Il
paleoantropologo francese Yves Coppens non ha alcun dubbio: siamo tutti
scimmie africane. Direttore del Laboratorio di Paleoantropologia del
Collège de France, fornisce le chiavi per forzare il mistero
delle nostre origini. Definisce scherzosamente il suo modello l'East
Side Story: una tesi che avvalora la provenienza africana della specie
umana. I postulati: il motore dell'evoluzione, cioè il determinismo
aleatorio che Jacques Monod aveva individuato nel caso, per Coppens
si esprime attraverso la "rottura di equilibri naturali".
Quali, ad esempio, gli sconvolgimenti geologici e climatici che, sette
milioni e mezzo di anni fa, costrinsero i primi ominidi della savana
africana ad alzarsi su due zampe per adattarsi ad un ambiente nuovo.
L'acquisizione della posizione eretta e l'aumento del volume cranico
furono conseguenze dirette di questa mutazione.
Per sondare gli abissi delle preistoria, i paleontologi devono arrangiarsi
con una scarsa sequela di fossili. Per costoro, la catena dell'evoluzione
è ancora composta da maglie larghissime: un dente a sei milioni
di anni, mezza mandibola a cinque milioni e mezzo, e a quattro milioni
un frammento di femore, un osso frontale, il collo di un omero... Il
ritrovamento in Tanzania di impronte lasciate nel fango 3,8 milioni
di anni fa da esserini ancora scimmieschi, ma già dotati di locomozione
bipede, fu la prima riprova della potenziale esattezza della teoria
di Coppens. La seconda fu la scoperta, insieme all'americano Johanson,
dello scheletro della giovane Lucy, un Australopiteco di tre milioni
e mezzo di anni fa, dal cui bacino, dice lo studioso francese, "possiamo
dedurre che già ancheggiava come una ballerina".
Il lungo cammino dell'uomo è un romanzo che Coppens racconta
con eloquenza incontenibile: dopo gli Australopiteci, l'Homo abilis,
il primo uomo; poi, un milione e mezzo di anni fa, appare l'Homo erectus,
che dall'Africa si lancia alla conquista del pianeta. E' grande come
noi, impara ad usare il fuoco, costruisce capanne, risente i primi brividi
metafisici. Progressivamente, l'uomo emerge dal contesto biologico.
L'Homo sapiens, ossia l'uomo moderno, incomincia a popolare l'Europa
solo quarantamila anni fa. La rivoluzione del Neolitico, i primi popoli
stanziali, l'allevamento, risalgono a ottomila anni fa. Il resto è
Storia.
Ricapitolando, potremmo sostenere che la storia dell'uomo è quella
del suo cervello, fin dai tempi remoti. Circa quaranta milioni di anni
fa viveva un nostro lontanissimo antenato, l'Egittopiteco. Era grande
come un gatto, camminava a quattro zampe e aveva una lunga coda. Questa
scimmietta apparteneva alla famiglia degli ominoidi, già si differenziava
dagli altri primati per le trasformazioni che aveva subito il suo piccolo
cervello. Trasformazioni che riguardavano i lobi frontali e i centri
ottici legati alla corteccia cerebrale. Dice Coppens: "Fu il primo
passo verso la meditazione".
Egittopiteco, Kenyapiteco, Australopiteco, Homo abilis, Erectus, e via
elencando: non si dovrebbe parlare dell'origine dell'uomo, ma piuttosto
di una lunga evoluzione, di una filiazione zoologica nel corso della
quale sono apparsi i diversi caratteri umani. In effetti, sostiene Coppens,
l'uomo non deriva dalla scimmia, ma da una scimmia particolarissima,
appartenente a una specie oggi scomparsa, che fu l'antenato comune dell'uomo
e dello scimpanzé. "Urge una premessa", precisa. "La
storia dell'uomo è parte della storia dell'Universo, che include
la storia della Terra, la quale a sua volta comprende la storia della
vita. In un certo senso, siamo figli delle stelle".
Ad un certo punto, i "figli delle stelle" si separano dai
cugini scimpanzé. Ma quando? Si era pensato a lungo che questo
distacco fosse avvenuto quindici milioni di anni fa e che il nostro
primo antenato fosse una scimmia asiatica chiamata Ramapiteco. In realtà,
si tratta probabilmente dell'antenato dell'orango. Qualche anno fa,
in un seminario tenuto a Roma, ci fu un "compromesso preistorico":
i paleoantropologi si misero d'accordo con i colleghi biologi molecolari,
partigiani di una cronologia molto più recente: la spaccatura
tra scimmie e ominidi, i nostri primi antenati diretti, si è
prodotta sette milioni e mezzo di anni fa, in Africa. Da quel momento,
l'uomo abbandonò per sempre il mondo animale.
Sette milioni e mezzo di anni fa, infatti, si produsse l'immensa spaccatura
della Rift Valley, la faglia geologica che corre lungo l'Etiopia, il
Kenya e la Tanzania. Lì viveva un piccolo antenato comune di
ominidi e grandi scimmie, il Kenyapiteco, che popolava le rigogliose
foreste dell'Africa equatoriale. Improvvisamente, la parte orientale
del continente si sollevò, dando luogo agli attuali altopiani
dell'Est. La prima conseguenza fu un drastico cambiamento di clima.
I venti umidi che provenivano da Ovest si scontrarono contro questa
barriera e in tutto il versante orientale si verificò un periodo
di forte siccità. Diminuirono le piogge, la foresta regredì
e cominciarono a formarsi sterminate savane. Mentre le scimmie rimaste
nel versante occidentale continuarono a vivere nella foresta, i nostri
antenati isolati a Est dovettero invece adattarsi alla savana. Questa
separazione in diverse nicchie ecologiche provocò due evoluzioni
diverse: a Ovest, le grandi scimmie attuali, gorilla e scimpanzè;
ad Est, una nuova famiglia che dovette adeguarsi a un ambiente diverso,
arido e con pochi alberi.
Nacque così la famiglia dei primi ominidi, gli Australopiteci,
già avvezzi alla posizione eretta, come rivela l'allargamento
del loro bacino. A questa famiglia appartiene Lucy, "la prima donna
dell'umanità", di cui si sono ritrovati 52 frammenti di
ossa. Una scoperta senza precedenti, che ha consentito di stabilire
la sua statura (un metro e 20 centimetri), il suo peso (20-25 chili),
la sua locomozione, e in un certo senso anche il suo comportamento.
Grazie all'osservazione dei denti al microscopio elettronico si sa anche
di che cosa si nutriva.
Bilancio di due decenni di scavi e di verifiche dell'East Side Story:
su duecentomila reperti fossili rinvenuti in Etiopia, in Kenya e in
Tanzania, duemila sono frammenti di ominidi e non uno solo di grandi
scimmie. Ad Est della Rift Valley vissero dunque soltanto pre-umani
e umani; ad Ovest, pre-scimpanzè e pre-gorilla. Come dicono i
biologi molecolari, siamo geneticamente vicinissimi ai nostri cugini
scimpanzé (abbiamo in comune il 99 per cento del nostro genoma).
Ma ne siamo anche molto lontani, poiché fummo separati sette
milioni e mezzo di anni fa dalla faglia africana.
Dunque: se non si fosse sollevato il Rift, non sarebbe cambiato il clima,
le foreste non sarebbero scomparse, non sarebbe mai nato l'uomo. Oggi,
anche a Est del Rift, i discendenti del Kenyapiteco assomiglierebbero
al gorilla dell'Ovest. La posizione eretta, la locomozione bipede, lo
sviluppo del cervello, la fabbricazione dei primi manufatti sono il
risultato di un adattamento ad un ambiente più arido. Nella savana,
i nostri antenati furono costretti ad alzarsi sulle zampe posteriori
per scampare ai pericoli, per avvistare una preda, per trasportare il
cibo, per mettere al sicuro i loro piccoli. La formazione di una nuova
specie "avviene sempre all'interno di popolazioni periferiche rispetto
alla popolazione centrale: per esempio, un gruppo di individui che sviluppa
ossa del bacino diverse dagli altri. Quando si produce il cambiamento
ambientale, questa specie di handicappati si ritrova fortemente avvantaggiata.
La selezione naturale provvede al resto".
Lo sviluppo del cervello, pertanto, è legato alla stazione eretta.
Il predecessore di Coppens al Collège, André Leroi-Gourhan,
era solito dire: "dobbiamo rassegnarci. La nostra storia è
cominciata con i piedi". Siamo diventati intelligenti solo quando
ci siamo alzati. L'Australopiteco ha potuto servirsi delle mani per
fabbricare i primi ciottoli. Con il corpo eretto improvvisamente è
cambiata la sua concezione del mondo: il suo campo visivo non era più
quello di una scimmia a quattro zampe; ora, abbracciava l'orizzonte,
aveva il senso dell'infinito. Da lì, le prime angosce dell'uomo
preistorico. Insomma, la coscienza dell'umanità è emersa
quando l'uomo iniziò a guardare il firmamento.
Ma non si trattava ancora di uomini. L'Homo abilis, primo rappresentante
della nostra specie, apparve subito dopo, tre milioni di anni fa. E
coabitò con l'Australopiteco almeno per un milione di anni.
L'Homo abilis aveva il cervello più sviluppato, più vascolarizzato;
aveva perfezionato la locomozione bipede; non era più arboricolo;
ed era dotato di una dentatura che gli consentiva di variare la sua
dieta. Gli Australopiteci si cibavano soltanto di alcuni vegetali; lui
era onnivoro, anzi opportunista. Intorno ai suoi insediamenti sono stati
ritrovati i resti di lumache, ranocchie, camaleonti, gazzelle, cavalli,
ippopotami, elefanti. Un ulteriore carattere evolutivo legato all'adattamento
alla siccità riguardava le vie respiratorie e l'abbassamento
della laringe: caratteristiche morfologiche che predisponevano il nostro
antenato al linguaggio articolato. L'Homo abilis, in ogni caso, viveva
in un paradiso terrestre: la grande savana africana, un immenso giardino
pieno di animali, di fiori e di piante meravigliose.
Conoscendo l'ecosistema africano, si è potuto valutare anche
l'effettivo dei pre-umani e dei primi umani. Nella provincia bio-geografica
di Kenya, Tanzania, Etiopia e Uganda vivevano circa 70 mila Adami e
altrettante Eve. Ciò corrispondeva a una densità di 0,2-0,5
abitanti, se così possiamo chiamarli, per chilometro quadrato.
E' una cifra analoga all'attuale densità degli aborigeni nelle
regioni meno popolate dell'Australia. Considerando che il primo uomo
ha tre milioni di anni, da allora si sono succedute 200 mila generazioni.
Tenendo conto di altri fattori demografici, ciò equivale a circa
cento miliardi di individui.
Ma l'uomo moderno chi è? Il moderno per eccellenza è il
Sapiens. Apparve anche lui in Africa orientale, duecentomila anni fa.
Giunse in Europa circa quarantamila anni fa, con Cro-Magnon. Disegnava,
dipingeva, intagliava, e possiamo affermare che il suo pensiero concettuale
era sufficientemente elaborato da poterlo paragonare al nostro. Era
molto simile a noi, dal momento che non solo sapeva di sapere, ma lo
faceva anche sapere dipingendo sui muri. Tuttavia non è credibile
che l'Homo faber, l'uomo che lavorava la pietra, l'uomo religioso, l'uomo
cosciente, l'uomo sociale siano apparsi necessariamente nel medesimo
momento.
Magia, religione, consapevolezza della morte: le sepolture più
antiche, attraverso le quali l'uomo manifestò la sua prima emozione
metafisica, risalgono a circa centomila anni fa. La consapevolezza della
morte si sovrappose al concetto stesso di religione. Era quella forma
di angoscia che, in seguito, tutte le mitologie cercarono di mitigare,
spiegando ai diversi popoli che cosa facevano sulla Terra e a che cosa
erano destinati. Ma la coscienza era apparsa molto prima, in modo progressivo.
Probabilmente, assieme al primo uomo, all'Homo abilis che già
scheggiava il sasso secondo un progetto ben definito.
Le prime tracce religiose risalgono a un milione di anni fa: crani spaccati
dopo la morte con un colpo di selce. Era un gesto rituale, cioè
volontario. La sepoltura denotava una presa di coscienza molto più
decisa, perché si scavava una fossa, si coloravano le pareti
con l'ocra, si calava il cadavere e si cospargeva di fiori, aggiungendo
pezzi di carne per il "viaggio".
In sintesi, l'uomo ha impiegato due milioni e 900 mila anni per diventare
un "animale razionale". All'inizio, dagli Australopiteci a
Neandertal, i progressi tecnologici furono lentissimi. Non c'era molta
differenza tra i manufatti fabbricati dall'Homo abilis e quelli fabbricati
dall'Homo erectus o dai primi Homo sapiens. Durante questo lungo periodo
della storia dell'umanità continuò l'evoluzione biologica.
Dall'Abilis al Sapiens, per esempio, il volume del cervello raddoppiò.
Poi, improvvisamente, l'evoluzione tecnologica prese il sopravvento.
Non era più la biologia che dominava il destino dell'uomo, ma
il prodotto del suo cervello: la cultura.
Allo stadio del Sapiens, l'esperienza acquisita diventò prioritaria.
Da quel momento le sollecitazioni dell'ambiente ricevettero una risposta
culturale, non più biologica. L'evoluzione, la selezione naturale,
l'adattamento del corpo a uno squilibrio qualsiasi, furono fenomeni
che non intervennero più, perché non erano più
necessari alla sopravvivenza della specie.
Siamo usciti dal nulla sbattendo due sassi tra di loro, esplorando il
nostro pianeta e sviluppando la tecnologia. Ma non dimentichiamo che
c'è voluta tutta la storia dell'Universo, della vita e dell'uomo
per ottenere questa fragile libertà. E' questa la morale dell'evoluzione.
GLI ANTENATI
LA LEGGE DEI
GRANDI NUMERI
I grandi numeri
della scienza, come del resto quelli infinitesimali, spesso sembrano
entità puramente concettuali, astratte. A che cosa corrispondono
mille anni-luce, un milionesimo di millimetro, un miliardo di miliardi
di lire? Altrettanto difficile è visualizzare o intendere i
milioni o i miliardi di anni di cui parlano i paleontologi. Per rendere
agevole la comprensione del tempo in scala geologica, il chimico francese
Jacques Reisse ha proposto di ridurre a dodici mesi i quattro miliardi
e mezzo di anni che formano la storia della Terra. In questo calendario
immaginario, il primo gennaio corrisponde alla data della formazione
del nostro pianeta (l'Universo avrebbe in questo caso tre anni). E
noi stiamo vivendo gli ultimi istanti prima del Capodanno.
Secondo questa rappresentazione, una giornata equivale a 12,6 milioni
di anni, e un'ora a 525 mila anni. Curiosamente, nella riduzione di
Reisse le prime forme di vita appaiono sulla Terra verso la fine di
marzo, ossia in primavera. Il 25 dicembre (settanta milioni di anni
fa), nasce il Purgatorius, il primo primate. Le vicende che hanno
segnato la nostra evoluzione, dagli ominidi più primitivi in
poi, è concentrata nelle ultime ore dell'ultimo giorno dell'anno.
Accade tutto allo scadere del 31 dicembre. E' già pomeriggio
quando nasce il primo essere umano, l'Homo abilis. Neandertal appare
alle 23,54.
Quattordici secondi soltanto ci separano dall'inizio dell'era cristiana.
Sempre secondo Reisse, il sole si spegnerà esattamente entro
uno dei suoi anni: tra 12,6 milioni di anni moltiplicato 365,6.
FIGLI DELLE STELLE
TIK!
Se non avesse
smesso di mugolare, o grugnire o ruggire, l'uomo sarebbe rimasto scimmia.
L'origine del linguaggio articolato e simbolico è alla base
delle prime strutture sociali delle grandi migrazioni e dello sviluppo
tecnologico. Per individuare chi pronunciò le prime parole
bisogna cercare di ricostruire l'apparato vocale dei nostri antenati
e le strutture neurologiche necessarie alla comprensione dei suoni.
Il linguaggio è legato alla flessibilità della base
del cranio e all'abbassamento della laringe, caratteristiche morfologiche
che dipendono, a loro volta, dalla stazione eretta, dalla regressione
del volume facciale e dall'allargamento delle arcate dentarie.
Gli Australopiteci possedevano solo in parte queste caratteristiche.
La flessione del cranio appare invece evidente nell'Homo erectus.
L'impronta dell'endocranio dell'Homo abilis rivela già la presenza
delle aree cerebrali di Broca (motilità del linguaggio) e di
Wernicke (comprensione di suoni e parole).
I paleolinguisti hanno recentemente compilato un breve lessico della
lingua dei nostri antenati, quella che avrebbe poi generato le diecimila
lingue conosciute. Secondo questi studiosi, la parola "tik",
pronunciata un milione di anni fa, significherebbe "dito".
GLI ANTENATI FIGLI DELLE STELLE
PIETRE COME
PAROLE
Contrariamente
a quanto si ritiene, le più antiche pitture rupestri non sono
quelle delle grotte della Spagna o della Francia, di circa 15.000
anni fa, ma le pitture segnalate in ripari della Tanzania e riferite
a 40.000 anni fa. Inoltre, in Europa l'arte parietale è preceduta
dall'arte mobiliare, cioè da sculture o incisioni di figure
umane o di animali su pietra, o su corno, oppure su ossa di animali.
Un'espressione tipica dell'arte mobiliare sono le statuette femminili
o "Veneri", che si ritrovano in varie regioni europee a
partire dall'Aurignaziano (Paleolitico superiore), circa 30.000 anni
fa. Queste sculture, in cui viene esaltata la maternità, potrebbero
essere espressioni di un culto della fertilità. Esse continueranno
nel Neolitico con varietà di stili e ricchezza di immagini
per le quali il riferimento alla "Dea Madre" sembra essere
evidente.
L'arte parietale ha il suo grande sviluppo in Europa nel Maddaleniano
(18.000-11.000 anni fa): è l'epoca delle maestose raffigurazioni
scoperte nelle profondità di caverne (Altamira, Lascaux, Niaux,
Porto Badisco, ecc.), veri e propri "santuari" o luoghi
di raduno a carattere rituale. Le figure, realizzate con grande perfezione
stilistica, solo quasi sempre di animali, talvolta di esseri antropo-zoomorfi,
di cacciatori, ma si ritrovano anche segni di carattere simbolico
(punti, segmenti, ecc.). A queste raffigurazioni è stato attribuito
un significato magico-religioso o propiziatorio (Breuil). Altri hanno
visto nella frequente associazione di alcuni animali (cavallo e bisonte)
qualche simbolismo della vita sessuale (Leroi-Gourhan) o sociale (Laming-Emperaire).
A cacciatori della stessa epoca (tra 20.000 e 12.000 anni fa) vengono
riferite numerose testimonianze di arte rupestre all'aria aperta trovate
in Africa, in Asia, in Australia, con evidenti analogie nei temi figurativi.
Nel Neolitico sono i popoli agricoltori e pastori che lasciano, soprattutto
su rocce all'aperto, figure schematiche di arcieri e di animali cacciati
o allevati dall'uomo.
Le più antiche espressioni artistiche sono dell'epoca di Homo
sapiens sapiens (a partire da circa 40.000 anni fa). Ma c'è
da chiedersi: sono "le prime", quasi che in precedenza l'uomo
fosse privo di gusto estetico? Sembra di no. Vi sono industrie litiche
molto più antiche, in cui l'armonia delle forme e la simmetria
della lavorazione esprimono un senso estetico che va oltre la funzionalità
dello strumento. Le radici dell'arte sono antiche quanto l'uomo.
COME DATARE I REPERTI
Come fanno i ricercatori
a datare con sicurezza reperti ossei, pietre scheggiate, resti di
accampamenti che giungono fino a noi dalla lontana preistoria? La
datazione può essere stabilita in due modi.
Relativo - E' quel tipo di datazione in cui i reperti o i depositi
sono messi in sequenza cronologica l'uno rispetto all'altro, senza
tuttavia che si riesca a stabilire la loro età in anni calendariali.
A queste sequenze relative si arriva osservando la posizione stratigrafica
(i materiali più antichi si trovano, di norma, sotto quelli
più recenti), la seriazione dei manufatti (le caratteristiche
"stilistiche" sono confrontate con quelle di materiali già
noti di altri giacimenti), il dosaggio del fluoro nei reperti ossei
(che permette di stabilire la contemporaneità o meno di ossa
rinvenute nello stesso deposito) e diverse altre tecniche di indagine
per stabilire le condizioni climatiche ed ecologiche presenti all'epoca
della formazione del deposito e poterlo così collocare all'interno
di una scala temporale già nota. A questo scopo vengono esaminate
le caratteristiche fisiche delle rocce e del terreno, la presenza
di resti di micromammiferi, di pesci, di fossili "guida",
di pollini, di diversi altri aspetti del deposito.
Assoluto - Si parla di datazione assoluta quando l'antichità
di un reperto può essere espressa in anni a partire da oggi.
Fra le tecniche maggiormente usate per determinare con precisione
l'età dei reperti preistorici, vi sono la datazione potassio-argon
e quella radiocarbonica, sviluppatesi negli ultimi decenni. La datazione
potassio-argon si basa sul decadimento di un materiale presente in
gran parte delle rocce e dei minerali, ha un solo isotopo radioattivo,
il K 40, che si disintegra col trascorrere del tempo con la cattura
di un elettrone che trasforma il K 40 in gas argon 40 secondo una
velocità a noi nota. Misurando quindi la quantità di
argon e di potassio presenti in un sedimento è possibile sapere
esattamente quando questo si è formato e quindi anche l'età
dei reperti in esso contenuti. A causa della possibile contaminazione
dei depositi da parte di argon atmosferico che porterebbe a errori
di datazione, questo metodo viene utilizzato solo per l'analisi di
materiali (solitamente di origine vulcanica, come la pomice o i tufi)
più vecchi di centomila anni.
Il metodo del radiocarbonio (Carbonio 14) può essere impiegato
per datare la maggior parte dei materiali organici non più
vecchi di circa 70 mila anni. Ogni organismo vivente assorbe attraverso
la catena alimentare carbonio radioattivo (isotopo 14 C) sotto forma
di diossido di carbonio. Tale assimilazione continua fino a che l'organismo
è in vita; poi, dal momento della morte, l'isotopo radioattivo
inizia il processo di decadimento nell'azoto. Essendo conosciuta la
velocità di questo processo (in 5.730 anni si riduce alla metà)
è possibile, misurandone la quantità rimasta, stabilire
l'età del reperto organico (legno, carbone, ecc.) con un margine
di errore piuttosto basso.
MISTERI DEL BRONZO
L'UOMO VENUTO
DAL GHIACCIO
Da molto tempo
le donne si vestivano con tessuti ricavati da fibre vegetali e si
ornavano con fermagli, con corone, con diademi. Gli uomini avevano
scoperto l'utilità pratica dei calzoni, tubi di cuoio persino
raffinati; maglie di lana li proteggevano dal freddo. La caccia era
ancora praticata, anche se si allevavano animali da cortile e maiali
simili ai cinghiali. Con il latte delle capre già si sapevano
fare i formaggi. Negli accampamenti in quota e negli insediamenti
più stabili, a valle, si sentivano latrare i cani, discendenti
addomesticati dei lupi. I contemporanei dell'uomo di Similaun, come
è stata ribattezzata la mummia dell'uomo dell'Età del
bronzo trovata in territorio italiano, al confine con l'Austria, coltivavano
sistematicamente il grano farro, il grano duro e la segale, e sapevano
fare fermentare l'orzo, ricavandone birra. Non erano più cacciatori
e raccoglitori in perenne vagabondaggio, ma uomini sedentari che avevano
sviluppato la concezione del villaggio, punto centrale della loro
esistenza.
La scoperta dell'uomo venuto dal ghiaccio, vissuto con ogni probabilità
4.500 anni fa, ha suscitato nuovo interesse per quel periodo cruciale
della protostoria, l'Età del bronzo appunto, durata alcuni
millenni, e ha aperto anche interrogativi sulla conquista della montagna
da parte dei primi gruppi umani. Tutta intera la catena alpina, infatti,
era stata terra sconosciuta durante il Paleolitico.
I primi ad avventurarsi verso questo nuovo orizzonte furono uomini
del Mesolitico, circa 10.000 anni fa. A testimoniarlo, fra l'altro,
è una sepoltura ritrovata a Mont de la Val de Sora, 1.600 metri
di quota, in provincia di Trento: sotto un gran masso, gli specialisti
dell'Università di Ferrara hanno scoperto i resti di un cacciatore,
assieme a strumenti di selce e a un arpione ricavato da un corno di
cervo. Il suo corpo era stato trattato, nel corso del rito funebre,
con sostanze coloranti come l'ocra rossa. Altro ritrovamento importante
in Val Rosna, nelle Dolomiti: gli archeologi ferraresi hanno scoperto
quindici pietre tombali e lo scheletro intatto di un uomo vissuto
11.000 anni fa. Vicino, uno strumento di selce, una punta d'osso,
una pallina di ocra e un mattone d'argilla con un dipinto funebre
di tipo simbolico che raffigura un millepiedi. Ma le località
alpine conosciute del Mesolitico e del Neolitico, la fase finale dell'età
della pietra, sono almeno venti, distribuite fra Trentino, Veneto,
Liguria e Lombardia.
Come mai l'uomo si avventurò sulle Alpi? Soprattutto per motivi
di sopravvivenza. A causa di una glaciazione che aveva fatto sparire
dalle pianure la maggior parte dei grandi mammiferi, il sistema di
caccia e di raccolta entrò in crisi. Alcuni animali, come gli
stambecchi e i camosci, si erano però adattati bene al freddo
e si erano rifugiati in alta montagna quando i ghiacci si erano ritirati.
E l'uomo, favorito dal clima divenuto più mite in molte vallate
alpine, li andò a cercare. Gruppi di cacciatori, che portavano
con loro strumenti di pietra piccoli e leggeri (microliti), salirono
dunque sui monti. E alle quote alte trovarono acqua a volontà.
Che questa sia stata la prima fase della conquista della montagna
lo ammettono ormai tutti gli studiosi. La seconda, molto più
importante, si verificò dopo che dalle attuali Bulgaria e Romania
gruppi in migrazione avevano portato agli uomini preistorici della
penisola italiana il più recente ritrovato della tecnologia
dell'epoca: una lega di rame e di stagno, metalli esistenti in natura,
aveva creato il bronzo.
Nessuno sa come l'uomo abbia capito che il rame fuso, mescolato in
proporzioni diverse con lo stagno, potesse essere modellato per creare
utensili e strumenti. Quel che è certo è che in poco
tempo furono compresi i vantaggi del bronzo, che ha la proprietà
di non rompersi, come invece accadeva con gli utensili di calcare
o di selce. In più, il bronzo doveva rappresentare una specie
di status symbol: era utile e bello nello stesso tempo. Così,
la montagna cominciò ad essere frequentata, alla ricerca di
minerali che contenessero metalli utili per fondere strumenti e monili.
E anche per realizzare primitivi osservatori astronomici: sul Piccolo
San Bernardo c'è un cromlech, vale a dire una struttura megalitica,
che da anni sta appassionando gli studiosi. Si tratta di diversi cerchi
del diametro di ottanta metri, formati da pietre piantate verticalmente.
Studiando la posizione di Luna e Sole, si poteva mettere a punto un
rudimentale calendario.
Mentre l'uomo di Similaun scalava le alte quote tirolesi, infatti,
si stava compiendo la prima, importante rivoluzione della storia:
la nascita dell'agricoltura e dell'allevamento di specie domestiche.
Per la semina e per la riproduzione degli animali era necessario conoscere
sempre meglio i cicli stagionali e naturali. Con l'avvento dell'agricoltura
la condizione di relativa libertà del vecchio regime di caccia
e raccolta era quasi cessata. Perché? La impossibilità
di ottenere grandi scorte alimentari, mediante la produzione di cibo,
diede impulso a un cospicuo incremento demografico. I gruppi umani,
da nomadi, divennero stanziali e dipendenti da un territorio circoscritto.
Se poi il numero delle persone da nutrire era sproporzionato rispetto
alle risorse della zona, si doveva coltivare più terreno e
allevare un maggior numero di animali. Così, se da una parte
l'uomo dell'Età del bronzo cominciava a controllare il territorio,
dall'altra era fortemente impaurito dai suoi cambiamenti. La vita
dipendeva ormai dalla maggiore o minore generosità della terra.
E forse proprio per questo motivo sin dal Neolitico comparvero le
"Veneri", statuette realizzate dapprima in pietra, e in
seguito in ceramica, che rappresentavano dee della fertilità.
L'uomo di questa Età costruì palafitte per stabilirsi
direttamente sull'acqua che garantiva coltivazioni più redditizie.
E proprio vicino ai laghi, come quelli di Ledro e di Iseo, a Piadena
e Sirmione, in Lombardia, e presso il lago di Neuchâtel, in
Svizzera, gli archeologi hanno trovato utensili, ornamenti e capi
di vestiario. Più che la complicità dei ghiacciai, com'è
avvenuto per l'uomo di Similaun, in queste aree sono stati risolutivi
gli ambienti anaerobici (cioè scarsamente ossigenati) dei bacini,
con la mancanza pressoché totale di batteri distruttori sui
fondali: fatto che ha consentito la conservazione eccezionale di reperti
in cuoio, in lana e anche in lino.
Lo stile di vita degli uomini di questa Età era regolato dalle
leggi di clan allargati all'interno di microsocietà primitive.
Le unità principali erano i villaggi: in Europa, per esempio,
non furono mai realizzate quelle grandi opere collettive per l'irrigazione
che divennero il presupposto per la formazione di unità economico-politiche
più articolate e complesse, per il sorgere di caste di tecnici,
di sacerdoti, di militari, come avvenne in Oriente, nel Vicino Oriente
e nell'America centromeridionale.
Ma gli uomini del Bronzo dovettero ben presto affrontare un problema
che i loro antenati cacciatori e raccoglitori non avevano conosciuto:
quello della proprietà privata, costituita dai terreni coltivati
e dal bestiame allevato. Così questa era divenne anche l'epoca
delle armi su larga scala: armi per difendere i beni del villaggio
o per conquistare le risorse degli altri. In Valcamonica, dove sono
state finora contate 250.000 incisioni rupestri, e sul Monte Bego,
nelle Alpi Marittime, dove ce ne sono oltre 100.000, a 2.500 metri
di quota, l'uomo del bronzo espresse molto bene sulla roccia il suo
modo di pensare. Aratri e buoi, raffigurati con frequenza, spiegano
tanto il legame ossessivo con la terra, quanto il mito del toro, che
è di antica derivazione mediorientale. Ma è in particolare
la rappresentazione di moltissime armi a impressionare: uomini con
pugnali, con spade, con scudi. E divinità antropomorfe, con
la testa a forma di Sole, con il corpo costituito da segmenti che
raffigurano lame e pugnali. Sono i segni di un'altra rivoluzione,
che soltanto da poco gli antropologi hanno cominciato a decifrare
e a capire. In parole semplici: l'Età del bronzo come periodo
in cui a una pratica della violenza diffusa ma limitata si sostituisce
un'altra più organizzata, legittimata dalla necessità
di difendere bestiame e campi coltivati.
Una controprova? A poco a poco, le "Veneri" della fertilità
scompaiono. Al loro posto, si affermano gli dei della guerra. I monoliti
ciclopici di Stonehenge proiettavano già la loro maestosa geometria
sulle praterie del Sussex; in Sardegna venivano innalzati i primi
nuraghi; le tombe megalitiche delle Baleari, i dolmen, i cromlech
di Bretagna già costellavano le pianure d'Europa, quando il
guerriero di Similaun esalava l'ultimo respiro fra i ghiacci delle
Alpi. Da quelle creste egli avrebbe potuto idealmente dominare verso
sud le penisole mediterranee che già si aprivano alle prime
influenze delle civiltà d'Oriente, e verso nord un'Europa "barbarica",
dove però già si espandevano le radici delle sue future
nazioni. Forse egli morì proprio nell'atto di passare da un
mondo all'altro, varcando la barriera delle più alte montagne
del continente e perdendo la vita in un'impresa che doveva essere
relativamente comune alla sua gente. Il gelo ce lo ha conservato così
come le torbiere di Danimarca ci conservarono un altro europeo dell'Età
del bronzo, l'Uomo di Tollund, strangolato e gettato in un lago, probabilmente
per un rito sacrificale.
Le rupi alpine e quelle vette alte come il cielo sarebbero state descritte,
secoli e secoli più tardi, come regioni impossibili, abitate
da forze ostili e superumane che soltanto ad eroi dalla forza smisurata
era dato valicare. Così, si raccontò che Ercole avesse
attraversato quei gioghi, diretto a Occidente, per rapire i pomi fatali
delle Esperidi e le mandrie di Gerione. In realtà, molti anonimi
esseri umani abitavano e frequentavano le valli alpine quattromila
e più anni fa, e continuarono ad abitarle fino all'età
storica, colonizzando i pendii e le sponde fluviali con i loro villaggi
e le superfici lacustri con le palafitte. I Camuni hanno lasciato
incise le loro testimonianze sulle rocce.
Ad Aosta è stata scoperta una necropoli megalitica che fu attiva
dal 2600 al 2000 avanti Cristo e in cui lo scavo ha rivelato un inquietante
cerimoniale: le tombe erano comprese all'interno di una doppia linea
di pali, alla base di ciascuno dei quali c'era un cranio bucato di
ariete. In quell'area era stata poi praticata un'aratura rituale e
la semina di denti umani, un atto che richiama subito alla memoria
il mito degli Argonauti, in cui si narra che Giasone seminò
denti di drago dai quali nacquero bellicosi guerrieri coperti di bronzo.
In questa necropoli, come in una analoga e coeva scavata a Sion, in
Svizzera, si distinguono stele antropomorfe erette in posizione solitaria
e non collegate direttamente a una sepoltura. Su di esse è
scolpito il vestito riccamente ornato del guerriero, insieme con l'arco,
con l'ascia, col pugnale, le stesse armi che sono state scoperte accanto
all'uomo di Similaun. Ci troviamo qui di fronte a una forma di eroizzazione
di personaggi importanti della comunità che evidentemente si
distinguevano per la loro forza.
L'arco, l'ascia, il pugnale ci fanno capire anche come si svolgevano
gli scontri fra le varie unità tribali per il controllo del
territorio: prima, da lontano, lancio di nugoli di frecce; poi, da
distanza più ravvicinata, si scagliavano le asce; da ultimo,
la battaglia si risolveva in un selvaggio corpo a corpo con l'uso
del largo e corto pugnale, come il bellissimo esemplare rinvenuto
a Tirano, in Valtellina.
In Italia, ad esempio, i villaggi terramaricoli (il nome viene da
"terramare", termine con cui i contadini padani indicavano
i giacimenti archeologici di questa cultura) raggiunsero forme di
sviluppo straordinario. Ogni insediamento era circondato da un vallo
rafforzato da palificazioni e graticciati e circondato da fossati
larghi anche trenta metri in cui si faceva scorrere l'acqua con sofisticati
sistemi idraulici di prelievo e di scarico. La geometria ortogonale
di questi insediamenti fece pensare ai primi paletnologi di poter
riconoscere nei loro abitanti gli antenati degli Italici, e dei Latini
in particolare. E' stato calcolato che nella Valle Padana la densità
degli insediamenti terramaricoli fosse di uno ogni quattro chilometri
e la popolazione di circa sedici abitanti per chilometro quadrato.
Verso la metà del secondo millennio, stranamente, in Italia
le comunità del Nord erano più sviluppate di quelle
del Sud esposte a una sorta di "colonizzazione" dall'Oriente.
Un mito antichissimo parla di una spedizione di Minosse contro la
Sicilia e gli scavi di Sant'Angelo Muxaro hanno fatto pensare alla
mitica Camico e al suo re Kòkalos. E' questo il periodo in
cui la penisola ellenica è occupata da una razza di formidabili
guerrieri che si insediano in Beozia, in Attica e nel Peloponneso.
La poesia di Omero li avrebbe chiamati Achei e le scoperte di Enrich
Schliemann li avrebbero classificati come Micenei, dalla possente
città argolica su cui regnò la tragica dinastia degli
Atridi.
Su questa civiltà, come su quella minoica che l'aveva preceduta,
avevano avuto forte influenza le civiltà teocratiche e palaziali
dell'Oriente, determinando un assetto politico di tipo monarchico,
fortemente accentrato e burocratizzato qual è quello che possiamo
dedurre dalle tavolette di "Lineare B" restituite dagli
scavi di Micene. Certo, le terramare e i villaggi dell'Europa centrale
erano poca cosa, paragonati ai palazzi dei signori micenei, alle rocche
formidabili di Argo e di Tirinto, eppure non è poi tanto arrischiato
pensare che già in questo periodo si formasse l'embrione di
quella che un giorno sarebbe stata la civiltà politica d'Europa:
le comunità del villaggio e della città in cui si sarebbero
sviluppate le forme del vivere comune e della comune gestione della
cosa pubblica.
Quasi sicuramente, nei cinquecento anni che separano l'età
dell'uomo di Similaun dall'era dei principi micenei, si formarono
le radici dei popoli europei, si configurarono le etnie che sarebbero
balzate da protagoniste sulla ribalta della storia: i Greci, i Latini,
i Siculi muovevano dalle sedi originarie verso le loro sedi storiche.
Sulla costa sud del Tirreno si stabilivano i mitici Ausoni, antenati
della nazione italica di cui sembra si possa riconoscere l'invasione
nelle distruzioni dei primi villaggi dell'Età del bronzo a
Lipari. Forse nell'Europa centrale si stabilizzavano lentamente le
culture da cui sarebbero originate le nazioni celtica e germanica,
che per lungo tempo sarebbero state-chiamate dai Greci col misterioso
nome di Iperborei.
In questo periodo si diffonde il cavallo, e con esso l'uso del cocchio,
vero e proprio simbolo dell'eccellenza guerriera e aristocratica.
Le lance diventano lunghe e pesanti, le spade grandi e massicce. I
corredi maschili sono distinti, nelle tombe, dai costosi attributi
guerreschi, quelli femminili da preziosi gioielli di ambra importata
dalle remote regioni baltiche. Le comunità, da nuclei di tipo
parentale, passano a forme più complesse, si sviluppano relazioni
fra gruppi aristocratici sulla base di doni ospitali e anche dello
scambio matrimoniale. La determinazione del gruppo sanguigno nei resti
degli inumati, in una necropoli del Sud d'Italia, ha dimostrato che
mentre tutti gli uomini erano omogenei (e dunque autoctoni), l'unica
donna presente veniva da altri gruppi etnici. I signori cominciavano
a praticare lo stile di vita che ne avrebbe immortalato l'etica nelle
tradizioni epiche. La ricchezza permetteva loro di esercitarsi nell'uso
delle armi, l'alimentazione più ricca li faceva più
forti, persino più alti degli altri comuni mortali, e questo
loro carattere li avrebbe distinti nella poesia eroica come esseri
superumani.
Forse, nella seconda metà del secondo millennio, si fissarono
le tradizioni che in seguito avrebbero trasmesso i grandi miti; e
forse nacque la poesia orale, specchio e celebrazione di un mondo
aristocratico e guerriero destinato un giorno a cristallizzarsi nella
solenne fissità dei grandi poemi epici.
Poi, verso la fine del XII secolo, d'improvviso, la catastrofe. Le
possenti rocche micenee sono distrutte dal ferro e dal fuoco, l'impero
anatolico degli Hittiti va in pezzi, l'Egitto faraonico è scosso
dalle fondamenta da disastrose invasioni e suoi documenti geroglifici
indicano popoli che avrebbero dato il proprio nome alle regioni più
lontane e disparate, come se una loro effimera coalizione fosse esplosa
disseminando il Mediterraneo di schegge impazzite: Lici, Filistei,
Siculi, Achei, Sardi, Dardani, Tirreni ... Persino in Italia le terramare
sono improvvisamente abbandonate e quando, agli inizi dell'Età
del ferro, i Villanoviani protoetruschi si affacciano in Val Padana
dai valichi appenninici, si trovano in un paese spopolato.
Le cause di un cataclisma del genere non sono ancora del tutto chiare.
C'è chi pensa a una grande invasione, c'è chi ipotizza
una lunga carestia causata da una persistente e micidiale siccità,
c'è chi pensa alle due cause insieme e all'esplodere di tumulti
e di rivolte interne.
L'età degli eroi tramontava per sempre e si apriva un periodo
dai contorni storici e culturali confusi: una sorta di oscura età
di mezzo. Eppure, sulle sponde dell'Anatolia, la diaspora micenea
si sarebbe ristabilita portando con sé le sue tradizioni, le
memorie dei fulgidi palazzi, degli ori, degli avori, dei "bronzi
accecanti", con le saghe delle imprese degli eroi che un giorno
avevano regnato sulle pianure di Argo nutrice di cavalli, su Pilo
sabbioso, su Itaca rocciosa. La lancia di Achille giaceva ormai spezzata,
ma la nave di Odisseo si era salvata, e dai porti sicuri di Anatolia
si apprestava nuovamente a mettere la prua alle onde.
ABORIGENI DEL DUEMILA
GLI ULTIMI
CACCIATORI
Gli sviluppi dell'agricoltura
erano stati lentissimi soprattutto nei primi millenni e la diffusione
delle tecniche di coltivazione avevano impiegato migliaia di anni
per raggiungere regioni lontane da quelle in cui avevano avuto inizio.
Ma ancora oggi l'agricoltura non è giunta dappertutto, sia
per la stessa lentezza di diffusione sia perché alcuni ambienti
ecologici, come la tundra e la foresta tropicale, si prestano poco
o per nulla alle nuove tecnologie, e quindi sopravvivono in diverse
parti del mondo tribù che non hanno abbandonato, o non hanno
abbandonato completamente, il modo di vivere che ha caratterizzato
l'uomo per oltre duemila anni. Gli antropologi chiamano questi uomini
sempre "cacciatori-raccoglitori". Oppure "aborigeni".
La stessa pesca non è una novità: il pesce si mangiava
già da almeno 400 mila anni, e l'amo e l'arpione erano in uso
in Europa e in Africa da almeno 14 mila anni. Settemila anni fa i
frutti della pesca costituivano il 70 per cento del cibo in Danimarca.
Sulla costa del Pacifico, in Canada, il salmone che imboccava la foce
dei fiumi per risalirli e compiere l'ultimo atto della sua vita, la
riproduzione, veniva facilmente catturato con le mani e costituiva
una ricchissima fonte di nutrimento per una popolazione numerosa.
A differenza del salmone europeo, quello americano muore dopo aver
generato.
Pesci e molluschi sono stati per lungo tempo materia prima di nutrizione,
ma solo per le popolazioni vicine al mare o all'acqua dolce. La maggioranza
cercava altre risorse, e le trovava nella caccia e nella ricerca di
frutta, tuberi, funghi, radici. Vi sono ancora oggi popoli di cacciatori-raccoglitori
in ogni continente, esclusa l'Europa. Vivono tutti in zone marginali,
distanti dai centri abitati anche più modesti, e dalle strade
e piste battute. In Siberia vivono cacciatori Nganasan di renne selvatiche,
ma soltanto nell'estremo nord, e sono ormai poche centinaia. Gli altri
Nganasan sono diventati pastori di renne addomesticate.
Nel Sud dell'India vi sono alcuni popoli di cacciatori-raccoglitori,
come in Malesia, nelle Filippine e - scoperti solo qualche anno fa
- nel cuore del Borneo. Nell'estremo nord dell'America vi sono gli
Esquimesi. Nelle foreste dell'Amazzonia centinaia di tribù
aborigene rifiutano la vita moderna, anche se hanno imparato a coltivare
alcune specie di piante che crescono anche in foresta, come la manioca.
Questa piccola agricoltura non impedisce loro di muoversi quasi quanto
il cacciatore, e del cacciatore hanno conservato i costumi.
In Africa sopravvivono due grandi gruppi di cacciatori-raccoglitori:
i Pigmei nella foresta tropicale, e i Boscimani nel deserto del Kalahari
(Namibia e Botswana). In Australia, al tempo della scoperta, c'erano
circa 300 mila aborigeni, oggi ridotti a 45 mila, di cui alcuni acculturati,
altri in riserve presso grandi città, e pochi viventi ancora
secondo i costumi tradizionali in una regione del nord che il governo
australiano ha chiuso completamente all'accesso di estranei. Gli aborigeni
australiani usavano ancora strumenti di pietra al tempo della scoperta.
I loro vicini più a nord, gli aborigeni della Nuova Guinea,
hanno continuato ad usarli più a lungo, e fino agli inizi degli
anni '70 del nostro secolo ciascuno possedeva e sapeva fare strumenti
di pietra, ma aveva ormai occasioni per procurarsi coltelli e strumenti
moderni di metallo. In realtà, al tempo della scoperta la Nuova
Guinea era tecnicamente più avanzata dell'Australia, poiché
aveva adottato l'agricoltura da millenni ed era, archeologicamente
parlando, nel Neolitico anziché nel Paleolitico, il livello
culturale al quale erano rimasti ancorati gli Australiani.
Gli studiosi sono molto interessati a conoscere la vita dei pochi
cacciatori-raccoglitori superstiti, perché pensano di poter
così ricostruire il sistema di vita dei nostri antenati. Lou
Binford, docente di antropologia ad Albuquerque, nel Nuovo Messico,
ha trascorso parecchio tempo con gli Esquimesi per capire qualche
cosa di più della vita dei cacciatori Maddaleniani che abitavano
in Europa al tempo dell'ultima glaciazione. Allora il clima, oggi
temperato, non era molto diverso da quello del Canada del Nord. Sedicimila
anni fa circa andavano a caccia nel Sud-Ovest della Francia i pittori
della grotta di Lascaux, la "Cappella Sistina della preistoria".
Col tratto sicuro dei grandi artisti, costoro disegnavano sulle pareti
delle caverne le figure degli animali che allora popolavano le colline
e le valli, e che costituivano il loro bersaglio e cibo quotidiano.
Oggi gli Esquimesi (o Inuit, come essi stessi si chiamano) sono ridotti
a poco più di ventimila e hanno dovuto piegarsi a molti adattamenti
e compromessi per sopravvivere. Gli ultimi igloo sono degli anni '60.
Di solito gli Inuit vivono in prefabbricati forniti dal governo canadese,
che passa a ciascuno di loro anche un modestissimo sussidio. Ma la
loro Weltanschauung sopravvive. Una caratteristica curiosa: secondo
una recente statistica, circa il 75 per cento degli adulti Inuit ha
vocazione artistica. La prima attività è stata la scultura,
per lo più in pietra locale, la steatite, dalla superficie
lucida e morbida al tatto. Qualche volta si usano l'avorio e l'osso.
Da qualche anno un artista e scrittore canadese, James Houston, ha
introdotto tra gli Inuit la tecnica litografica, lasciando agli allievi
la più totale libertà d'espressione, di tecnica del
disegno, di scelta dei temi e soggetti. Risultato: sono nate splendide
opere d'arte, e sono nate piccole comunità d'artisti disperse
nell'Artico, tanto che il governo canadese ha messo su un archivio
completo di fotografie e di originali dei disegni, delle stampe e
delle sculture.
Sorprendenti le analogie di comportamento sociale tra Inuit, Australii,
Pigmei, Boscimani, aborigeni del Borneo: specchio fedele dei tempi
in cui l'agricoltura ancora non esisteva.
MONUMENTI MEGALITICI
GLI UOMINI
DI PIETRA
Dall'imponente
complesso megalitico del III millennio a.C. scoperto alla periferia
di Aosta sono emerse decine di stele incise, raffiguranti personaggi
riccamente abbigliati, piattaforme di pietre, tra cui un'enigmatica
struttura, lunga quindici metri, a pianta triangolare, sulla quale
poggia una tomba-stanza (un dolmen) formata da grandi lastroni disposti
a cubo, e varie tombe. Le stele non sono disperse nel terreno, ma
inglobate come materiale da costruzione nelle strutture delle tombe,
e per capire perché vennero utilizzate e chi potrebbero raffigurare,
è necessario ripercorrere la lunga vita di questo complesso
preistorico.
La parte più antica dell'insediamento risale intorno al 3000
a.C. ed è rappresentata da una serie di buche in cui vennero
deposti crani di bue e di ariete e poi infissi grossi pali, probabilmente
con immagini totemiche. Circa tre secoli dopo, l'intera arca venne
delimitata da un'aratura rituale e da una "semina" di veri
denti umani, in prevalenza incisivi. Poi il tutto fu ricoperto con
uno strato di terra sul quale, tra il 2700 e il 2400, vennero eretti
piccoli menhir, larghe piattaforme di pietra e due allineamenti di
stele, alte fino a tre metri, raffiguranti personaggi riccamente vestiti
e in alcuni casi armati di pugnali, di asce e di archi. Intorno al
2400 qualche cosa cambiò: le stele vennero abbattute in modo
che la faccia disegnata fosse rivolta verso il terreno o, in molti
casi, utilizzate come materiale da costruzione per realizzare grandi
tombe collettive. Nonostante l'abbattimento e il reimpiego come materiale
da costruzione, le stele dovettero conservare un certo valore simbolico,
quasi fossero considerate reliquie in grado di "divinizzare"
le sepolture dei personaggi più importanti.
A questa fase appartiene anche la grande struttura triangolare sulla
quale sorge il dolmen che ha restituito gli scheletri di una cinquantina
di individui. Verso la fine del III millennio le tombe divennero meno
monumentali e lentamente il luogo decadde: si concludeva in questo
modo l'avventura degli uomini delle stele, giunti mille anni prima
nella Valle d'Aosta.
Ma come leggere questi monumenti? E chi furono i costruttori? E da
dove venivano?
Secondo un'ipotesi dell'archeologo Franco Mezzena, proprio agli inizi
del III millennio gruppi umani stanziati nelle regioni del Caucaso
si spostarono in diverse ondate in direzione occidentale alla ricerca
di metalli, percorsero tutta l'Europa seguendo il corso dei fiumi,
raggiunsero il Baltico e il Mare del Nord, costeggiarono l'Atlantico
e navigarono il Mediterraneo in lungo e in largo. Dovunque passassero,
questi uomini avventurosi lasciarono i segni della loro presenza (stele
e menhir) e portarono innovazioni fondamentali: l'aratro, la ruota,
il carro, un preciso sistema di misura e nuove idee religiose, espresse
appunto nei monumenti megalitici e nelle stele.
Questi uomini sono gli eroi della mitologia greca e sono senza dubbio
gli uomini che in meno di due secoli crearono la prima "unità
europea", diffondendo in tutto il continente nuove conoscenze
e nuove ideologie. Si chiamavano Ercole, Giasone, Cadmo, e le loro
gesta narrate dai miti, come quello degli Argonauti alla ricerca del
vello d'oro, altro non sono che la trasposizione di una realtà
storica ora riscontrabile archeologicamente. Le rotte indicate dagli
antichi racconti, che credevamo leggenda, sono segnate dai giganteschi
menhir (le Colonne d'Ercole che le fonti antiche collocano infatti
non solo a Gibilterra), e dalle stele che dalla Russia al Portogallo
presentano sempre gli stessi canoni stilistici. Ad Aosta, inoltre,
la grande struttura triangolare suggerisce la prua di una grossa nave
sulla quale viaggiano simbolicamente i defunti sepolti nel dolmen-cabina:
un simulacro di pietra che ricorda le vere navi degli eroiesploratori.
I primi viaggi di esplorazione delle terre occidentali dovettero rappresentare
una fase epica per questi popoli e presto i protagonisti entrarono
nel pantheon di diverse popolazioni, greci compresi, che ce li hanno
tramandati col linguaggio del mito, finendo così per oscurare
la realtà storica. Ma ora sappiamo che i miti sono spesso realtà
trasfigurate: molti dei rituali trovati in queste tombe, come l'aratura
sacra, la semina dei denti, la sepoltura di solo alcune parti dei
corpi, sono esattamente quelli che gli scrittori greci hanno descritto
parlando del mito degli Argonauti, di Cadmo, di Ercole: la corrispondenza
è impressionante. E sconcertante è anche la capacità
che hanno le tradizioni, gli oggetti, le idee, di attraversare i millenni
per ripresentarsi quasi intatti ai nostri occhi. E' il caso del sistema
di misura impiegato dai costruttori di questo complesso megalitico:
è il sistema di misura anglosassone, col pollice e con la yarda.
Soltanto dopo anni di lavoro ci si è accorti che ogni particolare
costruttivo e persino ogni dettaglio dei disegni delle stele vennero
eseguiti osservando scrupolosamente queste unità di misura.
E si ha una ragionevole certezza: quando si andrà a controllare
i monumenti megalitici delle altre aree europee si troveranno le identiche
misure.
Ciò significa che nell'area anglosassone il sistema è
sopravvissuto intatto per cinquemila anni, come peraltro è
accaduto anche nella Valle d'Aosta, dove pollici e yarde sono stati
utilizzati fino al periodo napoleonico: evidentemente, ci fu un'epoca
in cui queste unità di misura erano comuni in tutta Europa.
Si è altresì convinti che si troveranno stele anche
in zone ricche di megaliti, anche se finora, per disattenzione degli
archeologi, non hanno restituito monumenti figurativi, come il Nord
Europa e la Gran Bretagna. Questo completerebbe il panorama della
diffusione del popolo delle stele.
Ma ci sono altri particolari curiosi: i personaggi raffigurati nelle
stele indossano corpetti caratterizzati da disegni geometrici, triangoli,
quadratini, losanghe, che formano un "tessuto" molto simile
alle stoffe scozzesi, e l'impressione è accentuata da quel
"perizoma" semicircolare che sembra proprio la borsa che
gli scozzesi portano appesa davanti al gonnellino. C'è da chiedersi
se in quelle regioni del Nord, oltre al sistema di misura, non si
siano conservati anche intatti gli abiti che fecero la prima Europa.
I BISONTI Di SORMIOU
LA CATTEDRALE
SOTTO IL MARE
Una cattedrale
del Paleolitico superiore. Henri Cosquer, l'uomo che l'ha scoperta,
ne parla con emozione. Non è un archeologo. E' un subacqueo.
La grotta di Sormiou ci riporta indietro di 18, forse 19 mila anni.
Dà le vertigini l'idea di questo "arretramento" della
storia europea. Anche perché di quei disegni scoperti sulle
pareti, uno scienziato del calibro di Jean Courtin, direttore di ricerca
al Cnrs francese, vede una sorta di linguaggio in codice, "un
po' come quello dei sordomuti". Soprattutto nelle mani dalle
dita tagliate o ripiegate. Appartenevano ai nostri antenati, che la
scienza chiama uomini del Cro-Magnon.
La grotta è più antica di quella di Lascaux, che risale
a 13 mila anni fa. Sulle pareti del calanco di Sormiou, che si trova
tra Marsiglia e Cassis, si coglie un'arte più elaborata. Un'arte,
dicono gli specialisti, che si ignorava. Oltre alla rappresentazione
di animali, ci sono alcuni segni geometrici, il cui esame durerà
ancora per molti anni, con tutto uno sfondo di mistero.
La grotta porta il nome del subacqueo, il quale dice: "Quel cunicolo
a trentasei metri dal livello del mare, tra le calanche della baia
di Triperie, mi attirava, anche se poteva essere senza interesse,
come tanti altri nella zona". Il suo racconto prende le mosse
da un giorno del 1985 quando, immergendosi, scorse l'ingresso della
grotta.
Salì lungo il budello per duecento metri, ma l'acqua era torbida.
Per di più le lampade si spensero improvvisamente, per un guasto.
La grotta si raggiunge soltanto dalle profondità del mare.
Ora, le autorità francesi stanno pensando di trovare un ingresso
in superficie, magari scavando una galleria, per consentire agli scienziati
di esaminare i "dipinti" degli uomini di Cro-Magnon. Ma
è un rischio enorme quello di modificare l'equilibrio dell'atmosfera
all'interno della cavità.
Nel 1987 - ed era la seconda volta che Cosquer ci provava - riuscì
ad emergere nella "navata" della cattedrale paleolitica.
La visione delle pareti "affrescate", in una sala di circa
cinquanta metri di diametro dalle quali si alzano le stalagmiti, lo
sconvolse. Si rese subito conto dell'importanza della scoperta e ne
informò le autorità scientifiche. Era il 3 settembre
1990. Venne immediatamente impartito un ordine: top secret scientifico.
Non si doveva rivelare l'esistenza della grotta. Oltre tutto, tre
speleologi, forse attirati dalle voci che già correvano a Cassis,
vi avevano perso la vita. Uno di essi morì di paura perché
non trovava più il cunicolo d'uscita. Gli altri due per mancanza
d'aria, forse per un guasto alle bombole.
Il 15 settembre, accanto a Cosquer che sale tenendosi a una corda,
c'è il professor Courtin. La scoperta è sensazionale
anche rispetto a quelle di altre grotte dei Pirenei o dei Paesi Baschi
spagnoli.
Courtin è stupefatto e affascinato nello stesso tempo. Ci sono
due sale. La seconda si alza a cupola per trenta metri. Ma è
nella prima sala, quella più grande e nella quale si emerge,
che si trovano i disegni preistorici. Sulle pareti ci sono pitture
che raffigurano sei cavalli, tre bisonti, tre volatili - ma potrebbero
essere anche dei pinguini - un cervo, alcuni stambecchi e persino
un felino che fa pensare a una pantera. Tutti tracciati col carbone
e all'ossido di manganese. Poi ci sono delle incisioni che gli uomini
del Cro-Magnon realizzarono con pezzi di selce: cavalli, stambecchi,
anche camosci, e - particolare stupefacente - una foca.
Lo stambecco è un animale che vive nelle zone fredde. All'epoca
in cui la grotta divenne luogo di culto, si poteva raggiungere via
terra: la linea di costa era ad oltre dieci chilometri. Tutt'intorno,
c'era un clima simile a quello della Norvegia. Un puro e semplice
paesaggio di steppe.
Le figure dei bisonti di Sormiou si discostano da altri "affreschi"
del Paleolitico. I loro musi non sono di profilo e si possono vedere
il naso e gli occhi. Alcune particelle di carbone, esaminate all'università
di Lione, li fanno risalire, appunto, a 18-19 mila anni fa, con un'approssimazione
di circa 500 anni. Secondo gli scienziati, non ci possono essere dubbi:
oltre ad essere "autentica", la grotta è la prima
cavità decorata che viene scoperta sul litorale mediterraneo.
Uno degli aspetti più misteriosi, almeno per ora, riguarda
i segni geometrici e le mani dipinte con un procedimento "in
negativo" che dovrebbero risalire intorno a 12 mila anni fa.
E ciò indicherebbe una frequentazione della grotta durata circa
ottomila anni. Chi antichi artisti poggiavano le loro mani sulle pareti
e spargevano intorno dei pigmenti. Si scorgono due dozzine di mani,
alcune su fondo rosso, altre su fondo nero. Ci sono mani cui mancano
una o due dita. Amputazioni rituali, oppure soltanto dita ripiegate?
Alcuni anni fa, il professor André Leroi-Gourhan, riferendosi
a impronte analoghe lasciate dagli aborigeni australiani, sostenne
l'ipotesi di un linguaggio cifrato.
La grotta doveva essere un luogo magicoreligioso. Forse vi si celebravano
riti legati alla caccia. Raffigurando un animale, l'uomo di Cro-Magnon
doveva, idealmente, impadronirsene. E' un'ipotesi, come quella che
il cavallo debba essere associato a una simbologia virile e il bisonte
a una simbologia femminile. Le pitture ci vengono, intatte, dalla
notte dei tempi, grazie a uno strato microscopico di cristallizzazione
calcarea che ha come "fissato" i pigmenti. Basta strofinare
per cancellare. Ecco perché il pubblico non sarà mai
ammesso nella cattedrale paleolitica scoperta da Cosquer.
UNA ZIQQURAT IN SARDEGNA
LA TORRE DI
BABELE DEL "TEMPIO ROSSO"
Popolazioni mesopotamiche
sbarcarono in Sardegna 4400 anni fa? Sembra un'ipotesi assurda, eppure
non si riesce a dare una diversa interpretazione a un misterioso,
imponente edificio scoperto in provincia di Sassari che ha tutte le
caratteristiche delle "ziqqurat", i templi a gradoni tipici
delle civiltà mesopotamiche, che ispirarono il racconto della
Torre di Babele.
Ciò che oggi resta di questo enigmatico edificio è una
collinetta alta poco meno di dieci metri, sulla quale si sale percorrendo
una rampa lunga una quarantina di metri e larga tredici. Ma il cuore
del mistero è all'interno del monticolo artificiale sostenuto
da un muro di grandi pietre che delimita il perimetro quadrangolare
dell'edificio. Nel corpo della collinetta, infatti, sono state scoperte
strutture che sono identiche a una vera e propria ziqqurat, che starebbe
benissimo nella pianura tra il Tigri e l'Eufrate, e che invece si
alza a Monte d'Accoddi, a undici chilometri da Sassari, sulla strada
per Porto Torres.
Quella della scoperta è una storia lunga. Infatti, giungere
a capire che sotto il monticello di terra c'era una struttura del
2400 a.C. non è stato agevole, anche perché gli archeologi
hanno dovuto lavorare senza distruggere il monticello stesso. Così,
è necessario risalire agli anni '50, quando l'allora senatore
Antonio Segni, poi presidente della Repubblica, proprietario dell'area
sulla quale sorge l'edificio, donò il terreno allo Stato, chiedendo
alla Soprintendenza sassarese di indagare su quelle pietre che affioravano
tra i cespugli.
Il lavoro venne affidato all'archeologo Ercole Contu, il quale iniziò
a scavare con l'aiuto di una cinquantina di detenuti "prestati"
dal carcere dell'Asinara, con tanto di guardie al seguito. Con due
campagne di scavo e alcuni saggi in profondità, Contu capì
che non si trattava di uno dei tanti nuraghi sardi, ma di qualcosa
che non esitò a paragonare ad una ziqqurat edificata dove in
epoca ancora più antica esisteva un luogo di culto megalitico,
testimoniato dal ritrovamento di un menhir alto quattro metri e mezzo
e di un lastrone ovale di oltre tre metri (una tavola sacrificale?)
adagiato su sostegni di pietre.
L'ipotesi di Contu, sconcertante e rivoluzionaria, (chi poteva aver
costruito una ziqqurat in Sardegna?), non venne tenuta in gran considerazione,
e finì ben presto nel generale disinteresse. Archeologi, detenuti
e guardie abbandonarono Monte d'Accoddi. Si tornò a parlare
della cosa solo nel 1979, quando Contu - ormai diventato Soprintendente
- affidò la ripresa degli scavi a Santo Tiné, docente
di archeologia all'università di Genova. La prima novità
di quell'anno fu la scoperta di un tratto di muro poco più
di tre metri sotto la sommità del monticolo. Un muro di pietre
ben cementate con malta, che indicava una tecnica costruttiva altamente
evoluta; lo stesso muro che nel corso delle successive campagne di
scavo è stato individuato in altri punti e che ha permesso
di ricostruire il perimetro del locale rettangolare che sorgeva alla
sommità e che doveva essere il tempio vero e proprio. Altro
ritrovamento importante fu quello di una stele di pietra, con scolpita
una figura femminile molto schematica, che era collocata accanto al
muro perimetrale del monticolo, sul lato opposto rispetto a quello
della rampa di accesso.
Le campagne di scavo degli anni successivi portarono importanti conferme
e sconcertanti delusioni dovute alla singolarità della struttura
che non rispondeva in alcun modo ai canoni dell'architettura preistorica
europea e rimandava continuamente a un "impossibile" modello
mesopotamico. A questo si aggiungeva la difficoltà di lavorare
senza distruggere i livelli superiori, testimonianza delle diverse
fasi cronologiche della vita del monumento, ora delineato con sufficiente
chiarezza.
Prima del 2400 a.C. esisteva un centro culturale megalitico, tipico
delle culture preistoriche del Mediterraneo, indicato dal menhir e
dalla pietra sacrificale; intorno alla data suddetta accadde qualcosa
che portò all'abbattimento del menhir e alla realizzazione
della grande piattaforma sulla quale si saliva mediante una rampa
laterale che portava alla sommità della struttura dove c'era
il tempietto in muratura, con le pareti e il pavimento dipinti di
ocra rossa.
Qualche tempo dopo un incendio distrusse il tempio rosso e gli abitanti
del luogo crearono sulla cima della piattaforma e sui resti del tempio
una serie di muretti di sostegno per poter rialzare l'intera struttura,
fino a quasi dieci metri di altezza. Sopra, probabilmente, riedificarono
il tempio. La ristrutturazione della piattaforma e il suo innalzamento
finirono però per inglobare la rampa laterale, e così,
per accedere al nuovo tempio (del quale però non è rimasta
traccia), venne creata la grande rampa di 42 metri che ancora oggi
caratterizza Monte d'Accoddi.
Questo è quanto è stato accertato. Ma gran parte del
mistero è ancora intatto: questa ziqqurat in piena Sardegna
è infatti inesplicabile.
Forse la risposta a tutti gli interrogativi è proprio al centro
di quella stanza colorata di rosso. Se ne è individuato il
perimetro con scavi che sono scesi in verticale nel monticolo, ma
il centro del pavimento è ancora sotto la massa della struttura
edificata nella fase di ampliamento: un "pacco" di strati
che non possono essere demoliti. Per questo motivo, arrivati sul piano
del pavimento in prossimità di un angolo del locale, si è
aperto un cunicolo orizzontale, poi ampliato fino a creare un stanza
sotterranea sorretta da putrelle di acciaio che hanno permesso agli
archeologi di lavorare come talpe all'interno della stanza rossa.
Così si è allargato il vano sotterraneo per tutta l'ampiezza
del locale antico.
Ora si cerca l'eventuale presenza di un foro di passaggio che porti
nel sottosuolo. Se c'è, il monumento potrà essere collocato
nell'ambito culturale della preistoria sarda, della quale peraltro
si conosce molto poco. Altrimenti, si conferma l'ipotesi della ziqqurat
con cella sacra sulla sommità: con l'altra ipotesi, quella
dell'arrivo in Sardegna intorno alla metà del 111 millennio
a.C. di un sacerdote-architetto mesopotamico che riuscì a imporre
la sua religione agli autoctoni e a creare una struttura socio-politica
tale da permettergli la realizzazione di questo imponente tempio.
Se ciò accadde, però, rimase un fenomeno isolato e per
questo ancora più enigmatico. Gli unici elementi "stranieri"
rinvenuti in quest'area sono frammenti di idoletti femminili di stile
cicladico, cioè dell'Egeo, ai quali può essere ricollegata
l'immagine, anch'essa femminile, scolpita sulla stele. Niente di più,
e niente di meno.
Un altro lampo di mistero, e di fascino, è dato dal ritrovamento
di centinaia di migliaia di gusci di conchiglie (tipo Shell), spesso
accumulate in piccoli pozzetti d'offerta, che suggeriscono doni votivi
adatti a una divinità femminile, proprio come quella scolpita
nella stele. Che sia la "Signora della stanza rossa"? Oppure
fu proprio costei ad essere mandata in esilio da un dio venuto dall'Oriente?
DAL VILLAGGIO ALLA ZIQQURAT
Il primo villaggio
- Il primo insediamento umano di Monte d'Accoddi è del V millennio
a.C. ed è rappresentato da un agglomerato con capanne a pianta
sub-circolare in parte infossate nel terreno. Gli scavi hanno restituito
frammenti ceramici decorati con sottili incisioni puntiformi.
Il centro di culto
- Un nuovo villaggio sostituisce quello precedente. Ora le capanne
hanno pianta rettangolare e muri a secco. C'è un'area sacra
segnalata da un menhir e da un altare circolare di pietra. Il centro
religioso, riferibile alla "cultura Ozieri", decade nel
2440 a. C.
Il Tempio Rosso
- Nel 2440 a.C. il menhir è ormai abbattuto e nell'area sorge
la prima ziqqurat (24 per 27 metri) con una rampa lunga 25 metri.
Realizzato con piccole pietre connesse con malta, il Tempio è
completamente intonacato e dipinto di rosso. Sulla piattaforma c'è
una cella sacra delimitata da un muretto alto 70 centimetri: probabilmente
era completata con una sovrastruttura in legno.
La grande ziqqurat
- Dopo due o tre secoli, un incendio devasta il Tempio Rosso e sull'antica
struttura viene edificato il secondo monumento che ingloba completamente
il Primo. Ha una pianta quadrangolare di 29 per 36 metri e una rampa
di 42 metri: sulla sommità doveva avere una cella simile a
quella del Tempio Rosso. Dietro la ziqqurat viene collocata una stele
di un metro e mezzo raffigurante un'immagine femminile molto stilizzata.
Nel 1800 a.C. la grande ziqqurat di Monte d'Accoddi è ormai
in completo abbandono.
LA "TERZA MERCE"
DAL BARATTO
ALL'ORO
I prototipi della
generazione umana - come tramanda la Genesi - si divisero immediatamente
i compiti: alcuni si dedicarono all'agricoltura, altri alla caccia
e all'allevamento del bestiame. Anche nel primo nucleo familiare le
mansioni si sono certamente diversificate; e così è
avvenuto nella più allargata società, fino all'epoca
moderna.
Questo stato differenziato ha condotto a diversità di bisogni,
sia nella qualità che nella quantità, sia di luogo che
di tempo. E la necessità di provvedersi di quanto adatto al
soddisfacimento delle proprie occorrenze, non essendo tutto disponibile
per lavoro autonomo ma prodotto più utilmente da altri individui,
ha portato allo scambio, cioè al passaggio da un individuo
all'altro (da un gruppo all'altro) di beni e di servizi, secondo regole
di convenienza.
Dunque, lo scambio affonda le radici nella preistoria e giunge a noi
- che viviamo di scambi - lungo i millenni, dopo travagliate esperienze,
resesi necessarie per passare dal primo rudimentale baratto di cose
indispensabili all'odierno colossale commercio di beni pronti o futuri,
vicini o lontani, come i traffici che oggi si realizzano in tempo
reale da un continente all'altro con l'impiego di un telex o di una
telefonata in teleselezione via satellite, ma soprattutto con conoscenze
perfette delle complesse e diverse condizioni di mercato del produttore,
dell'intermediario e del consumatore. Siamo, nello stesso tempo, gli
epigoni dell'Australopiteco e dell'Uomo del terzo millennio.
In passato la situazione era ben diversa: pochi gli oggetti di scambio
e non sempre desiderabili dai contraenti; il più delle volte
non erano divisibili, né facilmente trasportabili, alcuni anche
di difficile conservazione; scarsi gli incontri e limitate le possibilità
di reciproca conoscenza.
Probabilmente fu questo il primo trapasso di civilizzazione; non potendosi
mettere in atto facilmente scambi diretti di cose, si è andati
alla ricerca di un'altra serie di beni, ritenuti graditi da entrambe
le parti.
E' entrata così nella storia dello scambio la terza merce;
è il primitivo apparire della funzione monetaria che, sia pure
con faticose e lente successioni di interventi, ha cambiato lo stile
di vita dell'uomo. Questi ha potuto utilizzare più agevolmente
i beni naturali, avviarsi a crescere con i lavori manifatturieri,
poiché lo scambio, reso più semplice da uno strumento
intermedio, ha moltiplicato le sue produzioni e i suoi commerci.
Nel baratto, dai prodotti naturali quali il grano e il bestiame (Nell'Iliade
si misura in buoi il valore delle armi e dei tesori; da pecus e da
rupia, che corrispondono a "pecora" e a "capo di bestiame",
deriva pecunia) si è passati a materiali più grezzi,
quali strisce di pelli, conchiglie, minerali di forma regolare, fino
ad articoli preziosi per la loro qualità e soprattutto per
la loro rarità. La funzione monetaria viene così svolta
da cose il più possibile accettate dalla comunità, così
da costituire il denominatore delle altre merci da scambiare.
Ecco che cosa racconta Erodoto di Alicarnasso, vissuto nel 400 a.C.:
"I Fenici, quando si fermavano con le navi davanti alla costa,
scaricavano le loro merci e le allineavano in bell'ordine lungo la
spiaggia; poi risalivano a bordo e facevano grandi fumate per avvertire
della loro presenza gli indigeni dell'interno. Questi scendevano al
mare, osservavano le merci esposte e accanto a ciascuna deponevano
una quantità d'oro da offrire in cambio. Ciò fatto,
si ritiravano nei loro villaggi. I Fenici tornavano a terra ed esaminavano
quel che gli altri avevano offerto. Se giudicavano che l'oro era sufficiente,
lasciavano la merce e se ne andavano. Altrimenti non toccavano nulla,
risalivano sulle navi e attendevano qualche giorno. Allora gli indigeni
aggiungevano a più riprese un po' d'oro, finché i Fenici
fossero soddisfatti. Nessuno dei due contraenti faceva torto all'altro:
gli uni non prendevano l'oro finché non lo giudicavano sufficiente,
e gli altri non toccavano la merce prima che i Fenici avessero ritirato
il metallo prezioso".
Si ha motivo di ritenere che in origine l'oro sia stato usato come
terza merce di scambio allo stato di polvere. Ma quanti secoli fa?
Se si risale all'era della prima dinastia faraonica, siamo nel 3500
a.C.
Non si tratta ancora della moneta vera e propria: siamo nelle ere
millenarie in cui una o più cose, oggetti, merci, vengono utilizzati
per muovere il difficile meccanismo del passaggio dei beni di cui
si ha necessità, utilizzando strumenti ancora non calibrati,
allo stato rozzo.
Si discute se fu Fidone da Argo nel Peloponneso (metà del VII
secolo a.C.) a far coniare la prima moneta argentea nell'isola di
Egina, o se furono i Lidii - come sostiene Erodoto - i primi uomini
ad usare monete d'oro e d'argento.
A dire il vero, non è indispensabile che la moneta sia sempre
d'oro o di altro metallo prezioso. Anzi, l'effettiva circolazione
aurea si è notevolmente ridotta col trascorrere del tempo,
sia perché sostituita da carta o altri titoli rappresentativi
sia perché surrogata da succedanei. Ai giorni nostri, anche
un gettone telefonico è moneta, purché si sia certi
della sua convertibilità, in qualunque momento, in lire.
Una delle monete più celebri della storia, quella di Creso,
risale al 559 a.C.: è d'oro e porta impresso un leone che guarda
un bue. Potremmo dare a questa immagine una motivazione-interpretazione
da riferire alle monete in genere: la forza che il leone rappresenta,
legata alla laboriosità del bue. Infatti, il vigore della moneta
è traente per la vivacità della vita economica, sempre
che ci sia il prodotto di scambio e che questo sia il frutto di un'applicazione
che rispetti la giustizia e l'accrescimento dei beni reali della comunità.
La moneta di per sé rimane inerte, apparentemente sterile,
ma dà ali alla società di una nazione quando le macchine
girano, i campi si indorano di messi, le navi solcano cariche i mari,
e i cittadini vivono in laboriosa concordia.
ALLE RADICI DI UNA NAZIONE
LA PRIMA ITALIA
Come avviene che,
emergendo da una preistoria di milioni di anni, l'Italia si costituisce,
con un processo durato all'incirca dall'VIII al II secolo a.C., in
organica unità nazionale? E quali sono le genti protagoniste
di questo processo, che ha come sbocco l'impero di Roma? Senza dubbio,
la storia dei Romani ha oscurato per lungo tempo quella di coloro
che li precedettero e li fiancheggiarono nella penisola. Oggi, un
succedersi di scoperte muta profondamente la situazione. Veneti e
Liguri, Piceni e Umbri, Latini e Campani, Sanniti e Dauni, Messapi,
Bruzi, Siculi e altre popolazioni ancora rivivono nelle varie regioni,
e dalle loro culture e civiltà possiamo enucleare visioni e
valutazioni d'insieme.
Un primo aspetto caratteristico, è la struttura delle città,
che appaiono spesso cinte da mura molto più vaste dell'abitato.
Ad esempio, l'antica Arpi, in Puglia, presenta una cinta di ben tredici
chilometri, mentre l'attuale Foggia ne ha solo sette! E' evidente
una concezione della città diversa dalla nostra, perché
include nella cinta difensiva non solo le case, ma anche i terreni
a coltura agricola e a pascolo: in caso di pericolo, potevano essere
così difesi. Nell'ambito dell'edilizia religiosa, compaiono
in più regioni i santuari legati al culto delle acque, talvolta
con strutture modeste, ma con una ricca produzione di oggetti votivi,
in particolare bronzetti, che costituiscono una fonte primaria per
la conoscenza dell'arte. Qui la continuità nel tempo ha una
suggestione affascinante: come non collegare, ad esempio, le attuali
Terme di Abano con l'antico santuario delle acque dedicato alla dea
Reitia?
Altro fenomeno
molto diffuso è quello delle stele funerarie. Dalle migliaia
scoperte sul Gargano, con immagini dell'aldilà in forme popolaresche
di rara efficacia, a quelle del Piceno e del Veneto, della Liguria
e della Valle d'Aosta, si delinea un significativo raccordo pur nella
varietà delle singole realizzazioni.
C'è del pari un raccordo nelle statue di terracotta, che raggiungono
a Lavinio il più alto livello d'arte, dimostrando nello stesso
tempo la preminente influenza greca. Esiste, d'altra parte, una produzione
popolaresca che evidenzia, rispetto al mondo greco, un gusto autonomo,
ricco di espressività.
Quanto alla pittura, le tombe affrescate di Paestum si affiancano
a quelle di Tarquinia nel rivelare l'origine di quest'arte in Italia.
Quanto alla produzione "minore", si è detto dei bronzetti
e vanno aggiunte altre categorie diffuse, come gli avori e le ambre,
che vengono dal Mar Baltico e mostrano un'illuminante connessione
con l'Europa settentrionale. Sono pochi esempi; ma bastano a dimostrare
che è davvero una tra le maggiori scoperte del nostro tempo,
quella della prima Italia.
GEOGRAFIA DEI TESORI NASCOSTI
MA IL MUSEO
PIU' RICCO E ANCORA SEPOLTO
La recente scoperta
della tomba di Maya, il tesoriere di Tutankamen, ha riproposto la
domanda: quanto resta ancora da scoprire, non solo in Egitto, ma in
tutto il mondo? Gli archeologi rispondono che sotto la terra c'è
ancora un immenso patrimonio storico, artistico e scientifico. Dice
il professor Sabatino Moscati: "Il 'museo sepolto' è più
grande di tutti i musei messi assieme, e v'è di più:
il 'museo sommerso' nel mare". E Colin Renfrew, dell'università
di Cambridge: "Nel campo dell'archeologia abbiamo appena scalfito
la superficie". Alcuni ritengono che in Italia oltre la metà
della ricchezza archeologica sia ancora sotto terra.
Dicendo "ricchezza archeologica" non intendono i grandi
tesori di un passato remoto, oppure capolavori come i Bronzi di Riace.
Sembrano anzi mostrare fastidio, se non disprezzo, per gli aspetti
spettacolari della loro disciplina che più colpiscono l'immaginazione
della gente. Poco più di sessant'anni fa, l'apertura della
tomba di Tutankamen emozionò i profani, ma gli studiosi furono
certamente più eccitati dagli scavi di Bogazkoy, in Turchia,
dove vennero scoperte diecimila tavolette cuneiformi che costituivano
l'archivio del regno hittita.
Più che la caccia al tesoro, conta l'indagine storica, economica
e sociale delle civiltà scomparse; e gli oggetti scavati, anziché
rappresentare il fine della ricerca archeologica, sono il mezzo per
approfondire la conoscenza dei popoli che quegli oggetti usarono.
Oppure per correggere e precisare questa conoscenza. Spesso il passato
è rimesso in discussione dalla vanga dell'archeologo. Ma, dice
Moscati, "l'archeologia è anche viaggio nel tempo, per
conoscere civiltà di cui a volte non si immagina neppure l'esistenza;
e solo comparandole con la nostra possiamo renderci conto, nel bene
e nel male, di ciò che siamo".
Si rimprovera ad archeologi del passato di avere operato in modo scriteriato,
combinando disastri, cancellando tracce, portando via i fregi del
Partenone, e cose del genere. Ora c'è chi afferma che quando
si giunge ad una scoperta si dovrebbe sospendere il lavoro, lasciandolo
alle generazioni future che procederanno con mezzi scientifici migliori
degli attuali. Questo era giusto dirlo qualche decennio fa, oggi non
più tanto. Oggi l'archeologia si avvale dei calcolatori, del
radar, delle telecamere a raggi infrarossi, dei magnetometri a protoni,
dell'aerofotogrammetria, dei satelliti, di altri strumenti di indagine,
potenti e sofisticati, che spalancano nuovi e affascinanti orizzonti.
Le analisi al radiocarbonio, per esempio, hanno rivelato che la civiltà
dei Maya era più antica di quanto si credeva, risalendo non
ai primi secoli dell'era cristiana, ma al terzo o al quarto millennio
a.C.
Il futuro è ricco di sorprese. Nessuno può immaginare
quali tesori e segreti e testimonianze di civiltà sconosciute
dissotterrerà l'archeologo, prima o poi. Ma ci sono "bottini"
che la presente generazione spera di tirar fuori dal suolo, dove sono
sepolti da molti millenni, o anche solo da qualche secolo. Percorriamo
la geografia dei più noti.
Egitto - La speranza è sempre quella di trovare qualche tomba
non ancora saccheggiata dai ladri. E scoprire anche nuovi insediamenti,
perché se la vita dei faraoni e dei gran sacerdoti è
ben documentata, ancora poco si sa della vita quotidiana degli antichi
egizi.
Apre la lista delle ricerche degli egittologi la tomba di Herior,
capo militare e religioso all'inizio della XXI dinastia (1100 a.C.).
E' nella Valle dei Re ed è ritenuta assai più interessante
di quella di Tutankamen. Gli archeologi cercano anche la tomba di
Imhotep, primo ministro (2628 a.C.), in seguito divinizzato, che costituì
a Saqqara una grandiosa tomba in forma di piramide a gradoni. Vorrebbero
anche trovare le tombe della XXVI dinastia a Sais (663-525 a.C.),
sul delta del Nilo, un luogo archeologico in pericolo per via dello
sviluppo agricolo.
In un santuario del quartiere reale dell'antica Alessandria c'era
il sarcofago a forma di letto di Alessandro Magno. Nello stesso quartiere,
le tombe di Antonio e Cleopatra. Sono ancora lì, ma probabilmente
vi resteranno per sempre, perché sepolti dalla moderna Alessandria.
Grecia - L'isola di Thera è una sorta di "Pompei egea".
Sepolta sotto uno strato di una quarantina di metri per l'eruzione
del vulcano di Santorino, 3500 anni fa. Sono state già fatte
alcune scoperte, compresi freschi di un singolare naturalismo, esposti
al museo di Atene. Molto resta da riportare alla luce: ciò
che gli archeologi sperano soprattutto di trovare è la biblioteca
di tavole d'argilla che dovrebbe permettere di decifrare la scrittura
minoica.
Il disastro naturale di Santorino è stato collegato al mito
di Atlantide, di cui parla Platone. Secondo alcuni, la favolosa Atlantide
sprofondò nell'Egeo; secondo altri, nell'Atlantico, tra l'Africa
e l'America. Un'ipotesi è che Atlantide non sia altro che l'Antartide,
diecimila anni fa non ancora coperta di ghiacci. Ha detto William
I. Thompson, dell'università di New York: "La scoperta
di Atlantite aprirebbe sconfinati orizzonti all'archeologia e l'avvenimento
farebbe impallidire persino le imprese spaziali".
Italia - Sotto la cittadina di Resina c'è gran parte di Ercolano,
sepolta con Pompei dall'eruzione del Vesuvio nel 79. L'obiettivo degli
archeologi è di arrivare alla Villa dei Pisoni, o dei Papiri.
Fu già raggiunta nel '700 e vennero recuperati papiri con testi
greci. Gli scavi furono poi abbandonati per esalazioni mefitiche e
per infiltrazioni d'acqua. Si ritiene che la biblioteca di una villa
patrizia romana non contenesse soltanto testi greci; doveva essere
distinta in due settori: uno in lingua greca, l'altro in lingua latina.
Ora vi si sta lavorando. E il pensiero delle possibili scoperte con
recupero dei papiri dà i brividi.
Il più importante tesoro d'Italia, o almeno quello più
cercato, è la tomba di Alarico, re dei Goti. Morì nel
410 e fu sepolto in Calabria, nel letto deviato del Busento. Secondo
la leggenda, la tomba è ricchissima
di armi e di tesori, compreso il candelabro a sette braccia che Tito
portò via dal Tempio di Gerusalemme e che fu il bottino dei
Goti nel sacco di Roma. Innumerevoli, nei secoli, i tentativi per
localizzare l'ultima dimora terrena di Alarico. Il più serio,
anche questo senza esito, quello - nel 1959 - della Fondazione Lerici,
che si servì per la prima volta dei magnetometri.
Turchia - Il relitto dell'Arca di Noè viene ricercato da almeno
23 secoli con fanatica ostinazione (non è soltanto la Bibbia
a parlare dell'Arca: la storia di Noè ha strettissimi parallelismi
con l'epopea sumero-assiro-babilonese, in cui a Noè corrispondeva
Utnapishtim). Si ricerca sul Monte Ararat. Ma le ricerche sono estese
anche al Sinai e in altre località del Vicino Oriente.
Iraq - Accad, vicino a Babilonia, è il grande mistero dell'antica
Mesopotamia. Fu la capitale di Sargon, che creò il primo impero
semitico nel 2300 a.C. e fu città superiore a Ebla, scoperta
dall'archeologo italiano Paolo Matthiae negli anni '70. Dovrebbe probabilmente
contenere preziosi archivi (a Ebla la missione italiana trovò
17 mila tavolette d'argilla con gli archivi del regno).
India - La scomparsa di una grande civiltà avvenuta verso il
2400 a.C. nella Valle dell'Indo ha qualche cosa di misterioso. Finora
non è stato possibile decifrare la scrittura di quel popolo.
Si cerca un documento bilingue, una locale "stele di Rosetta",
che ne permetta l'interpretazione.
Cina - A Xian, nella Cina centrale, nel 1974 contadini che scavavano
un pozzo irruppero in una vasta cavità sotterranea in cui si
trovava un'armata composta da seimila guerrieri di terracotta a grandezza
naturale. Un'armata che il primo imperatore cinese Qin Shi Huang Di
(259-210 a.C.) fece porre a guardia del suo mausoleo, un fantastico
palazzo sotterraneo che dovrebbe contenere, tra mille altre cose,
una gigantesca mappa bronzea in rilievo del mondo conosciuto, con
i fiumi e gli oceani rappresentati con del mercurio. Gli archeologi
cinesi non sembrano aver fretta, procedono con pazienza e metodo.
L'apertura della tomba di Qin Shi, tra qualche decennio, potrebbe
costituire uno dei maggiori eventi archeologici.
Si stanno cercando anche i resti dell'Uomo di Neanderthal nella Mongolia
superiore. Un enigma da risolvere è quello dell'Uomo di Pechino.
Alla vigilia della guerra, per sicurezza, le sue ossa furono messe
in una cassa e spedite in America. Se ne sono perdute le tracce.
Giappone - Imperatori giapponesi di mille anni fa giacciono nei loro
sepolcri inviolati. Gli archeologi impazzirebbero se avessero l'autorizzazione
d'intervenire. Ma la corrente culturale di questo Paese sostiene che
gli imperatori defunti debbono essere lasciati in pace.
Africa - Si riteneva che l'Homo sapiens sapiens, cioè noi,
avesse avuto origine nel Vicino Oriente. Ora si immagina la sua culla
nell'Africa meridionale. Se ne stanno cercando le prove.
Germania - Un mistero che il poliziotto, più che l'archeologo,
potrebbe risolvere. Dov'è finito il tesoro di re Priamo, che
si trovava nel museo di Berlino fino alla fine della guerra? Tracce
scoperte in Russia, con storie verosimili di saccheggio da parte dell'Armata
Rossa, con molte reticenze, con mobilitazioni segrete per recuperarlo.
Inghilterra - Si cercano le tracce dei primi insediamenti nella tarda
età glaciale. Vicino a Silbury Hill tumuli funebri ancora inviolati
potrebbero celare importanti reperti neolitici.
Americhe - Di sicuro si sa che l'uomo giunse in America 30-40 mila
anni fa. Ma non si ha un'idea precisa del luogo dove il primo americano
pose piede sul continente. Si ritiene che sia arrivata attraverso
lo Stretto di Bering, dalla Siberia, e se ne stanno cercando testimonianze
in Alaska.
Nel Nord America quasi altrettanto affascinante è accertare
dove, nel XVI secolo, si stabilirono i primi bianchi. Si lavora a
Roanoke Island, nella Carolina del Sud, per dissotterrare un insediamento
del 1584.
Nell'America centrale una grande quantità di tombe Maya sono
ancora piene di segreti e di ricchezze.
In Colombia il lago chiamato Guatavita è ritenuto essere il
favoloso Eldorado, dove gli Incas gettavano oro come offerta al loro
dio. Di tanto in tanto qualche sommozzatore porta su qualche pezzo
del prezioso metallo. Ma è poca cosa. Una ricerca sistematica
sarebbe di eccezionale difficoltà.
E dov'è finito il tesoro degli Incas? Si ritiene che quanto
non è stato razziato dai conquistadores sia nascosto in qualche
posto segreto del Perù.
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