§ MEDAGLIONI

UNA GALLERIA DI RICORDI




Gennaro Pistolese



Con un percorso anagrafico come il mio - classe 1909, nato a Melfi con Cristo che, secondo il famoso libro di Carlo Levi, si era "fermato ad Eboli", vissuto in questa parte del Paese che una volta si chiamava profondo Sud fino alla età di tredici anni, iscritto all'Associazione romana della Stampa dal dicembre 1930, perciò (ma definito dagli altri) un decano della categoria dei giornalisti - i ricordi personali sono ovviamente tanti.
Hanno a che fare con il vero e proprio inizio di una radicale fase di civiltà per il mondo tutto intero e con particolari accentuazioni connesse alle peculiarità del Sud. Così note, studiate, tuttora flebili nella loro effettualità positiva, da non suggerire qui altre notazioni più o meno di occasione.
Tanti ricordi, dunque, da poter costruire un vero e proprio patrimonio spirituale; tanti da non apparire a te stesso reali; tanti da potersi tradurre, se le persone che li suggeriscono le hai direttamente conosciute, in abbozzi almeno di "medaglioni" o di "incontri": spesso fugaci, ma per te vivi e quasi "ossessionanti" nella tua memoria. Che poi è la traccia massimamente completa, pur nei suoi vuoti, della tua vita.

Ricordi veri perché pure rivissuti
In questa prima puntata di tentativi, appunto, di "medaglioni" o di "incontri", gli anni di riferimento, espressi solo da persone, per me emblematiche di un tempo e spero anche per molti, sono quelli che vanno dalla nostra entrata nella prima guerra mondiale alla marcia su Roma: 1915-1922; dunque con i miei 6 anni all'inizio ed i miei 13 anni dopo.
Non c'è naturalmente alcuna pretesa di "precocità" in questi miei tentativi di personali testimonianze. Fra l'altro non credo in essa, e poi alla mia età a nulla mi servirebbe se pensassi di averne avuta qualche scintilla. C'è poi da aggiungere che l'alternanza nella vita di ciascuno dei più e dei meno cancella, a parte le eccezioni di cui si prendono cura storia ed enciclopedie, tutto.
Rivendico però una radice naturale di questi miei ricordi.
La prima è il mio affiancamento addirittura di prima infanzia con mio padre, a preferenza e spesso ad esclusione di mie frequentazioni con coetanei.
Mio padre era avvocato a Melfi, un paese capoluogo di circondario, con un Sottoprefetto, come si chiamava allora, con la sede di un Vescovado, con un Tribunale, costituito da magistrati di livello, con un istituto tecnico che già allora aveva due donne come insegnanti, con una popolazione prevalentemente contadina di poco meno di diecimila anime, e con un ceto medio non solo in formazione, ma alla ricerca della determinazione dei suoi possibili livelli di sbocco. Fra questi c'era la cosiddetta borghesia: quella che oggi si chiama ceto medio-alto, i cui redditi e modelli di vita avevano a che fare contemporaneamente con l'esercizio professionale e con limitati ricavi di modeste proprietà agricole. In sostanza, per questi ceti, o banconi per l'esercizio di attività terziarie allora quasi sempre anemiche, o libri. Questi significavano lauree, docenze universitarie talvolta, studi, biblioteche domestiche.
Mio padre apparteneva a quest'ultimo filone, con l'ambizione nel 1914, riuscendovi, di conseguire una libera docenza. Ed allora nelle cattedre c'erano solo Maestri: quelli i cui nomi figurano nelle toponomastiche delle grandi nostre città.
Mio padre in quegli anni mi affidava una sorta di sua segreteria: copiare in carta da bollo le comparse conclusionali, effettuare la spedizione delle raccomandate all'ufficio postale, predisporre schede elettorali da distribuire al clientelismo che allora c'era come rapporto di reciproca fiducia e non già come voto di scambio.
La seconda ragione è che la mia famiglia, anche per la vastità e molteplicità caratteriale e professionale, era compresa allora nella cerchia dei "notabili" (non per cariche o per censo) della Basilicata, e quindi la politica vi entrava per forza, non esclusi i bambini, curiosi sempre di sentire ed abituati a trovarsi sempre di mezzo.
La terza ragione è quella di una certa vocazione o ispirazione - purtroppo talvolta bisogna pure ricorrere a parole solenni - che ti fa fare, possibilmente con coerenza, tante scelte nella vita: fra le quali a me dopo è capitata quella del giornalista: economico, per l'intera vita professionale; ed oggi, pure di memorie. Di "medaglioni", di "incontri", come volete chiamarli, ma sempre con il termine qualificativo di "tentativi". Tentativi, questa volta, per:
- Francesco Saverio Nitti;
- i collaterali di Gabriele D'Annunzio;
- Giustino Fortunato;
- Attilio Di Napoli;
- Vincenzo Janfolla;
- un Sotto-prefetto;
- un Sindaco;
- un Preside;
- un Vescovo;
- gli aspiranti ras del fascismo locale;
- una Roma da me ritrovata con i cavalli di Frisia.
Sono tentativi privi di supporti di diari, appunti, semplici notazioni, ricerche d'occasione, ecc. Derivano da una memoria per quella che è e che nel tempo ha selezionato per conto suo. Come avviene nei sogni, tenendo però ferma la verità.

Francesco Saverio Nitti ed un bambino
Ed eccomi innanzi ad uno dei due capostipiti politici della Basilicata: Francesco Saverio Nitti, nato appunto a Melfi nel 1868. L'ho conosciuto, lo appena decenne, quando era Presidente del Consiglio (1919 e lo è stato con il suo unico governo fino al 1920), ospite con la moglie Antonia nella casa dei miei avi e mia. E come si usava anche allora, i politici accarezzavano i bambini che erano a portata di mano e li facevano sedere sulle loro ginocchia. E' capitato anche a me (naturalmente ignaro) perché il padre di Nitti rientrava nella cerchia di mio nonno, perché un cugino di mio padre era il maggiore referente di Nitti quando questi si presentava candidato democratico (allora taluni dei maggiori politici del Paese preferivano non oggettivare tanto le loro qualificazioni e per lo più non disponevano né di partiti veri e propri né quindi di loro apparati), perché un fratello di mio padre era divenuto il suo punto di riferimento a Melfi, allorché sul piano politico ritornò alle sue origini.
L'ho rivisto quasi due anni dopo, sempre a Melfi, e sempre nella stessa mia casa.
I miei ricordi del suo viso di allora ne ripetono il tratto delle fotografie tuttora reperibili. Nel suo abbigliamento però negli ultimi anni della sua vita c'è stata una nota in più: quella delle pantofole, dovute non alla comodità, ma a sopravvenienze ortopediche, che gli hanno impedito una candidatura politica non più fondata sul clientelismo, bensì sul porta a porta e sulla padronanza di apparati partitici. Perciò dovette perdere la sua identità, accettò collegamenti con l'effigie di Garibaldi, motivò il suo antifascismo in maniera diversa dalla sua cultura e da quella di molti altri della stessa antica sua parte.
Anche di questa sua parte sempre, nella sua vita politica ed anche precedentemente giornalistica, era stato sempre mordace e satirico ironista. Di Sforza diceva che era aduso portare il suo capo come quello del Santissimo. Di un politico economista, Luzzatti, diceva che si trattava di un Piccolo Larousse rilegato in pelle d'asino. Di D'Annunzio ha tracciato una lunghissima biografia, fatta di convivenza a Napoli, di guerra aperta per la questione di Fiume, e di un possibile rincontro in funzione di un corso politico diverso da quello che culminò nella Marcia su Roma. Comunque, di questo Nitti, come l'ho visto e come in parte l'ho rielaborato con le mie conoscenze successive, ricordo la bonomia meridionale, anche se questa a certi livelli - ed il suo era alto - riesce pure ad essere distante; la distinzione del comportamento, affidata al credito attribuito alla propria cultura prima di giornalista dai molti interessi, poi da docente universitario, da uomo di Stato, da grande esperto finanziario; la profondità e l'orgoglio dei propri legami familiari: con la moglie Antonia che l'accompagnava ovunque e alla quale sono legate le pagine dell'ultimo volume da lui scritto; con la madre Filomena, amata più del padre; con gli amici che l'accompagnavano nei suoi viaggi: uno di questi era il più giovane senatore di quei tempi, da lui fatto nominare. Si chiamava Di Lorenzo: 70 anni prima del De Lorenzo di oggi (!), con la tanto vantata e declamata sottolineatura dei meriti e delle capacità di ciascuno dei suoi figli.
Di lui si può dire che è stato certamente un grande statista: di una stoffa non distante da quella di Giolitti, per alcuni versi a lui superiore e per altri (conoscenza economica) inferiore; di grande realismo in tutte le fasi della sua vita, con il libro L'Europa senza pace scritto all'indomani della conclusione del primo conflitto mondiale e con i libri successivi La decadenza dell'Europa, La libertà.
La sua capacità realizzatrice è stata tuttavia inferiore. Si è distinta con la legge di amnistia dei disertori, con la creazione dell'Opera Nazionale dei Combattenti, con la sua politica dell'assicurazione, e così via.
Forse volutamente non ha lasciato tracce nella realtà civica di Melfi e di tutto il Melfese, dove difatti non esiste traccia di suoi interventi nella costruzione di infrastrutture e di altre opere.
Forse a risentire di queste attitudini non sempre globali di Nitti, che si sono certamente accompagnate alle difficoltà proprie di un dopoguerra, sono state anche le finanze dello Stato.
Dice uno che di queste finanze si è occupato, con la massima responsabilità, quale ministro del "governo di coalizione" (31 ottobre 1922, così si chiamava il primo governo Mussolini), che "i governi Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta non erano riusciti, in più di un triennio presidenziale, a proteggere e a difendere l'autorità dello Stato, i diritti e le persone dei cittadini", presupposti del riequilibrio della finanza pubblica e perciò causa di un bilancio dello Stato da Nitti stesso definito "rovinoso" in un discorso fatto il 20 ottobre del '22 e non già nella pratica di ministro e di presidente del Consiglio.
A scrivere questo è Alberto De Stefani, ministro delle Finanze dall'ottobre del '22 fino al 10 luglio 1925, che cifre alla mano documenta l'eredità ricevuta, le omissioni e trascuratezze che secondo lui l'hanno caratterizzata, il raggiungimento in breve tempo da lui conseguito del pareggio del bilancio.
De Stefani, poi divenuto mio maestro alla Sapienza di Roma, quindi sul finire della sua vita mio illustre amico, di ciò mi ha lungamente parlato, sempre cifre alla mano, dandomi il libro da lui scritto in materia. Esso reca una lunga dedica ed esplicazione a me indirizzata nel giugno del 1967, ed è certo fonte se non di storia (questa per me almeno sempre mutevole), di confronti di dati, di variabilità e di condizioni di comportamenti, di attitudini, e così via.
Quindi due uomini a confronto, di diverso periodo storico, di diversa forma culturale, probabilmente non distanti nelle motivazioni più profonde, sicuramente della stessa formazione didattica nell'approfondimento e nell'insegnamento. Uno del Sud e l'altro del Nord (Veneto), che hanno a diverso titolo campeggiato nello stesso venticinquennio, con il solco profondo fra essi creato dal fascismo, che De Stefani certamente ha sempre inteso e praticato, con un ma...
Ho la fortuna di averli conosciuti entrambi: uno da bambino, ma con la capacità successiva di poterlo, sia pure a modo mio, giudicarlo e ricordarlo; l'altro quando ero adulto, frequentandolo e ricavandone giudizi pure di comportamento.
Entrambi lasciano "scripta" ecc. Il leggerli significa arricchimento, che nel caso interferisce con i ricordi della nostra vita.

Collaterali di D'Annunzio anche a Melfi
E qui i miei prescelti interlocutori: i collaterali di Gabriele D'Annunzio. Come quelli della mia generazione, ne conosco più le rievocazioni, anche enciclopediche che non le opere. Non ne conosco affatto la figura. Ma qualche cosa di personale posso aggiungere alle diffuse conoscenze della persona.
Ha fra l'altro lasciato tracce anche a Melfi, dove era nato un suo genero, marito di una sua figlia naturale, che durante la guerra ha soggiornato sempre a Melfi, essendo il coniuge ufficiale di marina. Il padre di quest'ufficiale si chiamava Gabriele come il vate, e questi che, come si sa, aveva la grafia facile, mandò al consuocero che era un tabaccaio una fotografia con dedica: come sempre firmata con penna gotica, imitata, come si sa, anche da Mussolini, in un rapporto reciproco, sempre ambiguo: di imitazione da parte di Mussolini, poi di concorrenza, poi di convivenza con un prefetto che sorvegliava il vate, e con un contabile di Stato che allo stesso vate inviava i soldi per farlo sopravvivere come Principe di Monte Nevoso.
A Nitti, che ha avuto un rapporto amore-odio con D'Annunzio, è occorso nella pagina da lui dedicatagli di ricordare un episodio galante del vate a Napoli nei confronti di una signora convivente o solo amante di un capo camorra del tempo. Questi, quand'ebbe notizia della galanteria di D'Annunzio con il seguito di mancati duelli, ecc., si definì stupito della intrepidezza dello stesso "chillu cosu". Nitti se ne è compiaciuto nello scriverlo, noi mettiamo la frase nel più lungo elenco di denominazioni che dal 1863 al 1938 (per poco più di sei mesi è stato anche Presidente dell'Accademia d'Italia, avendo come successori prima Guglielmo Marconi, poi Luigi Federzoni, ed infine Giovanni Gentile: dei quali qualcosa di personale potrò aggiungere più innanzi) precedono il nome del poeta, prosatore, volontario ed eroe della guerra 15-18, protagonista della beffa di Buccari o del volo su Vienna, della marcia di Ronchi e dell'occupazione di Fiume, dell'indebitamento a fiumi e senza speranze, dei diritti d'autore già ipotecati prima di venire realizzati, dei salotti e della mondanità affidata alle risorse altrui, e così via.
Tutto ciò è storia della mia generazione. Ma a me è consentito di mettere in lizza altri tre personaggi, oltre quelli prima ricordati.
La prima è la moglie di D'Annunzio. Una gallese, con tutta la sua storia. Qualcosa mi è dato di aggiungere. Mia moglie aveva avuta la ventura di conoscerla. Sapeva che a Roma viveva nei dintorni di Piazza di Spagna, che per vivere fabbricava e vendeva da vecchia signora i paralumi, tanto immaginosi ed anticipatori allora, che frequentemente doveva ricevere un inviato speciale del marito da Gardone che sontuosamente e spendendo non trascurabili mezzi per farglielo sapere, le comunicava di non avere denaro. A me ricordava un creditore che veniva a dire la stessa cosa in taxi, a me che invece andavo a piedi.
L'altro personaggio di mia conoscenza è la protagonista fiorentina di un romanzo, Orgia d'amore, che si deve al grande prosatore. L'ho conosciuta che era sposata, bella, signora, anticipatrice di circoli d'eccezione che ho pure frequentato, militante dell'amicizia e della solidarietà. Quanti termini da me dovuti ad una Signora, allora per me vecchia, e che il vato invece aveva solo posto in un dimenticato elenco o nel sommario di un romanzo con diritti d'autore zero, perché l'autore da tempo se li era abbondantemente consumati.
Ed infine c'è il primo figlio di Gabriele D'Annunzio, Mario: identico al padre nel volto, ma con la tendenza di una spalla ad essere inferiore all'altra. Siamo nel 1928 e lui era al mezzanino del Palazzo della Consulta, che allora era sede del Ministero delle Colonie, che io allora bazzicavo perché sia pure come matricola ero divenuto all'Università di Roma iniziatore fra gli universitari di un movimento di ricognizione e propaganda sulla realtà coloniale. D'Annunzio faceva parte di un Ufficio Stampa e Propaganda, che aveva come capo un funzionario d'alto livello trasferito poi per motivi politici in Cirenaica. Questi si chiamava Nobili Massuero, ed un mio compagno della propaganda che facevamo allora ne ha poi sposato la figlia. A D'Annunzio piaceva questo Nobili Massuero, ma non piaceva l'ex sottosegretario alle Colonie, Roberto Cantalupo, che avendo creato una rivista che si chiamava L'oltremare vi aveva inserito una rassegna stampa con firma "I Toloba", che non aveva nulla a che fare con l'autore della rassegna che non ne sapeva nulla e che era appunto Mario D'Annunzio. Questi poi divenne, senza saperne nulla e non dovendo fare nulla, Consigliere della Corporazione del Credito e quindi membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, cioè la Camera dei Deputati di oggi. Con questi "I Toloba" di mezzo, il "Chi era costui" è capitato anche al figlio di D'Annunzio.
(Fra parentesi dovrò dire che ho conosciuto anche un altro D'Annunzio: questa volta orgogliosamente figlio naturale. Con un fisico notevolmente appesantito, con un abbigliamento non certo ricercato, con scarpe esageratamente comode e perciò quanto mai deformate e forzatamente superstiti, con una medaglia sul petto, non ricordo se di partecipazione o di commemorazione di qualche evento, con un'attività pubblicistica o solo poetica, con una presenza intorno a Piazza Colonna che era assidua ma generalmente inosservata. Quest'emblema dava l'impressione o esprimeva la sua speranza di trovarsi ottimamente, e mi auguro che così sia per i suoi continuatori, dovunque essi siano).
Essi certamente ricordano D'Annunzio, per noi con tutti i controversi giudizi che lo riguardano. Ma in questo secolo c'è certamente posto per lui, oltre il Vittoriale, oltre le fondazioni, oltre le edizioni. Forse pure in quelle strade che sono prodighe per alcune denominazioni, ed avare per altre.
Ho fin qui ricordato due grandi figure, entrambe certamente consacrate alla storia; Nitti nondimeno poco ricordato dalle generazioni successive ed anche da taluni criticato; D'Annunzio, esaltato in tante occasioni e fasi della vita italiana, deplorato e contestato in altre.

Giustino Fortunato, il grande meridionalista di sempre
Nei miei ricordi d'infanzia c'è una figura, quella di Giustino Fortunato, la cui cultura, saggezza, intuizione operativa mai è stata contestata, pur essendo lui un politico, con tante sue ispirazioni e tanti suoi ammonimenti rimasti però inattuati e inascoltati.
La sua fotografia con dedica a mio padre ha attratto la mia curiosità di bambino nello studio legale paterno. E forse cominciai a capire, anche perché la fotografia non si accompagnava ad altre, se non a quella di mio nonno, certamente un patriarca del Sud, con dieci figli, una laurea presa a 19 anni sotto i Borboni, ed uno studio legale che da poco aveva tramandato al figlio; cominciai a capire, dicevo, che il suo insegnamento investiva mio padre, ma anche me.
E difatti Giustino Fortunato, ovviamente pessimista come tanti lucani illustri (lo stesso Nitti) o sconosciuti o anonimi (ed lo sono uno di questi), in uno dei frequenti incontri che mio padre aveva con lui nella casa di Piazza dei Mille a Napoli, gli domandò se avesse figli maschi, prevedendo per loro anni difficili. Eravamo solo agli inizi del primo dopoguerra!
Giustino Fortunato è nato a Rionero in Vulture nel 1848; deputato nel 1880; senatore nel 1908. Non ha mai dovuto cercare o sollecitare consensi. Tutti glieli davano per proprio conto. Anche il cosiddetto minus habens di allora, che aveva mitizzato popolarescamente l'intelligenza di Fortunato attraverso la "finezza dei suoi occhi". Allora non c'erano gli "spots", ma si improvvisavano versetti popolari, pure estremamente zoppicanti, come quello appunto coniato per Fortunato: "Di chi sono quegli occhi fini' Di Don Giustini".
Sì, don Giustini, per comodità di rima. Ma di Giustino Fortunato si deve anche dire che ha voluto aggiungere qualcosa alla discendenza, quale nipote, derivantegli da un suo avo, pur egli Giustino, nato sempre a Rionero, però nel 1777 e Presidente del Consiglio sotto i Borboni dal 1849 al 1852. Il nostro Fortunato vi ha aggiunto il suo pensiero, la sua sollecitazione, il suo monito, concernente la questione meridionale. C'è il Mezzogiorno e lo Stato italiano, opera che domina questo secolo, perché il consuntivo che doveva sostituirla ancora non c'è e non si sa quando potrà esserci, pur essendo stato da tempo intuito da quelli che chiameremo veggenti l'insostituibile itinerario.
Grandi, dunque, alle nostre spalle di lucani. Qualcuno anche nella mia famiglia: un archiatra dei Borboni, Leopoldo Chiari di Ripacandida, scopritore anche di un'arteria che porta il suo nome, zio di mia nonna.
Che gioia quando curiosando in qualche enciclopedia scopriamo qualcosa o qualcuno che ci appartiene. E per nostra fortuna pensiamo di non dovercene neppure accorgere.

Perenni nel ricordo perché esemplari
Gli anni purtroppo scorrono, lasciando spazio a personaggi che spesso debbono essere considerati minori rispetto a quelli fin qui ricordati. E' il cruccio di chi l'anagrafe induce a dover passare la mano.
Comunque, a quei tempi, c'era un altro lucano, deputato liberale, cui bastava un doc autonomamente dichiarato e non con bollo partitico per trovare consensi, grande avvocato civilista. Di Potenza, amico di mio padre; io da studente ginnasiale li precedevo entrambi, saltellando sul marciapiedi nelle loro frequenti passeggiate su qualche sconnesso viale di quella città. Janfolla, figlio di un sarto, era fra i preferiti della Lucania, dopo Nitti. Era già il grande Cassazionista, che non aveva bisogno di lunghi studi per intervenire nelle allora importanti procedure di ricorso innanzi alla Suprema Corte, come allora si chiamava. Ascoltava solo il suo assistente di turno, aveva piegata in tasca qualche pagina che forse aveva più intuita che attentamente letta, e faceva la sua parte, quasi sempre vittoriosa. Con estrema semplicità: la stessa che gli consigliò di lasciare Roma per evitare i pericoli dei bombardamenti per ritornare a Potenza, dove invece trovò la morte proprio a causa dei bombardamenti che la sua età portava ad evitare. Certi scrupoli di prudenza vengono compensati così.
Un'altra persona, questa di Melfi, da me conosciuta perché avvocato collega ed amico di mio padre, deputato socialista (come tale mi aveva fatto rilasciare la tessera di familiare di parlamentare per frequentare Montecitorio: siamo nel 1923 ed io avevo poco più di 13 anni ed ero divenuto assiduo di quelle tribune suscitando prima la curiosità e poi il sospetto dei commessi), era Attilio Di Napoli. Socialista, non so se a quei tempi fosse turatiano, certamente riformista non era, perché nella provincia ce n'era un altro che gli contendeva con questa qualifica il terreno (avv. Pignataro), aveva come unico supporto organizzativo quello della Camera del Lavoro; e aveva dalla sua parte il segretario comunale, nel quale forse aveva individuato il suo centro di potere. La forza gli veniva dal bracciantato agricolo, dalla serietà con la quale esercitava la sua professione, dalla contiguità, di reciproco rispetto, che egli aveva con il ceto di cui faceva parte e che riteneva di manifestare in maniera diversa. Tutto ciò era rilevato positivamente senza però compiacimenti o sottolineature nelle società di allora.
Però a Di Napoli, socialista, è capitato anche di divenire ministro dell'Interno del primo governo Badoglio, dopo l'8 settembre (il governo di Brindisi), e ciò perché era il socialista più eminente a quei tempi da quelle parti. Ma nel governo di Salerno il suo nome non c'era già più ed un altro socialista al ministero dell'Interno doveva essere Robita, con il governo De Gasperi della proclamazione della Repubblica.

C'era anche il Sotto-prefetto
Come in ogni galleria che ognuno di noi costruisce nella propria memoria - talune di queste stanze diventano inaccessibili, altre sono da noi dichiarate secondarie - anche chi scrive non ha trascurato o trascura gli ambienti minori.
In essi trova ancora posto la figura del Sottoprefetto. Melfi aveva visto riconosciuto il diritto a quei tempi di essere sede di una sottoprefettura, irrimediabilmente soppressa dopo. Ne ho conosciuti da bambino due: uno si chiamava Viola, il cui figlio era mio compagno di scuola, ma a me occorse di essere eletto sindaco, in concorrenza con lui, della quarta elementare, in una sorta di elezioni che il nostro maestro aveva inventato per farci capire in che cosa queste consistettero; l'altro, Talarico, con il figlio Elio doverosamente vestito allora alla marinara, cui poco dopo è capitato di essere nominato Prefetto di Perugia, tale essendo ancora quando l'albergo Brufani appunto di Perugia diveniva sede straordinaria del Quadrunvirato della Marcia su Roma.
Quale destino quasi crudele per l'ex Sottoprefetto di Melfi, allora sorridente, ma non so se anche in quei momenti; quale salto di qualità per il mio ex compagno Elio, dalla Melfi degli albori degli anni 20 alla Perugia di allora e di sempre; quanti confronti fra un nuovo prefetto ed un Preside o Provveditore agli Studi, non lo so, padre di Montanelli, e fra Elio ed Indro, che poi sembra abbia avuto a quei tempi un altro amico indimenticabile: Cao, a sua volta mio compagno alla Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma.
Quanti incroci possibili allora, in una dimensione geografica che era la stessa di oggi, ma con una società che riusciva a stabilire tante vicinanze ed affinità, senza bisogno della televisione e della stessa autostrada del Sole: le sole realtà per me che cercano di fare gli italiani. A complemento dei sopravvenuti campionati mondiali di calcio, che nella competizione degli altri, che cantano i loro inni nazionali, e noi no, fanno certamente di più. Naturalmente c'è anche il Vescovo da ricordare. Usciva dal Palazzo di fronte al quale mio nonno aveva fatto presuntuosamente costruire il proprio: questo con la colorazione e con l'approssimazione miniaturale di stile e dimensioni al Palazzo Reale di Napoli: c'era un vecchissimo avvocato, con tuba e redingote grigia che, scappellandosi per la sua galoppante arteriosclerosi avanti alla mia casa, esclamava: "Maestà, siam fottuti" e si rivolgeva, poco dopo gli albori di questo secolo, nientemeno che ai Borboni, dei quali tuttavia penso che, evitando ogni impossibile raffronto, bisognerebbe saperne di più.
A questo Vescovo, che si chiamava Costa, naturalmente fra i ragazzini dovevo baciare la mano, allorché usciva dall'Arcivescovado, che in certe straordinarie occasioni nei suoi saloni diveniva anche sede, remunerata, di banchetti ufficiali, fra i quali quelli che la borghesia locale offriva al capostipite politico che allora era Nitti.
Ma del Vescovo di allora, e che naturalmente mi piaceva, ricordo che era un uomo di cultura -prestava a mio padre la "Civiltà Cattolica", che allora era certamente insolita ed irripetibile da quelle parti - e che aveva come accompagnatore un parroco, di cui erano vistose le lunghe orecchie, che allora si diceva preannunciassero ai loro portatori lunga vita. Ed io già allora ero uno di essi. Se qualcuno si prenderà cura di verificare il mio stato anagrafico avrà la possibilità di trarne direttamente le conclusioni.

Erano o non erano aspiranti ras?
Ma dalle mie parti allora c'erano - e perché c'erano anche nei miei ricordi - i primi germi del razzismo fascista, altrove più maturo. C'era infatti qualcuno che, dopo gli studi fatti altrove e dopo la guerra combattuta, appartenente comunque alla borghesia medio-alta del paese, senza interessi di grosso agrario o di capitalista, nemmeno aspirante, riteneva che anche in un paese dai connotati instabili ed indefiniti dovesse giungere la voce delle nuove forze. Di forze cioè ritenute tali, perché sopravvenute e pregiudizialmente diverse da quelle esistenti. Ancora una volta, ed anche questa volta, i giovani, pure i giovanissimi (quelli delle cosiddette Avanguardie giovanili, aperte ai ragazzi di 15 anni), erano chiamati nelle prime linee.
A Melfi c'era il figlio di un notaio, però con barba copiata da una simbologia chiaramente imitativa ed importata, ed il figlio di un altro avvocato, pur egli con barba di tipo importato. I nostri aspiranti ras avevano queste caratteristiche, ma anche qualche campione non distante. Questi era il Caradonna di Foggia: quello che ha fatto la marcia su Roma con la cavalleria fascista, quello che era stato premiato con la nomina a Sottosegretario non ricordo se alla Giustizia o alle Poste (ma io da ragazzino l'ho visto quando questo ministero o sotto segretariato era a Piazza Firenze), quello che da avvocato si rivolgeva a mio padre, anch'egli avvocato, come ho ripetutamente detto, perché riteneva ed anche lo con lui che ne sapesse di più.
Ma mio padre di Caradonna mi ha detto qualche altra cosa. Era stato a colazione al ristorante Palmieri, celebre anche allora, di Piazza Firenze, e tutto procedeva più o meno normalmente, sennonché ad un certo momento Caradonna interruppe la regolarità del pasto con l'affermazione "siamo osservati", che non ritenne di concludere con le parole, pure se così allarmanti, ma con l'esibizione di due pistole sul tavolo. Della Marcia su Roma allora nessuno parlava, ma certi pasti - fra cui quello di mio padre, che credeva al codici e non alle pistole - potevano anche verificarsi ed essere ricordati così.

Gli ultimi cavalli di Frisia a Roma
Ma in questa Roma dei ricordi, c'è anche la Roma dei cavalli di Frisia di fine ottobre '22. E' la Roma che per me è cominciata lì, dove ho vissuto tutta la vita.
La Marcia su Roma mi era stata anticipata a Foggia, essendo io in transito verso la Capitale, dove il 1° novembre dovevo iniziare il mio corso di alunno della quinta ginnasiale, al Collegio Romano: Ginnasio Liceo Ennio Quirino Visconti. E mio padre non ammetteva ritardi nell'adempimento delle frequenze scolastiche.
Di fronte c'era la Questura di Roma ed a pochi passi la statua di Stefano del Cacco.
Ma Roma per me non era solo quella della scuola. Dove fra i compagni di classe avrei trovato Giorgio Amendola, di cui non mi importava niente, ma di cui ricordo che simpatizzava per il partito del soldino (chi oggi ne sa qualcosa?), che partecipava alle manifestazioni della Camera del Lavoro, che era attratto dalle grazie fisiche della nostra professoressa di storia naturale. Dove c'era quello che sarebbe divenuto un bizzarro giornalista, e che già allora tentava di tradurre in musica jazz il Te Deum. Dove il primo della classe, pur grassone, ironizzava su tutti gli altri e sdegnoso rifiutava a tutti la copia. Poco più di mezzo secolo dopo mi è occorso di vederlo, senza esserne riconosciuto, a Piazza San Carlo, sempre a Roma, come tormentato barbone. Con i sandali, d'inverno, che disertavano da tutte le parti, con un grasso straripante nel corpo malconcio. Non mi sono ricordato delle copie che mi erano mancate, vedendo solo i sandali sbrindellati che avevano distrutto la sua vita e certamente ridimensionavano, di molto anzi, la mia.
Prima di concludere, però, devo ritornare al miei cavalli di Frisia.
Di essi si è parlato tanto. Se erano stati posti o no. Se c'era stata o no l'intimazione dello stato d'assedio con relativo manifesto. I dati di fatto sono stati e sono in gran parte contrastanti.
Io però questi cavalli di Frisia li ho visti abbandonati per terra all'imbocco del Ponte Cavour, da via Ripetta, con la sovrapposizione di un manifesto di proclamazione dello stato d'assedio firmato dal generale comandante il Corpo d'Armata (Scavonetti?).
La storia del dopo è nota. Non so quanto ci siano entrati il Duca D'Aosta, la Regina Margherita (che prima aveva incontrato qualche quadrunviro della Marcia su Roma, certamente De Vecchi, forse pure Balbo), altri personaggi di occasione, taluni nettamente intransigenti, tali altri ambigui.

Con gli occhi aperti
Ma Roma, l'Eterna Roma, indifferente o quasi, ha visto sfilare le squadre fasciste con l'estrema difformità dell'abbigliamento e con una dotazione da combattimento più simbolica che reale; le camicie azzurre dei sempre pronti per il Re e per la Patria visibilmente preoccupate della parata e della selettività anche di classe che volevano manifestare; cittadini curiosi e naturalmente bambini.
A San Lorenzo e al Trionfale taluni da una parte e dall'altra avevano imbracciato i fucili.
Ma la città ne aveva saputo poco. Quello che alla città era stato detto era che la partenza dalla stazione Termini delle squadre fasciste era stata regolare. I treni in orario: allora era una parola d'ordine, ora è lo spot pubblicitario di un'azienda.
Roma aveva allora - e all'anagrafe c'era pure il mio io - poco meno di 800 mila abitanti. Piazza Mazzini, Viale Angelico, Parioli, che però finivano a Piazza Ungheria, Città Giardino, ecc. c'erano da poco. C'era Piazza Nicosia, aggirata da un anche allora arcaico tram numero 6, che poi si infilava attorno al Vittoriano e da viale delle Milizie da cui era partito raggiungeva il terminale di via Cavour. Sostituiva tanti tratti della metropolitana di oggi, con sventramenti intervenuti solo un paio di quinquenni dopo.
Ma le cose sarebbero tante da ricordare, senza bisogno di attori emblematici che ora tendono a far riecheggiare la Roma d'altri tempi, con schemi e slogans di un'ortodossia pubblicitaria che con la ripetitività pure artificiosa lasciano indifferenti quanti non ne siano gli interessati promotori.
E Roma anche allora aveva naturalmente un sindaco. Non ne preciso il nome. Ma i romani - e non c'erano le tangenti - lo chiamavano "Pippo paga". Ricordi, più ancora oggi volontà, di occhi aperti: nelle vicende di ognuno e di tutti.


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