§ USI & ABUSI

MALEDETTO GARIBALDI




A. Provenzano, F. Albini, G. Bonsegna
Coll. F. Rovai, G. Ricciotti, M. Borsi



Squillavano senza sosta i telefoni nelle case degli storici. Ad inseguirli con pazienza certosina erano i cronisti alla ricerca di dichiarazioni pregnanti sul due "processi alla storia" aperti in simultanea e celebrati soprattutto a mezzo carta stampata. Erano gli studiosi di contemporaneistica e quelli dell'età risorgimentale ad essere i più ricercati. Li si sollecitava a rilasciare dichiarazioni, rispettivamente sull'operato degli ex partigiani chiamati in causa da Otello Montanari per gli omicidi in Emilia tra il 1945 e il 1947 e sulle bordate contro i padri dell'Unità d'Italia sparate al meeting di Comunione e Liberazione da Vittorio Messori. Processi alla storia, dunque, che vedevano alla sbarra due diverse epoche cui da tempo la pubblicistica storica prescriveva di riferirsi usando le maiuscole: Risorgimento e Resistenza.
Mai come in queste vicende appare chiaro (e lo ricordava Massimo Salvadori) che la storia è sempre storia contemporanea. Lo è perché legata in maniera inscindibile al presente, come un lungo torrente sotterraneo che continua a scorrere e a far confluire le sue acque nel fiume dell'attualità, per usare una bella immagine che fu assai cara a Fernand Braudel. E ancora, la storia è sempre contemporanea se la si intende alla maniera di un altro grande studioso scomparso, Witold Kula, che la definiva "una lotta per liberare l'uomo dai miti che egli stesso ha creato", una vicenda da riscrivere in continuazione. E possibilmente senza maiuscole. Perché le maiuscole si portano sempre dietro l'insidia della retorica.
Ma fino a che punto è giusto spingersi nel riscrivere la storia, considerando alla stregua di miti da abbattere intere epoche? E, soprattutto, come evitare la pericolosa genericità delle accuse indiscriminate? Come ragionare mantenendosi ancorati a un piano di serietà critica che distingua la provocazione storiografica gratuita o strumentale dalla riflessione autorevole?
Non è possibile pensare che la soluzione sia quella di far parlare soltanto gli storici, perché - è ancora un rilievo di Salvadori - la coscienza storica è un elemento della coscienza politica. E allora anch'essa deve essere sottoposta al vaglio della discussione collettiva, senza di che non potrebbe essere patrimonio comune. Però proprio nell'attualità si annidano le insidie di possibili usi strumentali o poco corretti della storia.
Prendiamo il caso dei clamori sollevati dalle dichiarazioni di Messori: "Sono accademie di analfabeti che non meriterebbero nemmeno i modesti onori della cronaca, se si limitassero appunto all'accademia", è stata la notazione fatta in merito da Indro Montanelli, ed è difficile non dargli ragione. Perché è fin troppo evidente l'intento strumentale del "processo al Risorgimento", con la sequela di accuse mosse a Garibaldi, a Mazzini, a Cavour e agli altri. Vi era, in quel processo, una evidentissima notazione di attacco politico. Quale fosse l'obiettivo, lo ha chiarito lo stesso Messori quando, con un linguaggio zeppo di sgradevoli metafore sessuomani, ha auspicato "un Cristianesimo tosto, con gli ormoni e gli attributi, opposto a quello molle ed enucoide di certi cattolici sdolcinati buoni per vecchie e donnicciole". Quanto agli argoementi tirati in ballo da costui contro il Risorgimento, già storici autorevoli ne hanno messo in evidenza l'assoluta mancanza di novità, oltre che di fondatezza. Nulla di nuovo sotto il sole, insomma.
Soltanto una valanga di scempiaggini costruita con una cattiva conoscenza degli avvenimenti storici, con date sbagliate o confuse e con un assemblaggio di argomenti denigratori analoghi a quelli usati quando oggi si parla a sproposito di Gioberti, di Cattaneo o dello stesso Mazzini, con evidenti fini disgregatori dell'unità nazionale.
Ecco, dunque, un caso quanto mai negativo di "revisione", anzi di provocazione storiografica: un esempio emblematico di come non ci si debba riferire alla storia per affrontare il delicato rapporto passato-presente.
Di assai diversa valenza è stato il "processo alla storia" aperto dalle dichiarazioni di Montanari. Intanto, perché ha fatto emergere fatti nuovi. Fatti che si sospettava fossero veri, in certi casi già scritti nei libri si storia, ma che adesso venivano fuori in modo circostanziato, con nomi e date: alcuni partigiani, dopo il 25 aprile, continuarono per proprio conto una Resistenza che si tradusse in uccisioni, in vendette, in esecuzioni sommarie. E c'è stato dell'altro: c'è stata l'ammissione esplicita, e fino allora inedita, di più di un esponente comunista, dell'importanza di compiere realmente un'operazione-glasnost sui delitti politici commessi nel nome della Resistenza e a liberazione già avvenuta.
Anche nel dibattito su questo caso c'è stata una forte politicizzazione del fatto storico, che ha proceduto almeno in due direzioni: una è stata quella che ha teso a leggere l'ammissione di responsabilità di alcuni comunisti dopo il 1943 in chiave di volontà di rottura col passato stalinista; l'altra, opposta, ha abbondato di espressioni come "scheletri nell'armadio" e ha sollecitato la condanna senza appello per la forza politica che solo con molto ritardo ha ammesso i delitti compiuti in nome del popolo. L'una e l'altra argomentazione hanno rischiato però di ignorare uno dei maggiori problemi sui quali la riflessione storica da sempre s'interroga, senza trovare una risposta univoca: vale a dire la liceità della violenza, o meglio ancora la differenza tra violenza privata e quella storicamente necessaria. Il fuoco rovente della politica ha reso difficile il giudizio equilibrato, ha fatto dimenticare che forse il vero interrogativo da porre riguardava il clima di quegli anni, il chiedersi se giustificasse oppure no violenze come quelle che solo di recente sono venute alla luce in modo chiaro.
Così il discorso storico da una parte ha condotto a scoperte dell'acqua calda: improvvisamente ci si è accorti che i partigiani sono stati violenti, che alcuni di essi non condivisero la svolta togliattiana e ammazzarono delle persone. D'altra parte, ci si è preoccupati di cogliere al volo l'occasione per ricordare che Togliatti combatté gli eccessi dei partigiani. Così la retorica antiresistenziale si è contrapposta alla mitizzazione della Resistenza. Mentre invece un giusto argine entro cui svolgere il dibattito avrebbe dovuto pronunciarsi sul carattere di guerra civile della Resistenza.
Frequenti in Paesi come il nostro, ad alta temperatura polemica, gli abusi e i cattivi usi della storia non si compiono però soltanto in Italia. I più oltranzisti tra gli storici revisionisti tedeschi, quelli per i quali l'olocausto sarebbe stato un falso, una invenzione degli ebrei, ne sono un esempio tra i più preoccupanti, soprattutto per il fatto che un settore del ceto politico tedesco vi fa costantemente riferimento. Ma è forse la Francia il Paese in cui più di frequente il rapporto passato-presente si propone con accentuate divisioni di campo, anche per via di un apparato di divulgazione culturale (riviste, trasmissioni televisive, ecc.) che ama molto gli scoop, veri o presunti.
Pertanto, analogamente al "processo al Risorgimento", a scadenze più o meno regolari si chiamano in causa le responsabilità di Napoleone Bonaparte, al quale non vengono risparmiati attacchi di vario tipo: l'ultima volta è avvenuto tre anni fa, con un intero dossier de L'evenement du jeudi in cui gli si imputavano né più né meno tutti i mali della Francia contemporanea. Ma è stato il 1989, l'anno del bicentenario, il periodo delle più forsennate provocazioni storiografiche: agli onori della cronaca sono balzate soprattutto le analisi più estremiste, come le due contrapposte di Max Gallo che santificava Robespierre e di Pierre Chanu che gli dava del pazzo sanguinario paragonandolo a Pol Pot.
Ora che gli archivi dei Paesi del CentroEst europeo si sono in buona parte riaperti, nuove possibilità di revisione di una storia recentissima stanno per diventare concrete, e molti "buchi neri" potranno essere colmati. C'è tutta una nuova storia che sta per essere riscritta su nuove fonti, e sarebbe auspicabile che queste fossero lette con lucidità, con chiarezza, senza pregiudizi o intenti strumentali. Poiché, come diceva Kula, "Il lavoro dello storico è vicino a quello di chi fabbrica un coltello, perché con un coltello si può tagliare il pane ma anche uccidere il proprio simile, e non tutti gli storici lo ricordano". Non sono soltanto alcuni tra gli storici a non ricordarselo. Perciò non sarebbe male se si riprendesse a discutere sul modo migliore di riferirsi ai fatti storici senza compiere abusi. Per restituirli alla coscienza collettiva nella più corretta dimensione.


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IMBALSAMARE IL RISORGIMENTO?

Non meritava certo di riemergere con toni concitati e con reazioni impulsive il discorso cruciale sull'identità nazionale e sul Risorgimento. Meglio ripensare con sereno e implacabile esercizio alle ragioni e alle pulsioni che hanno condotto gli italiani a dimenticare con fastidio la propria memoria storica e a rimuovere il senso di identità nazionale.
Ai cattolici antirisorgimentali si potrebbe ricordare che la definizione stessa di Risorgimento, da loro riscritta con la minuscola, ha una matrice cattolica e fu riferita proprio da un cattolico guelfo come Gioberti. Non c'è bisogno di scomodare la linea del cattolicesimo liberale per ripensare al Risorgimento: anche un cattolico non progressista come Augusto Del Noce, il filosofo più vicino a CI, ha più volte sottolineato la necessità di recuperare il Risorgimento come categoria "del tutto diversa sia da rivoluzione sia da conservazione e reazione" nel solco di una valorizzazione delle tradizioni nazionali. E si potrebbe infine ricordare che se i percorsi dell'unità nazionale, le figure e le oleografie, possono risultare sgradevoli, ciò non può indurre a derivare l'idea di arbitrarietà e di pura astrazione del processo unitario.
L'Italia non fu un'invenzione di massonerie e carbonerie, di giacobini e di sabaudi; ma esisteva in pectore da secoli nella storia, nella lingua, nella cultura e persino nella geografia di un territorio.
Dall'altra parte, nell'eterogeneo campo dei risorgimentalisti offesi, bisognerebbe pure ricordare che i "santini" hanno più nociuto che giovato al Risorgimento; e hanno accentuato quel sentimento di estraneità al processo unitario che è stato avvertito largamente nella società italiana. Va pure ricordato che nel processo unitario restano ampiamente escluse tre componenti essenziali della società italiana: il mondo cattolico, il mondo contadino e il Mezzogiorno, ai quali in effetti il Risorgimento poté apparire come una conquista piemontese, garantita e insufflata da potenze straniere.
Quel che andava contestato non era, come diffusamente si è fatto, la demitizzazione del Risorgimento, ma l'esito anti-nazionale a cui possono approdare un giorno o l'altro quelle polemiche. Un esito puramente distruttivo, perché si sa quel che demolisce una nazione con la sua memoria, ma non si sa quel che edifica. E il tutto finisce per risolversi in un'ulteriore spinta verso la colonizzazione culturale dell'Italia, la sua dispersione in un cinismo di gruppi barbaro e benestante, che è poi il compimento di quel processo di secolarizzazione puntualmente denunciato dagli stessi cattolici.
Il discorso da fare, allora, è piuttosto un altro: perché queste polemiche antirisorgimentali e antiunitarie trovano facile seguito e accoglienza. Non basta denunciare l'identità ancora giovane della nazione italiana; né basta prendersela con i cattolici e con quanti hanno sempre covato una riserva di estraneità verso la nazione italiana. Uguale riserva potrebbe facilmente ritrovarsi in molti risorgimentalisti laici che nell'identità nazionale hanno sempre ravvisato il male per antonomasia e hanno sempre sognato un "Italia meno italiana", più anglosassone e poi atlantica. Né ha molto senso scaricare le responsabilità sul parafulmine nazionale, il fascismo, che con le sue guerre e con la sua militarizzazione avrebbe "avvelenato" il senso nazionale.
Non si capisce allora perché altre nazioni più duramente provate dalla guerra e dal militarismo, come la Germania e il Giappone, riemergono oggi con una loro voglia di identità nazionale.
In realtà, il Risorgimento è stato imbalsamato e destoricizzato da molti dei suoi apologeti passati e presenti. Lo si è concepito come una benefica parentesi, quasi un'intrusione straniera, rispetto ad un'Italia pigra, conformista e controriformista. Si è fin troppo insistito sul ruolo delle minoranze illuminate, opposte a un popolo oscurantista. Si è poi spezzato il filo della continuità storica, stabilendo cesure e vuoti incolmabili nella storia nazionale. Ma la memoria storica di una nazione non può sussistere ove si pongano fratture e amnesie. E per troppi decenni il timore di ricadere in un rinnovato nazionalismo ha condotto gli stessi "padrini" della patria a rimuovere il riferimento nazionale, chiudendo il Risorgimento in una teca.
Il problema è che la storia non ammette salti né manicheismi: anche coloro che combatterono dall'altra parte del Risorgimento, combattevano nel nome stesso di una fedeltà ad una patria, ad un re, ad una fede. Un maturo senso nazionale dovrebbe rendere giustizia ad entrambi. Gli stessi risorgimentalisti insorti dopo le polemiche antirisorgimentali dovrebbero poi ricordare quante volte molti di loro hanno accettato l'idea di una nazione e sovranità limitata, di un Paese culturalmente e politicamente subalterno. Come era possibile conservare un'idea positiva del Risorgimento dopo decenni di demolizione dell'identità nazionale?
Il decorso, pertanto, si sposta sull'attualità o inattualità dell'idea di nazione. Per lunghi anni si è pensato, risorgimentalisti compresi, che quell'idea fosse in declino fatale. Nei nostri anni invece sembra riemergere, e non soltanto al Sud del pianeta, né soltanto nel mondo asiatico liberato dalla cappa comunista; ma anche in Occidente, mostrandosi talvolta intrecciato all'etnicismo e persino al localismo delle "piccole patrie".
Al di là dell'antagonismo con cui viene solitamente presentato dai rispettivi sostenitori, il senso di appartenenza nazionale e quello di appartenenza locale traggono linfa e legittimazione da una stessa fonte: una visione comunitaria della vita ed una concezione per la quale, come disse Husserl e ripeté Heidegger, "ogni lo ha una patria originaria". Ovvero, il mondo si dilata, ma c'è sempre un luogo eletto che noi sentiamo come Casa. Quella derivazione ci pare inestinguibile. Né ci sembra che possa essere liquidato il senso del l'appartenenza nazionale, riversandolo su quello "regionale": la storia passata e presente mostra come il senso della patria-nazione sia un importante, decisivo luogo di mediazione fra tradizioni e modernizzazione, e microidentità e macroappartenenza.
Certo, il nazionalismo ci pare destinato al declino o alla sopravvivenza nel Terzo-Quarto Mondo; ma il senso di identità nazionale come patria è tutt'altro che spento.
Chi obietta, da posizioni tradizionalistiche, che il nazionalismo corrisponde all'età del giacobinismo e dell'individualismo, non scorge le diverse connotazioni del patriottismo, né vede l'emergere di un senso nazional-religioso. Anche i cattolici, per convincersene, non hanno che da guardare al Papa polacco.


USI & ABUSI

FORSE VOGLIONO UN ARCIPELAGO

Lo scrittore che aveva paragonato Garibaldi, Mazzini e Cavour ai criminali nazisti venne denunciato da un avvocato di Portogruaro per vilipendio al Risorgimento. Gesto sorprendente, che colpiva per una strana sopravvalutazione del codice come scudo dell'integrità nazionale. Aveva qualcosa di disperato e di paradossale, qualcosa anche di nobilmente comico. Se un vigile urbano, indignato per l'inerzia della polizia durante una rapina in banca, multa l'auto del "palo" per sosta vietata, la notizia fa il giro del mondo. Il caso dell'avvocato di Portogruaro, che da solo ha cercato di fermare le Leghe con una contravvenzione a Vittorio Messori, ha tradito lo stesso ottimismo stralunato, ma ha rischiato di non fare neppure il giro del Veneto. Perché: la nostra cultura si interessa all'Italia meno che a un botteghino del lotto e chiunque (bidello, sacrestano o magliaro) può permettersi di svaligiare la cassaforte della storia nazionale, senza incontrare resistenza, e forse anche con l'approvazione compiacente della maestra.
L'avvocato ha fatto, nella sua impotenza, quel che poteva. Ma di fronte alla demolizione minuziosa di una nazione che sprofonda nell'ignoranza di sé, l'insulto a Mazzini e l'irriverenza per il Risorgimento sono come una sosta vietata di fronte a una rapina. Non si querelano i luoghi comuni, come non si multano le piccole infrazioni in presenza di grandi delitti. E in pochi mesi le offese a Garibaldi sono tornate ad essere, appunto, vecchi luoghi comuni, antiche banalità diffuse.
Il Risorgimento è stato il momento della nostra unità politica. Non però dell'unità profonda, quella cosa un poco misteriosa che chiamiamo impropriamente identità, visto che è fatta di diversità; un'impronta che è assai più vecchia del Risorgimento e sopravvive dall'antichità, stinta forse, ma indelebile. L'unità politica è stata solo un momento della nostra storia. E i suoi risultati possono essere giudicati come si vuole. A patto, però, di non dimenticare cosa c'era in Italia prima dell'unità: l'abominevole miseria dello Stato Pontificio, il brigantaggio endemico del Veneto, lo sfacelo del Regno di Napoli, i macabri viali del Granducato di Toscana, "con i teschi dei malviventi inchiodati agli alberi per promuovere il rispetto dell'ordine", (come scriveva, ancora nel 1835, un inorridito viaggiatore svizzero).
Il gorgo di tumultuosa ignoranza che si spalanca sotto il sorriso imperturbabile di certi politici non inghiotte solo il Risorgimento.
In Italia sta sprofondando ben altro che Cavour. Scompare, nell'indifferenza generale, la logica, che è un embrione di Spirito Santo nascosto nella nostra povera testa. Tanto è vero che di fronte a un Paese umiliato dal malgoverno guelfo, le Leghe neoguelfe pretendono di fare a pezzi non il malgoverno ma il Paese. Sembra adesso che non sia più opportuno convivere nella stessa nazione: italiani con italiani. Tra non molto potrebbe risultare difficile convivere nella stessa regione, nella stessa città, nello stesso caseggiato: cremaschi con cremaschi, monferrini con monferrini, tiburtini con tiburtini, e Figuriamoci celti con magnogreci. Perché l'identità è una sorta di scatola cinese: se si butta via la più grande, che contiene tutte le altre, spariscono anche le piccole. Chissà se sia mai stato illuminato da un micro-Spirito Santo, da un barlume di logica, il sindaco di Capri, il quale ha chiesto l'indipendenza dell'isola dall'Italia.
L'Italia centrale è perplessa per il rifiuto della Toscana di accettare la spartizione del Paese in tre (Nord, Sud, Centro), secondo le proposte della Lega Lombarda. Pare che gli autonomisti fiorentini non si rassegnino all'idea che "la patria di Dante" finisca nella stessa pentola nella quale deve bollire l'Abruzzo. Vedremo come reagirà l'Abruzzo, che è stato pur sempre la patria di Ovidio, di Pompeo e di D'Annunzio.
E' chiaro che sta giungendo una nuova e interessante concezione della cittadinanza, da fondarsi non più sulla convivenza tra ragionieri, elettricisti, operatori ecologici, avvocati, manager, tecnici, pittrici e docenti (di pianura, di montagna o di collina), ma sulla pretesa di ognuno di convivere solo con se stesso. Dunque: pianura con pianura, montagna con montagna, geni con geni, cretini con cretini. L'arcipelago dell'ex penisola è dietro l'angolo.
Ma non basta. C'è la "civiltà del clima". E cerchiamo di fare un po' di chiarezza anche su questo argomento. Che non è da poco, e non è di questi tempi soltanto.
Plinio il Vecchio considerava ingenue ed errate le valutazioni comparative degli antichi Greci sulla durata media della vita nelle diverse specie animali. E scriveva: "In maniera troppo fantasiosa, a mio parere, Esiodo sostiene che la cornacchia vive nove volte più a lungo dell'uomo, i cervi quattro volte più della cornacchia, i corvi il triplo dei cervi". E non credeva nemmeno, il vecchio Plinio, alla storia leggendaria di Epimenide che per il gran caldo si addormentò in una caverna, dormì 57 anni di seguito e si risveglio che era ancora giovane.
Il severo naturalista latino non poteva considerare attendibili i computi di Esiodo sulla vita dei corvi e delle cornacchie, né gli stratagemmi di Epimenide per fermare o accelerare il tempo a piacere, scambiando giorni contro anni. Plinio non prestava fede alle favole. Usava la ragione, confrontava le notizie, osservava, e dunque non poteva credere a Esiodo e ad Epimenide di Cnosso. E però credeva a Ctesia di Cnido e ai suoi "Monocòli" indiani che avevano una gamba sola e venivano chiamati anche "Sciapodi", "umbripedi perché quando fa troppo caldo si sdraiano supini e si proteggono con l'ombra del piede". E credeva anche a Megastene e ai suoi "Astomi", "popolo senza bocca che vive presso la sorgente del fiume Gange, si veste con bioccoli di cotone e si nutre solo di aria e di profumi".
Chi legge la Naturalis Historia non smette di stupirsi. E non per le cose meravigliose che trova, ma per ciò che assolutamente non trova: il criterio con cui Plinio seleziona le notizie, il suo "metro per la verità". Per noi che abbiamo la convinzione di possederlo, grazie alla vulgata scientifica, è un'esperienza istruttiva. Perché, a forza di non trovare il suo criterio, finiamo per diffidare anche del nostro.
Non c'è rapporto tra il metodo della scienza moderna e quello di Plinio quando si tratta di giudicare gli Sciapodi e gli Astomi. Ma quando sono in gioco popoli che conosciamo anche noi, le cose si complicano. Plinio ci mette di fronte ai nostri pregiudizi, magari rovesciati, e così ci confonde. Anche per lui, come per noi, gli uomini cambiano a seconda che vivano nelle zone calde o fredde della terra. E cambiano secondo schemi che usiamo in parte ancora oggi. Per esempio: "Non si può dubitare che gli Etiopi siano riarsi dal calore del sole... e già alla nascita siano simili agli ustionati, con la barba e i capelli crespi; mentre dal lato opposto del mondo ci sono popoli di pelle bianchissima e di ghiaccio, con lunghe chiome bionde".
Fin qui, a parte la lunghezza dei capelli che varia con i tempi, non possiamo che essere d'accordo. Ma, dopo aver giustamente constatato il colore degli Etiopi e degli "Iperborei" e la loro alta statura, Plinio constatava anche, con la stessa naturalezza, che "gli Etiopi sono intelligenti per la mobilità dell'aria e gli Iperborei selvaggi per la rigidezza del clima", concludendo che il meglio dell'umanità si addensava nelle "zone intermedie", dove "ci sono corpi di dimensioni più moderate, grande equilibrio anche nel colorito, costumi più dolci, sensibilità limpide, intelligenze feconde e capaci di affrontare ogni aspetto della natura". Qui la comunanza del criterio e la diversità del giudizio mettono a nudo non una, ma due sciocchezze: quella di Plinio e la nostra.
Plinio era nato a Corno, un paio di millenni fa. E non poteva sapere che quindici secoli dopo di lui alcune tra le "intelligenze più feconde e capaci di affrontare ogni aspetto della natura", da Linneo a Newton, a Plank, sarebbero nate proprio tra gli Iperborei, ai quali lui concedeva soltanto l'alta statura e la ferocia. Né poteva immaginare che il medesimo gruzzolo di banalità sul clima e sui suoi rapporti ferrei con l'intelligenza e il carattere degli uomini sarebbe stato usato da Gobineau, all'inizio dell'Ottocento, per spiegare l'arretratezza di un popolo "intermedio" come il persiano, o avrebbe alimentato, nella vulgata sociologica di oggi, le condanne senza appello al "più che intermedio" Mediterraneo e addirittura alla centralissima Italia, che lui considerava "alunna e genitrice ad un tempo di tutte le terre".
Plinio aveva constatato l'arretratezza culturale e civile degli Iperborei assai meglio della longevità delle cornacchie. E aveva letto Eratostene, Strabone, Cesare, Tacito e le loro descrizioni delle "coorti dei Germani che battono, nudi, sugli scudi, il ritmo dei loro canti sevaggi". Ne aveva ricavato la conclusione che gli Iperborei fossero poco portati alla civiltà. E che per sempre i popoli del Settentrione sarebbero rimasti feroci e analfabeti; così come sarebbero rimasti biondi e alti.
Noi, invece, che abbiamo visto e vediamo il prodigioso exploit industriale e culturale del Nord, ci siamo a poco a poco convinti che la civiltà moderna non sia roba da lasciare in mano ai popoli del Mediterraneo, pigri e viziati dalla benevolenza della natura. Plinio lodava la collocazione intermedia dell'Italia. Ma oggi ci sono docenti di sociologia, e non fra i più sprovveduti, che non credono magari all'antisemitismo di Rosemberg, come Plinio non credeva alle cornacchie di Esiodo, ma credono al razzismo di Gobineau, come Plinio credeva agli Sciapodi di Ctesia. Così, una superiorità storica recente, che risale a non più di trecento anni fa, viene proiettata nel futuro e, cosa ancora più singolare, nel passato remoto, in base al ragionamento che dove fa caldo gli uomini non sono disposti a fare sforzi.
Eppure, basterebbe poco per correggere Gobineau con Plinio e Plinio con Gobineau, azzerando la stupida corsa ai primati del freddo, del caldo e del tiepido. Riconoscere lo scatto prodigioso dell'Europa centro-settentrionale a partire dal Seicento, è una cosa. Attribuirlo al clima e ai caratteri ereditari è un'altra. Per farlo, bisogna inoltre dimenticare una verità elementare. Lo sforzo maggiore della civiltà, quello dell'abbrivo, è stato sostenuto da popoli che vivevano in Mesopotamia, in Egitto e in Palestina, dove fa caldo, o in Grecia e in Italia, dove non fa né troppo caldo né troppo freddo. Non c'è alcuna parentela tra il gelo e l'alta tecnologia, come non c'era alcuna parentela tra l'olivo e il diritto romano. Ma la scienza, o meglio la sua interpretazione popolare, ha fretta di sapere e di giudicare, e colma alla leggera le innumerevoli lacune delle sue conoscenze. Così, prende quel che trova e lo raddoppia, moltiplicandolo per se stesso. Ed elevando al quadrato quel che c'è, inchioda il presente all'eternità, non rinunciando a rendere retroattivi i suoi giudizi.
Pare che Dio possa tutto, ma non modificare il passato; pare che neppure lui possa fare in modo che quel che è stato non sia stato. Gli uomini, invece, meno avveduti di Dio, ci provano.


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