiò. Poi, improvvisamente, l'evoluzione tecnologica prese il sopravvento. Non era più la biologia che dominava il destino dell'uomo, ma il prodotto del suo cervello: la cultura.
Allo stadio del Sapiens, l'esperienza acquisita diventò prioritaria. Da quel momento le sollecitazioni dell'ambiente ricevettero una risposta culturale, non più biologica. L'evoluzione, la selezione naturale, l'adattamento del corpo a uno squilibrio qualsiasi, furono fenomeni che non intervennero più, perché non erano più necessari alla sopravvivenza della specie.
Siamo usciti dal nulla sbattendo due sassi tra di loro, esplorando il nostro pianeta e sviluppando la tecnologia. Ma non dimentichiamo che c'è voluta tutta la storia dell'Universo, della vita e dell'uomo per ottenere questa fragile libertà. E' questa la morale dell'evoluzione.


GLI ANTENATI

LA LEGGE DEI GRANDI NUMERI

I grandi numeri della scienza, come del resto quelli infinitesimali, spesso sembrano entità puramente concettuali, astratte. A che cosa corrispondono mille anni-luce, un milionesimo di millimetro, un miliardo di miliardi di lire? Altrettanto difficile è visualizzare o intendere i milioni o i miliardi di anni di cui parlano i paleontologi. Per rendere agevole la comprensione del tempo in scala geologica, il chimico francese Jacques Reisse ha proposto di ridurre a dodici mesi i quattro miliardi e mezzo di anni che formano la storia della Terra. In questo calendario immaginario, il primo gennaio corrisponde alla data della formazione del nostro pianeta (l'Universo avrebbe in questo caso tre anni). E noi stiamo vivendo gli ultimi istanti prima del Capodanno.
Secondo questa rappresentazione, una giornata equivale a 12,6 milioni di anni, e un'ora a 525 mila anni. Curiosamente, nella riduzione di Reisse le prime forme di vita appaiono sulla Terra verso la fine di marzo, ossia in primavera. Il 25 dicembre (settanta milioni di anni fa), nasce il Purgatorius, il primo primate. Le vicende che hanno segnato la nostra evoluzione, dagli ominidi più primitivi in poi, è concentrata nelle ultime ore dell'ultimo giorno dell'anno. Accade tutto allo scadere del 31 dicembre. E' già pomeriggio quando nasce il primo essere umano, l'Homo abilis. Neandertal appare alle 23,54.
Quattordici secondi soltanto ci separano dall'inizio dell'era cristiana. Sempre secondo Reisse, il sole si spegnerà esattamente entro uno dei suoi anni: tra 12,6 milioni di anni moltiplicato 365,6.


FIGLI DELLE STELLE

TIK!

Se non avesse smesso di mugolare, o grugnire o ruggire, l'uomo sarebbe rimasto scimmia.
L'origine del linguaggio articolato e simbolico è alla base delle prime strutture sociali delle grandi migrazioni e dello sviluppo tecnologico. Per individuare chi pronunciò le prime parole bisogna cercare di ricostruire l'apparato vocale dei nostri antenati e le strutture neurologiche necessarie alla comprensione dei suoni. Il linguaggio è legato alla flessibilità della base del cranio e all'abbassamento della laringe, caratteristiche morfologiche che dipendono, a loro volta, dalla stazione eretta, dalla regressione del volume facciale e dall'allargamento delle arcate dentarie.
Gli Australopiteci possedevano solo in parte queste caratteristiche. La flessione del cranio appare invece evidente nell'Homo erectus.
L'impronta dell'endocranio dell'Homo abilis rivela già la presenza delle aree cerebrali di Broca (motilità del linguaggio) e di Wernicke (comprensione di suoni e parole).
I paleolinguisti hanno recentemente compilato un breve lessico della lingua dei nostri antenati, quella che avrebbe poi generato le diecimila lingue conosciute. Secondo questi studiosi, la parola "tik", pronunciata un milione di anni fa, significherebbe "dito".


GLI ANTENATI FIGLI DELLE STELLE

PIETRE COME PAROLE

Contrariamente a quanto si ritiene, le più antiche pitture rupestri non sono quelle delle grotte della Spagna o della Francia, di circa 15.000 anni fa, ma le pitture segnalate in ripari della Tanzania e riferite a 40.000 anni fa. Inoltre, in Europa l'arte parietale è preceduta dall'arte mobiliare, cioè da sculture o incisioni di figure umane o di animali su pietra, o su corno, oppure su ossa di animali.
Un'espressione tipica dell'arte mobiliare sono le statuette femminili o "Veneri", che si ritrovano in varie regioni europee a partire dall'Aurignaziano (Paleolitico superiore), circa 30.000 anni fa. Queste sculture, in cui viene esaltata la maternità, potrebbero essere espressioni di un culto della fertilità. Esse continueranno nel Neolitico con varietà di stili e ricchezza di immagini per le quali il riferimento alla "Dea Madre" sembra essere evidente.
L'arte parietale ha il suo grande sviluppo in Europa nel Maddaleniano (18.000-11.000 anni fa): è l'epoca delle maestose raffigurazioni scoperte nelle profondità di caverne (Altamira, Lascaux, Niaux, Porto Badisco, ecc.), veri e propri "santuari" o luoghi di raduno a carattere rituale. Le figure, realizzate con grande perfezione stilistica, solo quasi sempre di animali, talvolta di esseri antropo-zoomorfi, di cacciatori, ma si ritrovano anche segni di carattere simbolico (punti, segmenti, ecc.). A queste raffigurazioni è stato attribuito un significato magico-religioso o propiziatorio (Breuil). Altri hanno visto nella frequente associazione di alcuni animali (cavallo e bisonte) qualche simbolismo della vita sessuale (Leroi-Gourhan) o sociale (Laming-Emperaire). A cacciatori della stessa epoca (tra 20.000 e 12.000 anni fa) vengono riferite numerose testimonianze di arte rupestre all'aria aperta trovate in Africa, in Asia, in Australia, con evidenti analogie nei temi figurativi.
Nel Neolitico sono i popoli agricoltori e pastori che lasciano, soprattutto su rocce all'aperto, figure schematiche di arcieri e di animali cacciati o allevati dall'uomo.
Le più antiche espressioni artistiche sono dell'epoca di Homo sapiens sapiens (a partire da circa 40.000 anni fa). Ma c'è da chiedersi: sono "le prime", quasi che in precedenza l'uomo fosse privo di gusto estetico? Sembra di no. Vi sono industrie litiche molto più antiche, in cui l'armonia delle forme e la simmetria della lavorazione esprimono un senso estetico che va oltre la funzionalità dello strumento. Le radici dell'arte sono antiche quanto l'uomo.


COME DATARE I REPERTI

Come fanno i ricercatori a datare con sicurezza reperti ossei, pietre scheggiate, resti di accampamenti che giungono fino a noi dalla lontana preistoria? La datazione può essere stabilita in due modi.
Relativo - E' quel tipo di datazione in cui i reperti o i depositi sono messi in sequenza cronologica l'uno rispetto all'altro, senza tuttavia che si riesca a stabilire la loro età in anni calendariali. A queste sequenze relative si arriva osservando la posizione stratigrafica (i materiali più antichi si trovano, di norma, sotto quelli più recenti), la seriazione dei manufatti (le caratteristiche "stilistiche" sono confrontate con quelle di materiali già noti di altri giacimenti), il dosaggio del fluoro nei reperti ossei (che permette di stabilire la contemporaneità o meno di ossa rinvenute nello stesso deposito) e diverse altre tecniche di indagine per stabilire le condizioni climatiche ed ecologiche presenti all'epoca della formazione del deposito e poterlo così collocare all'interno di una scala temporale già nota. A questo scopo vengono esaminate le caratteristiche fisiche delle rocce e del terreno, la presenza di resti di micromammiferi, di pesci, di fossili "guida", di pollini, di diversi altri aspetti del deposito.
Assoluto - Si parla di datazione assoluta quando l'antichità di un reperto può essere espressa in anni a partire da oggi. Fra le tecniche maggiormente usate per determinare con precisione l'età dei reperti preistorici, vi sono la datazione potassio-argon e quella radiocarbonica, sviluppatesi negli ultimi decenni. La datazione potassio-argon si basa sul decadimento di un materiale presente in gran parte delle rocce e dei minerali, ha un solo isotopo radioattivo, il K 40, che si disintegra col trascorrere del tempo con la cattura di un elettrone che trasforma il K 40 in gas argon 40 secondo una velocità a noi nota. Misurando quindi la quantità di argon e di potassio presenti in un sedimento è possibile sapere esattamente quando questo si è formato e quindi anche l'età dei reperti in esso contenuti. A causa della possibile contaminazione dei depositi da parte di argon atmosferico che porterebbe a errori di datazione, questo metodo viene utilizzato solo per l'analisi di materiali (solitamente di origine vulcanica, come la pomice o i tufi) più vecchi di centomila anni.
Il metodo del radiocarbonio (Carbonio 14) può essere impiegato per datare la maggior parte dei materiali organici non più vecchi di circa 70 mila anni. Ogni organismo vivente assorbe attraverso la catena alimentare carbonio radioattivo (isotopo 14 C) sotto forma di diossido di carbonio. Tale assimilazione continua fino a che l'organismo è in vita; poi, dal momento della morte, l'isotopo radioattivo inizia il processo di decadimento nell'azoto. Essendo conosciuta la velocità di questo processo (in 5.730 anni si riduce alla metà) è possibile, misurandone la quantità rimasta, stabilire l'età del reperto organico (legno, carbone, ecc.) con un margine di errore piuttosto basso.


MISTERI DEL BRONZO

L'UOMO VENUTO DAL GHIACCIO

Da molto tempo le donne si vestivano con tessuti ricavati da fibre vegetali e si ornavano con fermagli, con corone, con diademi. Gli uomini avevano scoperto l'utilità pratica dei calzoni, tubi di cuoio persino raffinati; maglie di lana li proteggevano dal freddo. La caccia era ancora praticata, anche se si allevavano animali da cortile e maiali simili ai cinghiali. Con il latte delle capre già si sapevano fare i formaggi. Negli accampamenti in quota e negli insediamenti più stabili, a valle, si sentivano latrare i cani, discendenti addomesticati dei lupi. I contemporanei dell'uomo di Similaun, come è stata ribattezzata la mummia dell'uomo dell'Età del bronzo trovata in territorio italiano, al confine con l'Austria, coltivavano sistematicamente il grano farro, il grano duro e la segale, e sapevano fare fermentare l'orzo, ricavandone birra. Non erano più cacciatori e raccoglitori in perenne vagabondaggio, ma uomini sedentari che avevano sviluppato la concezione del villaggio, punto centrale della loro esistenza.
La scoperta dell'uomo venuto dal ghiaccio, vissuto con ogni probabilità 4.500 anni fa, ha suscitato nuovo interesse per quel periodo cruciale della protostoria, l'Età del bronzo appunto, durata alcuni millenni, e ha aperto anche interrogativi sulla conquista della montagna da parte dei primi gruppi umani. Tutta intera la catena alpina, infatti, era stata terra sconosciuta durante il Paleolitico.
I primi ad avventurarsi verso questo nuovo orizzonte furono uomini del Mesolitico, circa 10.000 anni fa. A testimoniarlo, fra l'altro, è una sepoltura ritrovata a Mont de la Val de Sora, 1.600 metri di quota, in provincia di Trento: sotto un gran masso, gli specialisti dell'Università di Ferrara hanno scoperto i resti di un cacciatore, assieme a strumenti di selce e a un arpione ricavato da un corno di cervo. Il suo corpo era stato trattato, nel corso del rito funebre, con sostanze coloranti come l'ocra rossa. Altro ritrovamento importante in Val Rosna, nelle Dolomiti: gli archeologi ferraresi hanno scoperto quindici pietre tombali e lo scheletro intatto di un uomo vissuto 11.000 anni fa. Vicino, uno strumento di selce, una punta d'osso, una pallina di ocra e un mattone d'argilla con un dipinto funebre di tipo simbolico che raffigura un millepiedi. Ma le località alpine conosciute del Mesolitico e del Neolitico, la fase finale dell'età della pietra, sono almeno venti, distribuite fra Trentino, Veneto, Liguria e Lombardia.
Come mai l'uomo si avventurò sulle Alpi? Soprattutto per motivi di sopravvivenza. A causa di una glaciazione che aveva fatto sparire dalle pianure la maggior parte dei grandi mammiferi, il sistema di caccia e di raccolta entrò in crisi. Alcuni animali, come gli stambecchi e i camosci, si erano però adattati bene al freddo e si erano rifugiati in alta montagna quando i ghiacci si erano ritirati. E l'uomo, favorito dal clima divenuto più mite in molte vallate alpine, li andò a cercare. Gruppi di cacciatori, che portavano con loro strumenti di pietra piccoli e leggeri (microliti), salirono dunque sui monti. E alle quote alte trovarono acqua a volontà. Che questa sia stata la prima fase della conquista della montagna lo ammettono ormai tutti gli studiosi. La seconda, molto più importante, si verificò dopo che dalle attuali Bulgaria e Romania gruppi in migrazione avevano portato agli uomini preistorici della penisola italiana il più recente ritrovato della tecnologia dell'epoca: una lega di rame e di stagno, metalli esistenti in natura, aveva creato il bronzo.
Nessuno sa come l'uomo abbia capito che il rame fuso, mescolato in proporzioni diverse con lo stagno, potesse essere modellato per creare utensili e strumenti. Quel che è certo è che in poco tempo furono compresi i vantaggi del bronzo, che ha la proprietà di non rompersi, come invece accadeva con gli utensili di calcare o di selce. In più, il bronzo doveva rappresentare una specie di status symbol: era utile e bello nello stesso tempo. Così, la montagna cominciò ad essere frequentata, alla ricerca di minerali che contenessero metalli utili per fondere strumenti e monili. E anche per realizzare primitivi osservatori astronomici: sul Piccolo San Bernardo c'è un cromlech, vale a dire una struttura megalitica, che da anni sta appassionando gli studiosi. Si tratta di diversi cerchi del diametro di ottanta metri, formati da pietre piantate verticalmente. Studiando la posizione di Luna e Sole, si poteva mettere a punto un rudimentale calendario.
Mentre l'uomo di Similaun scalava le alte quote tirolesi, infatti, si stava compiendo la prima, importante rivoluzione della storia: la nascita dell'agricoltura e dell'allevamento di specie domestiche.
Per la semina e per la riproduzione degli animali era necessario conoscere sempre meglio i cicli stagionali e naturali. Con l'avvento dell'agricoltura la condizione di relativa libertà del vecchio regime di caccia e raccolta era quasi cessata. Perché? La impossibilità di ottenere grandi scorte alimentari, mediante la produzione di cibo, diede impulso a un cospicuo incremento demografico. I gruppi umani, da nomadi, divennero stanziali e dipendenti da un territorio circoscritto. Se poi il numero delle persone da nutrire era sproporzionato rispetto alle risorse della zona, si doveva coltivare più terreno e allevare un maggior numero di animali. Così, se da una parte l'uomo dell'Età del bronzo cominciava a controllare il territorio, dall'altra era fortemente impaurito dai suoi cambiamenti. La vita dipendeva ormai dalla maggiore o minore generosità della terra. E forse proprio per questo motivo sin dal Neolitico comparvero le "Veneri", statuette realizzate dapprima in pietra, e in seguito in ceramica, che rappresentavano dee della fertilità.
L'uomo di questa Età costruì palafitte per stabilirsi direttamente sull'acqua che garantiva coltivazioni più redditizie. E proprio vicino ai laghi, come quelli di Ledro e di Iseo, a Piadena e Sirmione, in Lombardia, e presso il lago di Neuchâtel, in Svizzera, gli archeologi hanno trovato utensili, ornamenti e capi di vestiario. Più che la complicità dei ghiacciai, com'è avvenuto per l'uomo di Similaun, in queste aree sono stati risolutivi gli ambienti anaerobici (cioè scarsamente ossigenati) dei bacini, con la mancanza pressoché totale di batteri distruttori sui fondali: fatto che ha consentito la conservazione eccezionale di reperti in cuoio, in lana e anche in lino.
Lo stile di vita degli uomini di questa Età era regolato dalle leggi di clan allargati all'interno di microsocietà primitive. Le unità principali erano i villaggi: in Europa, per esempio, non furono mai realizzate quelle grandi opere collettive per l'irrigazione che divennero il presupposto per la formazione di unità economico-politiche più articolate e complesse, per il sorgere di caste di tecnici, di sacerdoti, di militari, come avvenne in Oriente, nel Vicino Oriente e nell'America centromeridionale.
Ma gli uomini del Bronzo dovettero ben presto affrontare un problema che i loro antenati cacciatori e raccoglitori non avevano conosciuto: quello della proprietà privata, costituita dai terreni coltivati e dal bestiame allevato. Così questa era divenne anche l'epoca delle armi su larga scala: armi per difendere i beni del villaggio o per conquistare le risorse degli altri. In Valcamonica, dove sono state finora contate 250.000 incisioni rupestri, e sul Monte Bego, nelle Alpi Marittime, dove ce ne sono oltre 100.000, a 2.500 metri di quota, l'uomo del bronzo espresse molto bene sulla roccia il suo modo di pensare. Aratri e buoi, raffigurati con frequenza, spiegano tanto il legame ossessivo con la terra, quanto il mito del toro, che è di antica derivazione mediorientale. Ma è in particolare la rappresentazione di moltissime armi a impressionare: uomini con pugnali, con spade, con scudi. E divinità antropomorfe, con la testa a forma di Sole, con il corpo costituito da segmenti che raffigurano lame e pugnali. Sono i segni di un'altra rivoluzione, che soltanto da poco gli antropologi hanno cominciato a decifrare e a capire. In parole semplici: l'Età del bronzo come periodo in cui a una pratica della violenza diffusa ma limitata si sostituisce un'altra più organizzata, legittimata dalla necessità di difendere bestiame e campi coltivati.
Una controprova? A poco a poco, le "Veneri" della fertilità scompaiono. Al loro posto, si affermano gli dei della guerra. I monoliti ciclopici di Stonehenge proiettavano già la loro maestosa geometria sulle praterie del Sussex; in Sardegna venivano innalzati i primi nuraghi; le tombe megalitiche delle Baleari, i dolmen, i cromlech di Bretagna già costellavano le pianure d'Europa, quando il guerriero di Similaun esalava l'ultimo respiro fra i ghiacci delle Alpi. Da quelle creste egli avrebbe potuto idealmente dominare verso sud le penisole mediterranee che già si aprivano alle prime influenze delle civiltà d'Oriente, e verso nord un'Europa "barbarica", dove però già si espandevano le radici delle sue future nazioni. Forse egli morì proprio nell'atto di passare da un mondo all'altro, varcando la barriera delle più alte montagne del continente e perdendo la vita in un'impresa che doveva essere relativamente comune alla sua gente. Il gelo ce lo ha conservato così come le torbiere di Danimarca ci conservarono un altro europeo dell'Età del bronzo, l'Uomo di Tollund, strangolato e gettato in un lago, probabilmente per un rito sacrificale.
Le rupi alpine e quelle vette alte come il cielo sarebbero state descritte, secoli e secoli più tardi, come regioni impossibili, abitate da forze ostili e superumane che soltanto ad eroi dalla forza smisurata era dato valicare. Così, si raccontò che Ercole avesse attraversato quei gioghi, diretto a Occidente, per rapire i pomi fatali delle Esperidi e le mandrie di Gerione. In realtà, molti anonimi esseri umani abitavano e frequentavano le valli alpine quattromila e più anni fa, e continuarono ad abitarle fino all'età storica, colonizzando i pendii e le sponde fluviali con i loro villaggi e le superfici lacustri con le palafitte. I Camuni hanno lasciato incise le loro testimonianze sulle rocce.
Ad Aosta è stata scoperta una necropoli megalitica che fu attiva dal 2600 al 2000 avanti Cristo e in cui lo scavo ha rivelato un inquietante cerimoniale: le tombe erano comprese all'interno di una doppia linea di pali, alla base di ciascuno dei quali c'era un cranio bucato di ariete. In quell'area era stata poi praticata un'aratura rituale e la semina di denti umani, un atto che richiama subito alla memoria il mito degli Argonauti, in cui si narra che Giasone seminò denti di drago dai quali nacquero bellicosi guerrieri coperti di bronzo. In questa necropoli, come in una analoga e coeva scavata a Sion, in Svizzera, si distinguono stele antropomorfe erette in posizione solitaria e non collegate direttamente a una sepoltura. Su di esse è scolpito il vestito riccamente ornato del guerriero, insieme con l'arco, con l'ascia, col pugnale, le stesse armi che sono state scoperte accanto all'uomo di Similaun. Ci troviamo qui di fronte a una forma di eroizzazione di personaggi importanti della comunità che evidentemente si distinguevano per la loro forza.
L'arco, l'ascia, il pugnale ci fanno capire anche come si svolgevano gli scontri fra le varie unità tribali per il controllo del territorio: prima, da lontano, lancio di nugoli di frecce; poi, da distanza più ravvicinata, si scagliavano le asce; da ultimo, la battaglia si risolveva in un selvaggio corpo a corpo con l'uso del largo e corto pugnale, come il bellissimo esemplare rinvenuto a Tirano, in Valtellina.
In Italia, ad esempio, i villaggi terramaricoli (il nome viene da "terramare", termine con cui i contadini padani indicavano i giacimenti archeologici di questa cultura) raggiunsero forme di sviluppo straordinario. Ogni insediamento era circondato da un vallo rafforzato da palificazioni e graticciati e circondato da fossati larghi anche trenta metri in cui si faceva scorrere l'acqua con sofisticati sistemi idraulici di prelievo e di scarico. La geometria ortogonale di questi insediamenti fece pensare ai primi paletnologi di poter riconoscere nei loro abitanti gli antenati degli Italici, e dei Latini in particolare. E' stato calcolato che nella Valle Padana la densità degli insediamenti terramaricoli fosse di uno ogni quattro chilometri e la popolazione di circa sedici abitanti per chilometro quadrato.
Verso la metà del secondo millennio, stranamente, in Italia le comunità del Nord erano più sviluppate di quelle del Sud esposte a una sorta di "colonizzazione" dall'Oriente. Un mito antichissimo parla di una spedizione di Minosse contro la Sicilia e gli scavi di Sant'Angelo Muxaro hanno fatto pensare alla mitica Camico e al suo re Kòkalos. E' questo il periodo in cui la penisola ellenica è occupata da una razza di formidabili guerrieri che si insediano in Beozia, in Attica e nel Peloponneso. La poesia di Omero li avrebbe chiamati Achei e le scoperte di Enrich Schliemann li avrebbero classificati come Micenei, dalla possente città argolica su cui regnò la tragica dinastia degli Atridi.
Su questa civiltà, come su quella minoica che l'aveva preceduta, avevano avuto forte influenza le civiltà teocratiche e palaziali dell'Oriente, determinando un assetto politico di tipo monarchico, fortemente accentrato e burocratizzato qual è quello che possiamo dedurre dalle tavolette di "Lineare B" restituite dagli scavi di Micene. Certo, le terramare e i villaggi dell'Europa centrale erano poca cosa, paragonati ai palazzi dei signori micenei, alle rocche formidabili di Argo e di Tirinto, eppure non è poi tanto arrischiato pensare che già in questo periodo si formasse l'embrione di quella che un giorno sarebbe stata la civiltà politica d'Europa: le comunità del villaggio e della città in cui si sarebbero sviluppate le forme del vivere comune e della comune gestione della cosa pubblica.
Quasi sicuramente, nei cinquecento anni che separano l'età dell'uomo di Similaun dall'era dei principi micenei, si formarono le radici dei popoli europei, si configurarono le etnie che sarebbero balzate da protagoniste sulla ribalta della storia: i Greci, i Latini, i Siculi muovevano dalle sedi originarie verso le loro sedi storiche. Sulla costa sud del Tirreno si stabilivano i mitici Ausoni, antenati della nazione italica di cui sembra si possa riconoscere l'invasione nelle distruzioni dei primi villaggi dell'Età del bronzo a Lipari. Forse nell'Europa centrale si stabilizzavano lentamente le culture da cui sarebbero originate le nazioni celtica e germanica, che per lungo tempo sarebbero state-chiamate dai Greci col misterioso nome di Iperborei.
In questo periodo si diffonde il cavallo, e con esso l'uso del cocchio, vero e proprio simbolo dell'eccellenza guerriera e aristocratica. Le lance diventano lunghe e pesanti, le spade grandi e massicce. I corredi maschili sono distinti, nelle tombe, dai costosi attributi guerreschi, quelli femminili da preziosi gioielli di ambra importata dalle remote regioni baltiche. Le comunità, da nuclei di tipo parentale, passano a forme più complesse, si sviluppano relazioni fra gruppi aristocratici sulla base di doni ospitali e anche dello scambio matrimoniale. La determinazione del gruppo sanguigno nei resti degli inumati, in una necropoli del Sud d'Italia, ha dimostrato che mentre tutti gli uomini erano omogenei (e dunque autoctoni), l'unica donna presente veniva da altri gruppi etnici. I signori cominciavano a praticare lo stile di vita che ne avrebbe immortalato l'etica nelle tradizioni epiche. La ricchezza permetteva loro di esercitarsi nell'uso delle armi, l'alimentazione più ricca li faceva più forti, persino più alti degli altri comuni mortali, e questo loro carattere li avrebbe distinti nella poesia eroica come esseri superumani.
Forse, nella seconda metà del secondo millennio, si fissarono le tradizioni che in seguito avrebbero trasmesso i grandi miti; e forse nacque la poesia orale, specchio e celebrazione di un mondo aristocratico e guerriero destinato un giorno a cristallizzarsi nella solenne fissità dei grandi poemi epici.
Poi, verso la fine del XII secolo, d'improvviso, la catastrofe. Le possenti rocche micenee sono distrutte dal ferro e dal fuoco, l'impero anatolico degli Hittiti va in pezzi, l'Egitto faraonico è scosso dalle fondamenta da disastrose invasioni e suoi documenti geroglifici indicano popoli che avrebbero dato il proprio nome alle regioni più lontane e disparate, come se una loro effimera coalizione fosse esplosa disseminando il Mediterraneo di schegge impazzite: Lici, Filistei, Siculi, Achei, Sardi, Dardani, Tirreni ... Persino in Italia le terramare sono improvvisamente abbandonate e quando, agli inizi dell'Età del ferro, i Villanoviani protoetruschi si affacciano in Val Padana dai valichi appenninici, si trovano in un paese spopolato.
Le cause di un cataclisma del genere non sono ancora del tutto chiare. C'è chi pensa a una grande invasione, c'è chi ipotizza una lunga carestia causata da una persistente e micidiale siccità, c'è chi pensa alle due cause insieme e all'esplodere di tumulti e di rivolte interne.
L'età degli eroi tramontava per sempre e si apriva un periodo dai contorni storici e culturali confusi: una sorta di oscura età di mezzo. Eppure, sulle sponde dell'Anatolia, la diaspora micenea si sarebbe ristabilita portando con sé le sue tradizioni, le memorie dei fulgidi palazzi, degli ori, degli avori, dei "bronzi accecanti", con le saghe delle imprese degli eroi che un giorno avevano regnato sulle pianure di Argo nutrice di cavalli, su Pilo sabbioso, su Itaca rocciosa. La lancia di Achille giaceva ormai spezzata, ma la nave di Odisseo si era salvata, e dai porti sicuri di Anatolia si apprestava nuovamente a mettere la prua alle onde.


ABORIGENI DEL DUEMILA

GLI ULTIMI CACCIATORI

Gli sviluppi dell'agricoltura erano stati lentissimi soprattutto nei primi millenni e la diffusione delle tecniche di coltivazione avevano impiegato migliaia di anni per raggiungere regioni lontane da quelle in cui avevano avuto inizio. Ma ancora oggi l'agricoltura non è giunta dappertutto, sia per la stessa lentezza di diffusione sia perché alcuni ambienti ecologici, come la tundra e la foresta tropicale, si prestano poco o per nulla alle nuove tecnologie, e quindi sopravvivono in diverse parti del mondo tribù che non hanno abbandonato, o non hanno abbandonato completamente, il modo di vivere che ha caratterizzato l'uomo per oltre duemila anni. Gli antropologi chiamano questi uomini sempre "cacciatori-raccoglitori". Oppure "aborigeni".
La stessa pesca non è una novità: il pesce si mangiava già da almeno 400 mila anni, e l'amo e l'arpione erano in uso in Europa e in Africa da almeno 14 mila anni. Settemila anni fa i frutti della pesca costituivano il 70 per cento del cibo in Danimarca. Sulla costa del Pacifico, in Canada, il salmone che imboccava la foce dei fiumi per risalirli e compiere l'ultimo atto della sua vita, la riproduzione, veniva facilmente catturato con le mani e costituiva una ricchissima fonte di nutrimento per una popolazione numerosa. A differenza del salmone europeo, quello americano muore dopo aver generato.
Pesci e molluschi sono stati per lungo tempo materia prima di nutrizione, ma solo per le popolazioni vicine al mare o all'acqua dolce. La maggioranza cercava altre risorse, e le trovava nella caccia e nella ricerca di frutta, tuberi, funghi, radici. Vi sono ancora oggi popoli di cacciatori-raccoglitori in ogni continente, esclusa l'Europa. Vivono tutti in zone marginali, distanti dai centri abitati anche più modesti, e dalle strade e piste battute. In Siberia vivono cacciatori Nganasan di renne selvatiche, ma soltanto nell'estremo nord, e sono ormai poche centinaia. Gli altri Nganasan sono diventati pastori di renne addomesticate.
Nel Sud dell'India vi sono alcuni popoli di cacciatori-raccoglitori, come in Malesia, nelle Filippine e - scoperti solo qualche anno fa - nel cuore del Borneo. Nell'estremo nord dell'America vi sono gli Esquimesi. Nelle foreste dell'Amazzonia centinaia di tribù aborigene rifiutano la vita moderna, anche se hanno imparato a coltivare alcune specie di piante che crescono anche in foresta, come la manioca. Questa piccola agricoltura non impedisce loro di muoversi quasi quanto il cacciatore, e del cacciatore hanno conservato i costumi.
In Africa sopravvivono due grandi gruppi di cacciatori-raccoglitori: i Pigmei nella foresta tropicale, e i Boscimani nel deserto del Kalahari (Namibia e Botswana). In Australia, al tempo della scoperta, c'erano circa 300 mila aborigeni, oggi ridotti a 45 mila, di cui alcuni acculturati, altri in riserve presso grandi città, e pochi viventi ancora secondo i costumi tradizionali in una regione del nord che il governo australiano ha chiuso completamente all'accesso di estranei. Gli aborigeni australiani usavano ancora strumenti di pietra al tempo della scoperta. I loro vicini più a nord, gli aborigeni della Nuova Guinea, hanno continuato ad usarli più a lungo, e fino agli inizi degli anni '70 del nostro secolo ciascuno possedeva e sapeva fare strumenti di pietra, ma aveva ormai occasioni per procurarsi coltelli e strumenti moderni di metallo. In realtà, al tempo della scoperta la Nuova Guinea era tecnicamente più avanzata dell'Australia, poiché aveva adottato l'agricoltura da millenni ed era, archeologicamente parlando, nel Neolitico anziché nel Paleolitico, il livello culturale al quale erano rimasti ancorati gli Australiani.
Gli studiosi sono molto interessati a conoscere la vita dei pochi cacciatori-raccoglitori superstiti, perché pensano di poter così ricostruire il sistema di vita dei nostri antenati. Lou Binford, docente di antropologia ad Albuquerque, nel Nuovo Messico, ha trascorso parecchio tempo con gli Esquimesi per capire qualche cosa di più della vita dei cacciatori Maddaleniani che abitavano in Europa al tempo dell'ultima glaciazione. Allora il clima, oggi temperato, non era molto diverso da quello del Canada del Nord. Sedicimila anni fa circa andavano a caccia nel Sud-Ovest della Francia i pittori della grotta di Lascaux, la "Cappella Sistina della preistoria". Col tratto sicuro dei grandi artisti, costoro disegnavano sulle pareti delle caverne le figure degli animali che allora popolavano le colline e le valli, e che costituivano il loro bersaglio e cibo quotidiano.
Oggi gli Esquimesi (o Inuit, come essi stessi si chiamano) sono ridotti a poco più di ventimila e hanno dovuto piegarsi a molti adattamenti e compromessi per sopravvivere. Gli ultimi igloo sono degli anni '60. Di solito gli Inuit vivono in prefabbricati forniti dal governo canadese, che passa a ciascuno di loro anche un modestissimo sussidio. Ma la loro Weltanschauung sopravvive. Una caratteristica curiosa: secondo una recente statistica, circa il 75 per cento degli adulti Inuit ha vocazione artistica. La prima attività è stata la scultura, per lo più in pietra locale, la steatite, dalla superficie lucida e morbida al tatto. Qualche volta si usano l'avorio e l'osso.
Da qualche anno un artista e scrittore canadese, James Houston, ha introdotto tra gli Inuit la tecnica litografica, lasciando agli allievi la più totale libertà d'espressione, di tecnica del disegno, di scelta dei temi e soggetti. Risultato: sono nate splendide opere d'arte, e sono nate piccole comunità d'artisti disperse nell'Artico, tanto che il governo canadese ha messo su un archivio completo di fotografie e di originali dei disegni, delle stampe e delle sculture.
Sorprendenti le analogie di comportamento sociale tra Inuit, Australii, Pigmei, Boscimani, aborigeni del Borneo: specchio fedele dei tempi in cui l'agricoltura ancora non esisteva.


MONUMENTI MEGALITICI

GLI UOMINI DI PIETRA

Dall'imponente complesso megalitico del III millennio a.C. scoperto alla periferia di Aosta sono emerse decine di stele incise, raffiguranti personaggi riccamente abbigliati, piattaforme di pietre, tra cui un'enigmatica struttura, lunga quindici metri, a pianta triangolare, sulla quale poggia una tomba-stanza (un dolmen) formata da grandi lastroni disposti a cubo, e varie tombe. Le stele non sono disperse nel terreno, ma inglobate come materiale da costruzione nelle strutture delle tombe, e per capire perché vennero utilizzate e chi potrebbero raffigurare, è necessario ripercorrere la lunga vita di questo complesso preistorico.
La parte più antica dell'insediamento risale intorno al 3000 a.C. ed è rappresentata da una serie di buche in cui vennero deposti crani di bue e di ariete e poi infissi grossi pali, probabilmente con immagini totemiche. Circa tre secoli dopo, l'intera arca venne delimitata da un'aratura rituale e da una "semina" di veri denti umani, in prevalenza incisivi. Poi il tutto fu ricoperto con uno strato di terra sul quale, tra il 2700 e il 2400, vennero eretti piccoli menhir, larghe piattaforme di pietra e due allineamenti di stele, alte fino a tre metri, raffiguranti personaggi riccamente vestiti e in alcuni casi armati di pugnali, di asce e di archi. Intorno al 2400 qualche cosa cambiò: le stele vennero abbattute in modo che la faccia disegnata fosse rivolta verso il terreno o, in molti casi, utilizzate come materiale da costruzione per realizzare grandi tombe collettive. Nonostante l'abbattimento e il reimpiego come materiale da costruzione, le stele dovettero conservare un certo valore simbolico, quasi fossero considerate reliquie in grado di "divinizzare" le sepolture dei personaggi più importanti.
A questa fase appartiene anche la grande struttura triangolare sulla quale sorge il dolmen che ha restituito gli scheletri di una cinquantina di individui. Verso la fine del III millennio le tombe divennero meno monumentali e lentamente il luogo decadde: si concludeva in questo modo l'avventura degli uomini delle stele, giunti mille anni prima nella Valle d'Aosta.
Ma come leggere questi monumenti? E chi furono i costruttori? E da dove venivano?
Secondo un'ipotesi dell'archeologo Franco Mezzena, proprio agli inizi del III millennio gruppi umani stanziati nelle regioni del Caucaso si spostarono in diverse ondate in direzione occidentale alla ricerca di metalli, percorsero tutta l'Europa seguendo il corso dei fiumi, raggiunsero il Baltico e il Mare del Nord, costeggiarono l'Atlantico e navigarono il Mediterraneo in lungo e in largo. Dovunque passassero, questi uomini avventurosi lasciarono i segni della loro presenza (stele e menhir) e portarono innovazioni fondamentali: l'aratro, la ruota, il carro, un preciso sistema di misura e nuove idee religiose, espresse appunto nei monumenti megalitici e nelle stele.


Questi uomini sono gli eroi della mitologia greca e sono senza dubbio gli uomini che in meno di due secoli crearono la prima "unità europea", diffondendo in tutto il continente nuove conoscenze e nuove ideologie. Si chiamavano Ercole, Giasone, Cadmo, e le loro gesta narrate dai miti, come quello degli Argonauti alla ricerca del vello d'oro, altro non sono che la trasposizione di una realtà storica ora riscontrabile archeologicamente. Le rotte indicate dagli antichi racconti, che credevamo leggenda, sono segnate dai giganteschi menhir (le Colonne d'Ercole che le fonti antiche collocano infatti non solo a Gibilterra), e dalle stele che dalla Russia al Portogallo presentano sempre gli stessi canoni stilistici. Ad Aosta, inoltre, la grande struttura triangolare suggerisce la prua di una grossa nave sulla quale viaggiano simbolicamente i defunti sepolti nel dolmen-cabina: un simulacro di pietra che ricorda le vere navi degli eroiesploratori.
I primi viaggi di esplorazione delle terre occidentali dovettero rappresentare una fase epica per questi popoli e presto i protagonisti entrarono nel pantheon di diverse popolazioni, greci compresi, che ce li hanno tramandati col linguaggio del mito, finendo così per oscurare la realtà storica. Ma ora sappiamo che i miti sono spesso realtà trasfigurate: molti dei rituali trovati in queste tombe, come l'aratura sacra, la semina dei denti, la sepoltura di solo alcune parti dei corpi, sono esattamente quelli che gli scrittori greci hanno descritto parlando del mito degli Argonauti, di Cadmo, di Ercole: la corrispondenza è impressionante. E sconcertante è anche la capacità che hanno le tradizioni, gli oggetti, le idee, di attraversare i millenni per ripresentarsi quasi intatti ai nostri occhi. E' il caso del sistema di misura impiegato dai costruttori di questo complesso megalitico: è il sistema di misura anglosassone, col pollice e con la yarda. Soltanto dopo anni di lavoro ci si è accorti che ogni particolare costruttivo e persino ogni dettaglio dei disegni delle stele vennero eseguiti osservando scrupolosamente queste unità di misura. E si ha una ragionevole certezza: quando si andrà a controllare i monumenti megalitici delle altre aree europee si troveranno le identiche misure.


Ciò significa che nell'area anglosassone il sistema è sopravvissuto intatto per cinquemila anni, come peraltro è accaduto anche nella Valle d'Aosta, dove pollici e yarde sono stati utilizzati fino al periodo napoleonico: evidentemente, ci fu un'epoca in cui queste unità di misura erano comuni in tutta Europa. Si è altresì convinti che si troveranno stele anche in zone ricche di megaliti, anche se finora, per disattenzione degli archeologi, non hanno restituito monumenti figurativi, come il Nord Europa e la Gran Bretagna. Questo completerebbe il panorama della diffusione del popolo delle stele.
Ma ci sono altri particolari curiosi: i personaggi raffigurati nelle stele indossano corpetti caratterizzati da disegni geometrici, triangoli, quadratini, losanghe, che formano un "tessuto" molto simile alle stoffe scozzesi, e l'impressione è accentuata da quel "perizoma" semicircolare che sembra proprio la borsa che gli scozzesi portano appesa davanti al gonnellino. C'è da chiedersi se in quelle regioni del Nord, oltre al sistema di misura, non si siano conservati anche intatti gli abiti che fecero la prima Europa.


I BISONTI Di SORMIOU

LA CATTEDRALE SOTTO IL MARE

Una cattedrale del Paleolitico superiore. Henri Cosquer, l'uomo che l'ha scoperta, ne parla con emozione. Non è un archeologo. E' un subacqueo. La grotta di Sormiou ci riporta indietro di 18, forse 19 mila anni. Dà le vertigini l'idea di questo "arretramento" della storia europea. Anche perché di quei disegni scoperti sulle pareti, uno scienziato del calibro di Jean Courtin, direttore di ricerca al Cnrs francese, vede una sorta di linguaggio in codice, "un po' come quello dei sordomuti". Soprattutto nelle mani dalle dita tagliate o ripiegate. Appartenevano ai nostri antenati, che la scienza chiama uomini del Cro-Magnon.
La grotta è più antica di quella di Lascaux, che risale a 13 mila anni fa. Sulle pareti del calanco di Sormiou, che si trova tra Marsiglia e Cassis, si coglie un'arte più elaborata. Un'arte, dicono gli specialisti, che si ignorava. Oltre alla rappresentazione di animali, ci sono alcuni segni geometrici, il cui esame durerà ancora per molti anni, con tutto uno sfondo di mistero.
La grotta porta il nome del subacqueo, il quale dice: "Quel cunicolo a trentasei metri dal livello del mare, tra le calanche della baia di Triperie, mi attirava, anche se poteva essere senza interesse, come tanti altri nella zona". Il suo racconto prende le mosse da un giorno del 1985 quando, immergendosi, scorse l'ingresso della grotta.
Salì lungo il budello per duecento metri, ma l'acqua era torbida. Per di più le lampade si spensero improvvisamente, per un guasto.
La grotta si raggiunge soltanto dalle profondità del mare. Ora, le autorità francesi stanno pensando di trovare un ingresso in superficie, magari scavando una galleria, per consentire agli scienziati di esaminare i "dipinti" degli uomini di Cro-Magnon. Ma è un rischio enorme quello di modificare l'equilibrio dell'atmosfera all'interno della cavità.
Nel 1987 - ed era la seconda volta che Cosquer ci provava - riuscì ad emergere nella "navata" della cattedrale paleolitica. La visione delle pareti "affrescate", in una sala di circa cinquanta metri di diametro dalle quali si alzano le stalagmiti, lo sconvolse. Si rese subito conto dell'importanza della scoperta e ne informò le autorità scientifiche. Era il 3 settembre 1990. Venne immediatamente impartito un ordine: top secret scientifico. Non si doveva rivelare l'esistenza della grotta. Oltre tutto, tre speleologi, forse attirati dalle voci che già correvano a Cassis, vi avevano perso la vita. Uno di essi morì di paura perché non trovava più il cunicolo d'uscita. Gli altri due per mancanza d'aria, forse per un guasto alle bombole.
Il 15 settembre, accanto a Cosquer che sale tenendosi a una corda, c'è il professor Courtin. La scoperta è sensazionale anche rispetto a quelle di altre grotte dei Pirenei o dei Paesi Baschi spagnoli.
Courtin è stupefatto e affascinato nello stesso tempo. Ci sono due sale. La seconda si alza a cupola per trenta metri. Ma è nella prima sala, quella più grande e nella quale si emerge, che si trovano i disegni preistorici. Sulle pareti ci sono pitture che raffigurano sei cavalli, tre bisonti, tre volatili - ma potrebbero essere anche dei pinguini - un cervo, alcuni stambecchi e persino un felino che fa pensare a una pantera. Tutti tracciati col carbone e all'ossido di manganese. Poi ci sono delle incisioni che gli uomini del Cro-Magnon realizzarono con pezzi di selce: cavalli, stambecchi, anche camosci, e - particolare stupefacente - una foca.
Lo stambecco è un animale che vive nelle zone fredde. All'epoca in cui la grotta divenne luogo di culto, si poteva raggiungere via terra: la linea di costa era ad oltre dieci chilometri. Tutt'intorno, c'era un clima simile a quello della Norvegia. Un puro e semplice paesaggio di steppe.
Le figure dei bisonti di Sormiou si discostano da altri "affreschi" del Paleolitico. I loro musi non sono di profilo e si possono vedere il naso e gli occhi. Alcune particelle di carbone, esaminate all'università di Lione, li fanno risalire, appunto, a 18-19 mila anni fa, con un'approssimazione di circa 500 anni. Secondo gli scienziati, non ci possono essere dubbi: oltre ad essere "autentica", la grotta è la prima cavità decorata che viene scoperta sul litorale mediterraneo. Uno degli aspetti più misteriosi, almeno per ora, riguarda i segni geometrici e le mani dipinte con un procedimento "in negativo" che dovrebbero risalire intorno a 12 mila anni fa. E ciò indicherebbe una frequentazione della grotta durata circa ottomila anni. Chi antichi artisti poggiavano le loro mani sulle pareti e spargevano intorno dei pigmenti. Si scorgono due dozzine di mani, alcune su fondo rosso, altre su fondo nero. Ci sono mani cui mancano una o due dita. Amputazioni rituali, oppure soltanto dita ripiegate? Alcuni anni fa, il professor André Leroi-Gourhan, riferendosi a impronte analoghe lasciate dagli aborigeni australiani, sostenne l'ipotesi di un linguaggio cifrato.
La grotta doveva essere un luogo magicoreligioso. Forse vi si celebravano riti legati alla caccia. Raffigurando un animale, l'uomo di Cro-Magnon doveva, idealmente, impadronirsene. E' un'ipotesi, come quella che il cavallo debba essere associato a una simbologia virile e il bisonte a una simbologia femminile. Le pitture ci vengono, intatte, dalla notte dei tempi, grazie a uno strato microscopico di cristallizzazione calcarea che ha come "fissato" i pigmenti. Basta strofinare per cancellare. Ecco perché il pubblico non sarà mai ammesso nella cattedrale paleolitica scoperta da Cosquer.


UNA ZIQQURAT IN SARDEGNA

LA TORRE DI BABELE DEL "TEMPIO ROSSO"

Popolazioni mesopotamiche sbarcarono in Sardegna 4400 anni fa? Sembra un'ipotesi assurda, eppure non si riesce a dare una diversa interpretazione a un misterioso, imponente edificio scoperto in provincia di Sassari che ha tutte le caratteristiche delle "ziqqurat", i templi a gradoni tipici delle civiltà mesopotamiche, che ispirarono il racconto della Torre di Babele.
Ciò che oggi resta di questo enigmatico edificio è una collinetta alta poco meno di dieci metri, sulla quale si sale percorrendo una rampa lunga una quarantina di metri e larga tredici. Ma il cuore del mistero è all'interno del monticolo artificiale sostenuto da un muro di grandi pietre che delimita il perimetro quadrangolare dell'edificio. Nel corpo della collinetta, infatti, sono state scoperte strutture che sono identiche a una vera e propria ziqqurat, che starebbe benissimo nella pianura tra il Tigri e l'Eufrate, e che invece si alza a Monte d'Accoddi, a undici chilometri da Sassari, sulla strada per Porto Torres.
Quella della scoperta è una storia lunga. Infatti, giungere a capire che sotto il monticello di terra c'era una struttura del 2400 a.C. non è stato agevole, anche perché gli archeologi hanno dovuto lavorare senza distruggere il monticello stesso. Così, è necessario risalire agli anni '50, quando l'allora senatore Antonio Segni, poi presidente della Repubblica, proprietario dell'area sulla quale sorge l'edificio, donò il terreno allo Stato, chiedendo alla Soprintendenza sassarese di indagare su quelle pietre che affioravano tra i cespugli.
Il lavoro venne affidato all'archeologo Ercole Contu, il quale iniziò a scavare con l'aiuto di una cinquantina di detenuti "prestati" dal carcere dell'Asinara, con tanto di guardie al seguito. Con due campagne di scavo e alcuni saggi in profondità, Contu capì che non si trattava di uno dei tanti nuraghi sardi, ma di qualcosa che non esitò a paragonare ad una ziqqurat edificata dove in epoca ancora più antica esisteva un luogo di culto megalitico, testimoniato dal ritrovamento di un menhir alto quattro metri e mezzo e di un lastrone ovale di oltre tre metri (una tavola sacrificale?) adagiato su sostegni di pietre.
L'ipotesi di Contu, sconcertante e rivoluzionaria, (chi poteva aver costruito una ziqqurat in Sardegna?), non venne tenuta in gran considerazione, e finì ben presto nel generale disinteresse. Archeologi, detenuti e guardie abbandonarono Monte d'Accoddi. Si tornò a parlare della cosa solo nel 1979, quando Contu - ormai diventato Soprintendente - affidò la ripresa degli scavi a Santo Tiné, docente di archeologia all'università di Genova. La prima novità di quell'anno fu la scoperta di un tratto di muro poco più di tre metri sotto la sommità del monticolo. Un muro di pietre ben cementate con malta, che indicava una tecnica costruttiva altamente evoluta; lo stesso muro che nel corso delle successive campagne di scavo è stato individuato in altri punti e che ha permesso di ricostruire il perimetro del locale rettangolare che sorgeva alla sommità e che doveva essere il tempio vero e proprio. Altro ritrovamento importante fu quello di una stele di pietra, con scolpita una figura femminile molto schematica, che era collocata accanto al muro perimetrale del monticolo, sul lato opposto rispetto a quello della rampa di accesso.
Le campagne di scavo degli anni successivi portarono importanti conferme e sconcertanti delusioni dovute alla singolarità della struttura che non rispondeva in alcun modo ai canoni dell'architettura preistorica europea e rimandava continuamente a un "impossibile" modello mesopotamico. A questo si aggiungeva la difficoltà di lavorare senza distruggere i livelli superiori, testimonianza delle diverse fasi cronologiche della vita del monumento, ora delineato con sufficiente chiarezza.
Prima del 2400 a.C. esisteva un centro culturale megalitico, tipico delle culture preistoriche del Mediterraneo, indicato dal menhir e dalla pietra sacrificale; intorno alla data suddetta accadde qualcosa che portò all'abbattimento del menhir e alla realizzazione della grande piattaforma sulla quale si saliva mediante una rampa laterale che portava alla sommità della struttura dove c'era il tempietto in muratura, con le pareti e il pavimento dipinti di ocra rossa.
Qualche tempo dopo un incendio distrusse il tempio rosso e gli abitanti del luogo crearono sulla cima della piattaforma e sui resti del tempio una serie di muretti di sostegno per poter rialzare l'intera struttura, fino a quasi dieci metri di altezza. Sopra, probabilmente, riedificarono il tempio. La ristrutturazione della piattaforma e il suo innalzamento finirono però per inglobare la rampa laterale, e così, per accedere al nuovo tempio (del quale però non è rimasta traccia), venne creata la grande rampa di 42 metri che ancora oggi caratterizza Monte d'Accoddi.
Questo è quanto è stato accertato. Ma gran parte del mistero è ancora intatto: questa ziqqurat in piena Sardegna è infatti inesplicabile.
Forse la risposta a tutti gli interrogativi è proprio al centro di quella stanza colorata di rosso. Se ne è individuato il perimetro con scavi che sono scesi in verticale nel monticolo, ma il centro del pavimento è ancora sotto la massa della struttura edificata nella fase di ampliamento: un "pacco" di strati che non possono essere demoliti. Per questo motivo, arrivati sul piano del pavimento in prossimità di un angolo del locale, si è aperto un cunicolo orizzontale, poi ampliato fino a creare un stanza sotterranea sorretta da putrelle di acciaio che hanno permesso agli archeologi di lavorare come talpe all'interno della stanza rossa. Così si è allargato il vano sotterraneo per tutta l'ampiezza del locale antico.
Ora si cerca l'eventuale presenza di un foro di passaggio che porti nel sottosuolo. Se c'è, il monumento potrà essere collocato nell'ambito culturale della preistoria sarda, della quale peraltro si conosce molto poco. Altrimenti, si conferma l'ipotesi della ziqqurat con cella sacra sulla sommità: con l'altra ipotesi, quella dell'arrivo in Sardegna intorno alla metà del 111 millennio a.C. di un sacerdote-architetto mesopotamico che riuscì a imporre la sua religione agli autoctoni e a creare una struttura socio-politica tale da permettergli la realizzazione di questo imponente tempio. Se ciò accadde, però, rimase un fenomeno isolato e per questo ancora più enigmatico. Gli unici elementi "stranieri" rinvenuti in quest'area sono frammenti di idoletti femminili di stile cicladico, cioè dell'Egeo, ai quali può essere ricollegata l'immagine, anch'essa femminile, scolpita sulla stele. Niente di più, e niente di meno.
Un altro lampo di mistero, e di fascino, è dato dal ritrovamento di centinaia di migliaia di gusci di conchiglie (tipo Shell), spesso accumulate in piccoli pozzetti d'offerta, che suggeriscono doni votivi adatti a una divinità femminile, proprio come quella scolpita nella stele. Che sia la "Signora della stanza rossa"? Oppure fu proprio costei ad essere mandata in esilio da un dio venuto dall'Oriente?


DAL VILLAGGIO ALLA ZIQQURAT

Il primo villaggio - Il primo insediamento umano di Monte d'Accoddi è del V millennio a.C. ed è rappresentato da un agglomerato con capanne a pianta sub-circolare in parte infossate nel terreno. Gli scavi hanno restituito frammenti ceramici decorati con sottili incisioni puntiformi.

Il centro di culto - Un nuovo villaggio sostituisce quello precedente. Ora le capanne hanno pianta rettangolare e muri a secco. C'è un'area sacra segnalata da un menhir e da un altare circolare di pietra. Il centro religioso, riferibile alla "cultura Ozieri", decade nel 2440 a. C.

Il Tempio Rosso - Nel 2440 a.C. il menhir è ormai abbattuto e nell'area sorge la prima ziqqurat (24 per 27 metri) con una rampa lunga 25 metri. Realizzato con piccole pietre connesse con malta, il Tempio è completamente intonacato e dipinto di rosso. Sulla piattaforma c'è una cella sacra delimitata da un muretto alto 70 centimetri: probabilmente era completata con una sovrastruttura in legno.

La grande ziqqurat - Dopo due o tre secoli, un incendio devasta il Tempio Rosso e sull'antica struttura viene edificato il secondo monumento che ingloba completamente il Primo. Ha una pianta quadrangolare di 29 per 36 metri e una rampa di 42 metri: sulla sommità doveva avere una cella simile a quella del Tempio Rosso. Dietro la ziqqurat viene collocata una stele di un metro e mezzo raffigurante un'immagine femminile molto stilizzata. Nel 1800 a.C. la grande ziqqurat di Monte d'Accoddi è ormai in completo abbandono.


LA "TERZA MERCE"

DAL BARATTO ALL'ORO

I prototipi della generazione umana - come tramanda la Genesi - si divisero immediatamente i compiti: alcuni si dedicarono all'agricoltura, altri alla caccia e all'allevamento del bestiame. Anche nel primo nucleo familiare le mansioni si sono certamente diversificate; e così è avvenuto nella più allargata società, fino all'epoca moderna.
Questo stato differenziato ha condotto a diversità di bisogni, sia nella qualità che nella quantità, sia di luogo che di tempo. E la necessità di provvedersi di quanto adatto al soddisfacimento delle proprie occorrenze, non essendo tutto disponibile per lavoro autonomo ma prodotto più utilmente da altri individui, ha portato allo scambio, cioè al passaggio da un individuo all'altro (da un gruppo all'altro) di beni e di servizi, secondo regole di convenienza.
Dunque, lo scambio affonda le radici nella preistoria e giunge a noi - che viviamo di scambi - lungo i millenni, dopo travagliate esperienze, resesi necessarie per passare dal primo rudimentale baratto di cose indispensabili all'odierno colossale commercio di beni pronti o futuri, vicini o lontani, come i traffici che oggi si realizzano in tempo reale da un continente all'altro con l'impiego di un telex o di una telefonata in teleselezione via satellite, ma soprattutto con conoscenze perfette delle complesse e diverse condizioni di mercato del produttore, dell'intermediario e del consumatore. Siamo, nello stesso tempo, gli epigoni dell'Australopiteco e dell'Uomo del terzo millennio.
In passato la situazione era ben diversa: pochi gli oggetti di scambio e non sempre desiderabili dai contraenti; il più delle volte non erano divisibili, né facilmente trasportabili, alcuni anche di difficile conservazione; scarsi gli incontri e limitate le possibilità di reciproca conoscenza.
Probabilmente fu questo il primo trapasso di civilizzazione; non potendosi mettere in atto facilmente scambi diretti di cose, si è andati alla ricerca di un'altra serie di beni, ritenuti graditi da entrambe le parti.
E' entrata così nella storia dello scambio la terza merce; è il primitivo apparire della funzione monetaria che, sia pure con faticose e lente successioni di interventi, ha cambiato lo stile di vita dell'uomo. Questi ha potuto utilizzare più agevolmente i beni naturali, avviarsi a crescere con i lavori manifatturieri, poiché lo scambio, reso più semplice da uno strumento intermedio, ha moltiplicato le sue produzioni e i suoi commerci.
Nel baratto, dai prodotti naturali quali il grano e il bestiame (Nell'Iliade si misura in buoi il valore delle armi e dei tesori; da pecus e da rupia, che corrispondono a "pecora" e a "capo di bestiame", deriva pecunia) si è passati a materiali più grezzi, quali strisce di pelli, conchiglie, minerali di forma regolare, fino ad articoli preziosi per la loro qualità e soprattutto per la loro rarità. La funzione monetaria viene così svolta da cose il più possibile accettate dalla comunità, così da costituire il denominatore delle altre merci da scambiare.
Ecco che cosa racconta Erodoto di Alicarnasso, vissuto nel 400 a.C.: "I Fenici, quando si fermavano con le navi davanti alla costa, scaricavano le loro merci e le allineavano in bell'ordine lungo la spiaggia; poi risalivano a bordo e facevano grandi fumate per avvertire della loro presenza gli indigeni dell'interno. Questi scendevano al mare, osservavano le merci esposte e accanto a ciascuna deponevano una quantità d'oro da offrire in cambio. Ciò fatto, si ritiravano nei loro villaggi. I Fenici tornavano a terra ed esaminavano quel che gli altri avevano offerto. Se giudicavano che l'oro era sufficiente, lasciavano la merce e se ne andavano. Altrimenti non toccavano nulla, risalivano sulle navi e attendevano qualche giorno. Allora gli indigeni aggiungevano a più riprese un po' d'oro, finché i Fenici fossero soddisfatti. Nessuno dei due contraenti faceva torto all'altro: gli uni non prendevano l'oro finché non lo giudicavano sufficiente, e gli altri non toccavano la merce prima che i Fenici avessero ritirato il metallo prezioso".
Si ha motivo di ritenere che in origine l'oro sia stato usato come terza merce di scambio allo stato di polvere. Ma quanti secoli fa? Se si risale all'era della prima dinastia faraonica, siamo nel 3500 a.C.
Non si tratta ancora della moneta vera e propria: siamo nelle ere millenarie in cui una o più cose, oggetti, merci, vengono utilizzati per muovere il difficile meccanismo del passaggio dei beni di cui si ha necessità, utilizzando strumenti ancora non calibrati, allo stato rozzo.
Si discute se fu Fidone da Argo nel Peloponneso (metà del VII secolo a.C.) a far coniare la prima moneta argentea nell'isola di Egina, o se furono i Lidii - come sostiene Erodoto - i primi uomini ad usare monete d'oro e d'argento.
A dire il vero, non è indispensabile che la moneta sia sempre d'oro o di altro metallo prezioso. Anzi, l'effettiva circolazione aurea si è notevolmente ridotta col trascorrere del tempo, sia perché sostituita da carta o altri titoli rappresentativi sia perché surrogata da succedanei. Ai giorni nostri, anche un gettone telefonico è moneta, purché si sia certi della sua convertibilità, in qualunque momento, in lire.
Una delle monete più celebri della storia, quella di Creso, risale al 559 a.C.: è d'oro e porta impresso un leone che guarda un bue. Potremmo dare a questa immagine una motivazione-interpretazione da riferire alle monete in genere: la forza che il leone rappresenta, legata alla laboriosità del bue. Infatti, il vigore della moneta è traente per la vivacità della vita economica, sempre che ci sia il prodotto di scambio e che questo sia il frutto di un'applicazione che rispetti la giustizia e l'accrescimento dei beni reali della comunità.
La moneta di per sé rimane inerte, apparentemente sterile, ma dà ali alla società di una nazione quando le macchine girano, i campi si indorano di messi, le navi solcano cariche i mari, e i cittadini vivono in laboriosa concordia.


ALLE RADICI DI UNA NAZIONE

LA PRIMA ITALIA

Come avviene che, emergendo da una preistoria di milioni di anni, l'Italia si costituisce, con un processo durato all'incirca dall'VIII al II secolo a.C., in organica unità nazionale? E quali sono le genti protagoniste di questo processo, che ha come sbocco l'impero di Roma? Senza dubbio, la storia dei Romani ha oscurato per lungo tempo quella di coloro che li precedettero e li fiancheggiarono nella penisola. Oggi, un succedersi di scoperte muta profondamente la situazione. Veneti e Liguri, Piceni e Umbri, Latini e Campani, Sanniti e Dauni, Messapi, Bruzi, Siculi e altre popolazioni ancora rivivono nelle varie regioni, e dalle loro culture e civiltà possiamo enucleare visioni e valutazioni d'insieme.
Un primo aspetto caratteristico, è la struttura delle città, che appaiono spesso cinte da mura molto più vaste dell'abitato. Ad esempio, l'antica Arpi, in Puglia, presenta una cinta di ben tredici chilometri, mentre l'attuale Foggia ne ha solo sette! E' evidente una concezione della città diversa dalla nostra, perché include nella cinta difensiva non solo le case, ma anche i terreni a coltura agricola e a pascolo: in caso di pericolo, potevano essere così difesi. Nell'ambito dell'edilizia religiosa, compaiono in più regioni i santuari legati al culto delle acque, talvolta con strutture modeste, ma con una ricca produzione di oggetti votivi, in particolare bronzetti, che costituiscono una fonte primaria per la conoscenza dell'arte. Qui la continuità nel tempo ha una suggestione affascinante: come non collegare, ad esempio, le attuali Terme di Abano con l'antico santuario delle acque dedicato alla dea Reitia?

 

Altro fenomeno molto diffuso è quello delle stele funerarie. Dalle migliaia scoperte sul Gargano, con immagini dell'aldilà in forme popolaresche di rara efficacia, a quelle del Piceno e del Veneto, della Liguria e della Valle d'Aosta, si delinea un significativo raccordo pur nella varietà delle singole realizzazioni.
C'è del pari un raccordo nelle statue di terracotta, che raggiungono a Lavinio il più alto livello d'arte, dimostrando nello stesso tempo la preminente influenza greca. Esiste, d'altra parte, una produzione popolaresca che evidenzia, rispetto al mondo greco, un gusto autonomo, ricco di espressività.
Quanto alla pittura, le tombe affrescate di Paestum si affiancano a quelle di Tarquinia nel rivelare l'origine di quest'arte in Italia. Quanto alla produzione "minore", si è detto dei bronzetti e vanno aggiunte altre categorie diffuse, come gli avori e le ambre, che vengono dal Mar Baltico e mostrano un'illuminante connessione con l'Europa settentrionale. Sono pochi esempi; ma bastano a dimostrare che è davvero una tra le maggiori scoperte del nostro tempo, quella della prima Italia.


GEOGRAFIA DEI TESORI NASCOSTI

MA IL MUSEO PIU' RICCO E ANCORA SEPOLTO

La recente scoperta della tomba di Maya, il tesoriere di Tutankamen, ha riproposto la domanda: quanto resta ancora da scoprire, non solo in Egitto, ma in tutto il mondo? Gli archeologi rispondono che sotto la terra c'è ancora un immenso patrimonio storico, artistico e scientifico. Dice il professor Sabatino Moscati: "Il 'museo sepolto' è più grande di tutti i musei messi assieme, e v'è di più: il 'museo sommerso' nel mare". E Colin Renfrew, dell'università di Cambridge: "Nel campo dell'archeologia abbiamo appena scalfito la superficie". Alcuni ritengono che in Italia oltre la metà della ricchezza archeologica sia ancora sotto terra.
Dicendo "ricchezza archeologica" non intendono i grandi tesori di un passato remoto, oppure capolavori come i Bronzi di Riace. Sembrano anzi mostrare fastidio, se non disprezzo, per gli aspetti spettacolari della loro disciplina che più colpiscono l'immaginazione della gente. Poco più di sessant'anni fa, l'apertura della tomba di Tutankamen emozionò i profani, ma gli studiosi furono certamente più eccitati dagli scavi di Bogazkoy, in Turchia, dove vennero scoperte diecimila tavolette cuneiformi che costituivano l'archivio del regno hittita.
Più che la caccia al tesoro, conta l'indagine storica, economica e sociale delle civiltà scomparse; e gli oggetti scavati, anziché rappresentare il fine della ricerca archeologica, sono il mezzo per approfondire la conoscenza dei popoli che quegli oggetti usarono. Oppure per correggere e precisare questa conoscenza. Spesso il passato è rimesso in discussione dalla vanga dell'archeologo. Ma, dice Moscati, "l'archeologia è anche viaggio nel tempo, per conoscere civiltà di cui a volte non si immagina neppure l'esistenza; e solo comparandole con la nostra possiamo renderci conto, nel bene e nel male, di ciò che siamo".
Si rimprovera ad archeologi del passato di avere operato in modo scriteriato, combinando disastri, cancellando tracce, portando via i fregi del Partenone, e cose del genere. Ora c'è chi afferma che quando si giunge ad una scoperta si dovrebbe sospendere il lavoro, lasciandolo alle generazioni future che procederanno con mezzi scientifici migliori degli attuali. Questo era giusto dirlo qualche decennio fa, oggi non più tanto. Oggi l'archeologia si avvale dei calcolatori, del radar, delle telecamere a raggi infrarossi, dei magnetometri a protoni, dell'aerofotogrammetria, dei satelliti, di altri strumenti di indagine, potenti e sofisticati, che spalancano nuovi e affascinanti orizzonti. Le analisi al radiocarbonio, per esempio, hanno rivelato che la civiltà dei Maya era più antica di quanto si credeva, risalendo non ai primi secoli dell'era cristiana, ma al terzo o al quarto millennio a.C.
Il futuro è ricco di sorprese. Nessuno può immaginare quali tesori e segreti e testimonianze di civiltà sconosciute dissotterrerà l'archeologo, prima o poi. Ma ci sono "bottini" che la presente generazione spera di tirar fuori dal suolo, dove sono sepolti da molti millenni, o anche solo da qualche secolo. Percorriamo la geografia dei più noti.
Egitto - La speranza è sempre quella di trovare qualche tomba non ancora saccheggiata dai ladri. E scoprire anche nuovi insediamenti, perché se la vita dei faraoni e dei gran sacerdoti è ben documentata, ancora poco si sa della vita quotidiana degli antichi egizi.
Apre la lista delle ricerche degli egittologi la tomba di Herior, capo militare e religioso all'inizio della XXI dinastia (1100 a.C.). E' nella Valle dei Re ed è ritenuta assai più interessante di quella di Tutankamen. Gli archeologi cercano anche la tomba di Imhotep, primo ministro (2628 a.C.), in seguito divinizzato, che costituì a Saqqara una grandiosa tomba in forma di piramide a gradoni. Vorrebbero anche trovare le tombe della XXVI dinastia a Sais (663-525 a.C.), sul delta del Nilo, un luogo archeologico in pericolo per via dello sviluppo agricolo.
In un santuario del quartiere reale dell'antica Alessandria c'era il sarcofago a forma di letto di Alessandro Magno. Nello stesso quartiere, le tombe di Antonio e Cleopatra. Sono ancora lì, ma probabilmente vi resteranno per sempre, perché sepolti dalla moderna Alessandria.
Grecia - L'isola di Thera è una sorta di "Pompei egea". Sepolta sotto uno strato di una quarantina di metri per l'eruzione del vulcano di Santorino, 3500 anni fa. Sono state già fatte alcune scoperte, compresi freschi di un singolare naturalismo, esposti al museo di Atene. Molto resta da riportare alla luce: ciò che gli archeologi sperano soprattutto di trovare è la biblioteca di tavole d'argilla che dovrebbe permettere di decifrare la scrittura minoica.
Il disastro naturale di Santorino è stato collegato al mito di Atlantide, di cui parla Platone. Secondo alcuni, la favolosa Atlantide sprofondò nell'Egeo; secondo altri, nell'Atlantico, tra l'Africa e l'America. Un'ipotesi è che Atlantide non sia altro che l'Antartide, diecimila anni fa non ancora coperta di ghiacci. Ha detto William I. Thompson, dell'università di New York: "La scoperta di Atlantite aprirebbe sconfinati orizzonti all'archeologia e l'avvenimento farebbe impallidire persino le imprese spaziali".
Italia - Sotto la cittadina di Resina c'è gran parte di Ercolano, sepolta con Pompei dall'eruzione del Vesuvio nel 79. L'obiettivo degli archeologi è di arrivare alla Villa dei Pisoni, o dei Papiri. Fu già raggiunta nel '700 e vennero recuperati papiri con testi greci. Gli scavi furono poi abbandonati per esalazioni mefitiche e per infiltrazioni d'acqua. Si ritiene che la biblioteca di una villa patrizia romana non contenesse soltanto testi greci; doveva essere distinta in due settori: uno in lingua greca, l'altro in lingua latina. Ora vi si sta lavorando. E il pensiero delle possibili scoperte con recupero dei papiri dà i brividi.
Il più importante tesoro d'Italia, o almeno quello più cercato, è la tomba di Alarico, re dei Goti. Morì nel 410 e fu sepolto in Calabria, nel letto deviato del Busento. Secondo la leggenda, la tomba è ricchissima
di armi e di tesori, compreso il candelabro a sette braccia che Tito portò via dal Tempio di Gerusalemme e che fu il bottino dei Goti nel sacco di Roma. Innumerevoli, nei secoli, i tentativi per localizzare l'ultima dimora terrena di Alarico. Il più serio, anche questo senza esito, quello - nel 1959 - della Fondazione Lerici, che si servì per la prima volta dei magnetometri.
Turchia - Il relitto dell'Arca di Noè viene ricercato da almeno 23 secoli con fanatica ostinazione (non è soltanto la Bibbia a parlare dell'Arca: la storia di Noè ha strettissimi parallelismi con l'epopea sumero-assiro-babilonese, in cui a Noè corrispondeva Utnapishtim). Si ricerca sul Monte Ararat. Ma le ricerche sono estese anche al Sinai e in altre località del Vicino Oriente.
Iraq - Accad, vicino a Babilonia, è il grande mistero dell'antica Mesopotamia. Fu la capitale di Sargon, che creò il primo impero semitico nel 2300 a.C. e fu città superiore a Ebla, scoperta dall'archeologo italiano Paolo Matthiae negli anni '70. Dovrebbe probabilmente contenere preziosi archivi (a Ebla la missione italiana trovò 17 mila tavolette d'argilla con gli archivi del regno).
India - La scomparsa di una grande civiltà avvenuta verso il 2400 a.C. nella Valle dell'Indo ha qualche cosa di misterioso. Finora non è stato possibile decifrare la scrittura di quel popolo. Si cerca un documento bilingue, una locale "stele di Rosetta", che ne permetta l'interpretazione.
Cina - A Xian, nella Cina centrale, nel 1974 contadini che scavavano un pozzo irruppero in una vasta cavità sotterranea in cui si trovava un'armata composta da seimila guerrieri di terracotta a grandezza naturale. Un'armata che il primo imperatore cinese Qin Shi Huang Di (259-210 a.C.) fece porre a guardia del suo mausoleo, un fantastico palazzo sotterraneo che dovrebbe contenere, tra mille altre cose, una gigantesca mappa bronzea in rilievo del mondo conosciuto, con i fiumi e gli oceani rappresentati con del mercurio. Gli archeologi cinesi non sembrano aver fretta, procedono con pazienza e metodo. L'apertura della tomba di Qin Shi, tra qualche decennio, potrebbe costituire uno dei maggiori eventi archeologici.
Si stanno cercando anche i resti dell'Uomo di Neanderthal nella Mongolia superiore. Un enigma da risolvere è quello dell'Uomo di Pechino. Alla vigilia della guerra, per sicurezza, le sue ossa furono messe in una cassa e spedite in America. Se ne sono perdute le tracce.
Giappone - Imperatori giapponesi di mille anni fa giacciono nei loro sepolcri inviolati. Gli archeologi impazzirebbero se avessero l'autorizzazione d'intervenire. Ma la corrente culturale di questo Paese sostiene che gli imperatori defunti debbono essere lasciati in pace.
Africa - Si riteneva che l'Homo sapiens sapiens, cioè noi, avesse avuto origine nel Vicino Oriente. Ora si immagina la sua culla nell'Africa meridionale. Se ne stanno cercando le prove.
Germania - Un mistero che il poliziotto, più che l'archeologo, potrebbe risolvere. Dov'è finito il tesoro di re Priamo, che si trovava nel museo di Berlino fino alla fine della guerra? Tracce scoperte in Russia, con storie verosimili di saccheggio da parte dell'Armata Rossa, con molte reticenze, con mobilitazioni segrete per recuperarlo.
Inghilterra - Si cercano le tracce dei primi insediamenti nella tarda età glaciale. Vicino a Silbury Hill tumuli funebri ancora inviolati potrebbero celare importanti reperti neolitici.
Americhe - Di sicuro si sa che l'uomo giunse in America 30-40 mila anni fa. Ma non si ha un'idea precisa del luogo dove il primo americano pose piede sul continente. Si ritiene che sia arrivata attraverso lo Stretto di Bering, dalla Siberia, e se ne stanno cercando testimonianze in Alaska.
Nel Nord America quasi altrettanto affascinante è accertare dove, nel XVI secolo, si stabilirono i primi bianchi. Si lavora a Roanoke Island, nella Carolina del Sud, per dissotterrare un insediamento del 1584.
Nell'America centrale una grande quantità di tombe Maya sono ancora piene di segreti e di ricchezze.
In Colombia il lago chiamato Guatavita è ritenuto essere il favoloso Eldorado, dove gli Incas gettavano oro come offerta al loro dio. Di tanto in tanto qualche sommozzatore porta su qualche pezzo del prezioso metallo. Ma è poca cosa. Una ricerca sistematica sarebbe di eccezionale difficoltà.
E dov'è finito il tesoro degli Incas? Si ritiene che quanto non è stato razziato dai conquistadores sia nascosto in qualche posto segreto del Perù.


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