§ USI & ABUSI

FARE GLI ITALIANI?




S. R.



Il fascismo fu, a suo modo, erede del Risorgimento. Non fu né improvvisa invasione barbarica né un "colpo di coda" della borghesia reazionaria, ma semplicemente il punto d'arrivo della cultura che aveva animato, settant'anni prima, i fondatori dello Stato unitario. Gli obiettivi erano gli stessi, fare gli italiani, creare - con la guerra, se necessario -un'identità nazionale comune, una cittadinanza superiore alle infinite realtà tribali e campanilistiche della penisola.
In seguito, sotto la camicia nera buttata alle ortiche, vi erano sempre i lazzaroni, la plebe, la borghesia minuta, i manutengoli, i pronubi, i mezzani, i procacciatori di favori e di informazioni. Cominciò allora un nuovo tentativo di "fare gli italiani". Altri ideali - solidarismo interclassista per i cattolici, lotta di classe e giustizia sociale per i marxisti - sostituirono i valori tramontati della grandezza e della gloria militare. Ma l'obiettivo cadde nelle mani di forze politiche - i cattolici e i marxisti - per i quali lo Stato era macchiato da un incancellabile peccato originale: era "laico" per i primi e "borghese" per i secondi. Né i cattolici né i marxisti riuscirono mai a concepire le pubbliche istituzioni come un patrimonio comune di cui occorreva arricchire la competenza e proteggere l'autonomia. Poiché lo Stato era il loro tradizionale nemico, i cattolici decisero di occuparlo e i marxisti di infiltrarlo.
Abbiamo avuto, dal momento in cui uscirono di scena gli ultimi funzionari della generazione precedente, uno Stato amministrato da Quisling cattolici di cui i marxisti sono riusciti a controllare, soprattutto grazie ai sindacati e alle correnti "progressiste" della magistratura, alcuni snodi importanti. La creazione delle regioni negli anni ' 70 estese il fenomeno sino a renderlo capillare. Non basta. Mentre lo Stato risorgimentale tentò di fare la nazione, lo Stato dei partiti ha dato un duro colpo, forse irreparabile, all'unità nazionale. L'Italia è più divisa ora di quanto non sia mai stata dopo la fine della guerra contro il brigantaggio perché i criteri con cui è stata governata, soprattutto nel lungo periodo consociativo, hanno riportato alla luce ed esaltato tutti i vizi regionali e le consuetudini ambientali.
Per restare al potere, i partiti non si sono limitati a privatizzare le commesse dello Stato e a chiudere gli occhi sul modo in cui venivano eseguite: hanno barattato lo Stato di cui si erano impadroniti contro i voti, hanno appaltato le prerogative statali ai loro grandi elettori, hanno tollerato che nascessero nuove feudalità. I danni che tale regime ha inflitto all'Italia sono molto più gravi al Nord che al Sud. Di qui la diversità della reazione, di qui la spaccatura che divide oggi il Paese. Gli storici ci diranno chi abbia maggiormente ferito l'unità nazionale: il fascismo con una guerra a cui il Paese era inadatto e impreparato, o la partitocrazia e la democrazia consociativa con la loro gestione corrotta e clientelare della cosa pubblica. I contemporanei debbono limitarsi a constatare che l'Italia rischia di diventare nuovamente una "espressione geografica".
Tornano alla mente le parole del principe di Metternich al conte Apponyi, ambasciatore d'Austria a Parigi, il 12 aprile 1847: "La parola Italia è una denominazione geografica, una qualificazione utile per la lingua, ma priva del valore politico che gli ideologi rivoluzionari tendono ad attribuirle e piena di pericoli per l'esistenza stessa degli Stati di cui si compone la penisola".
E' questa la maggiore colpa degli uomini che hanno governato la Repubblica: avere suscitato nelle regioni più avanzate il timore che l'Italia possa pregiudicare la loro esistenza.


OLTRE LE POLEMICHE

MEMORIA DEGLI INTELLETTUALI

Aveva ragione Borges, che in Altre inquisizioni sosteneva che "il vero intellettuale rifugge dai dibattiti contemporanei" perché "la realtà è sempre anacronistica"; oppure Prévert, secondo il quale "non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con i fiammiferi", volendo dire che molti fuochi in Occidente li hanno accesi proprio questi personaggi con la penna in mano e con la testa un po' dappertutto? E poi: ha ancora senso parlare ancora di intellettuali? E qual è stato veramente il loro ruolo, quali rapporti intrattennero col potere? E infine, quale intervento, dinamico o statico, hanno avuto nella società? Domande antiche, che ci hanno dato risposte diverse e anche contrastanti. Ma non domande del tutto irrisolte, se è vero, com'è vero, che già nel mondo greco e romano i sapienti seppero svolgere un significativo ruolo sociale e politico a tutto campo, come possiamo desumere dalle loro opere, forse assai più che dalla loro vita.
Di fronte al dibattito in corso sul futuro del nostro Paese, dunque, non è fuori luogo ripercorrere - leggendole possibilmente in chiaro - le linee di comportamento e di pensiero dalle quali è possibile trasferirci nei nuovi tempi, e nel nuovo millennio, con fermi punti di riferimento e con progetti meno estemporanei e magari anche disgreganti. Ciascuno, così, potrà formarsi un'opinione il più possibile corretta, autonoma, articolata. Avevano infatti ragione sia Borges sia Prévert. Il presente è sempre specchio rifratto del passato, e l'intellettuale non può essere uno spettatore passivo, un testimone del nulla. Neanche quando, citando esclusivamente i morti, addossiamo loro colpe in gran parte nostre, processiamo le loro intenzioni (di quando erano in vita, intendiamo dire), e li mettiamo maramaldescamente alla gogna. I testimoni muti sono come quelle che Elias Canetti definisce "creature che vivono in un intervallo di tempo che corre accanto al nostro, lo interseca senza sfiorarlo, come se esistessero ombre del tempo che si fanno un mondo tutto per sé".
Risondiamo il passato, dunque. In un passo della Medea, ricorda Dario Del Corno, Euripide introduce, con un impressionante anacronismo, una riflessione ispirata all'attualità. L'uomo prudente non dovrebbe mai fare in modo che i suoi figli acquistino una sapienza fuori dall'ordinario, se non vuole esporli all'odio dei concittadini. "Infatti" dice Medea "presentando agli ignoranti nuovi oggetti di sapere, tu non apparirai sapiente ma inutile; e d'altra parte, se sarai considerato superiore a coloro che sembrano conoscere molte cose, diventerai sgradito alla città. Poiché io sono sapiente, questa è la mia sorte: alcuni mi odiano, ad altri appaio ostile". Medea possiede la scienza della magia, e nell'azione del dramma ciò salvaguarda la verosimiglianza dell'allusione personale; ma il riferimento autobiografico opera su un doppio livello, poiché qui Euripide parla non tanto della sua eroina, quanto della propria esperienza di intellettuale. E' un tema che lo appassiona, tanto che egli trovò spunto per riprenderlo anche in altre occasioni. La perduta tragedia Antiope metteva in scena il confronto tra due fratelli, Zeto e Anfione, il primo dedito alla vita attiva, l'altro all'arte e al pensiero. Accusato di preferire improduttivi piaceri, Anfione affermava che "pensare bene vale più che la robustezza del corpo"; "ragione e sapere governano bene sia la città sia lo Stato, poiché un pensiero sapiente prevale su mille braccia. Nella massa del popolo l'ignoranza è il male peggiore".
Come di consueto, Euripide interviene perentoriamente in un problema cruciale della società contemporanea. Il personaggio dell'intellettuale non era ignoto al mondo greco; ma egli è il primo ad affermare la specificità della sua funzione, e la consapevolezza che in questa era insita tanto una responsabilità pubblica, quanto un conflitto con l'opinione comune. Pochi anni prima della Medea, il filosofo Anassagora e lo scultore Fidia erano stati pretestuosamente processati ed esiliati: in entrambi i casi si era inteso colpire Pericle, e la cerchia di uomini di cultura che lo statista aveva raccolto intorno a sé. Era il sintomo della diffidenza ateniese contro quanti nel nome della ragione revocavano in dubbio la certezza di un sistema di opinioni. La città individuava nell'intellettuale un elemento di contestazione dei propri schemi, e reagiva con l'intolleranza che di lì a poco avrebbe condotto all'assassinio legalizzato di Socrate.
In questa accezione, il termine "intellettuale" rappresenta a sua volta un consapevole anacronismo. Per indicare una categoria di persone, esso compare solo verso la fine del secolo scorso, quando con il Manifeste des intellectuels un gruppo di scrittori francesi dichiarò la propria solidarietà con Emile Zola a proposito dell'affare Dreyfus. Ma è lecito estendere il significato del vocabolo anche retrospettivamente, per individuare, in ogni momento della storia umana, una persona che svolge la propria attività con la parola e con la mente, trasmettendo i metodi e i risultati di tale azione a un ampio contesto sociale. In questa volontà comunicativa risiede la valenza "forte" che distingue l'intellettuale da quanti, artisti o letterati, filosofi o uomini di scienza, interpretano piuttosto il proprio operato secondo una prospettiva autonoma e individuale.
Nell'Antiope l'utilità pubblica dell'intellettuale veniva ribadita, in chiave simbolica, anche con il ricordo del mito che coronava il destino dei due fratelli. Alla fine della tragedia, compariva "ex machina" il dio Hermes, annunciando che essi avrebbero fortificato Tebe, e che al suono della cetra di Anfione le pietre sarebbero andate da sé a formare le mura. Più che il lavoro manuale di Zeto, era dunque destino che riuscisse preziosa alla città la sapienza del fratello, capace di intendere e possedere i nessi profondi del reale. Al di là dell'iperbole proprio all'immagine poetica, Euripide definisce la prerogativa dell'intellettuale, quale si andava affermando nella cultura greca: egli è colui che grazie alla sua indagine dispone di una sempre più vasta area di sapere, e la mette al servizio degli uomini. Ma Medea rivela l'altra faccia della sua presenza nella collettività, il duro messaggio che avrebbe ispirato l'azione di Socrate: l'intellettuale è anche colui che denuncia le false opinioni e i falsi valori. La forza propulsiva dell'intellettuale nella società si manifesta sia come critica di un immobile sistema di convenzioni sia come proposizione di nuove idee e strutture di vita. Peraltro Euripide rappresenta una svolta, non un inizio: quando la si ricerchi non tanto in consapevoli formulazioni, ma nella tensione implicita ai testi e nell'attività degli individui, la figura dell'intellettuale compare agli albori stessi della cultura greca e ne accompagna la progressiva affermazione, come l'elemento essenziale di un cammino che dall'indagine problematica del reale ha tratto la linfa del suo sviluppo. I poemi omerici non rappresentano già in Nestore e in Odisseo i connotati che contraddistinguono l'intellettuale? Entrambi eccellono nella parola e nella sapienza; e quando gli Achei assegnano a Odisseo anziché ad Aiace le armi di Achille, essi premiano la superiore utilità per il bene comune che appartiene all'intelligenza più che alla prodezza fisica. A Nestore compete la conoscenza del passato, che è necessaria per comprendere il presente e progettare l'avvenire, e tanto sulla memoria quanto sull'inventiva si fonda la forza sociale della parola. Troia annovera prodi guerrieri, ma non ha un personaggio capace di imprimere alla parola l'energia del pensiero; fors'anche per questa ragione è destinata a scomparire, come nella storia avverrà per i popoli che non seppero creare una letteratura: gli Etruschi, i Fenici, ma non i Romani, che questo ammaestramento sommo attinsero dalla Grecia.
Carattere dell'intellettuale, sostiene Del Corno, è anche la consapevolezza positiva del suo ruolo. Quando Esiodo propugna orgogliosamente il proprio modello di moralità, egli è consapevole di contestare un sistema logoro, basato sul valore guerriero e sull'aristocrazia del sangue. La pace, la giustizia, il lavoro sono i fondamenti di una Polemica opposizione, in cui Esiodo rivendica l'adozione di nuovi valori per la collettività, resi necessari dal mutamento degli schemi sociali. All'intellettuale spetta il controllo della dinamica storica, poiché la forza del pensiero gli consente di prevedere i risultati profondi che le mutazioni delle strutture sociali e degli atteggiamenti mentali apporteranno nella realtà degli uomini. Così i poeti dell'età "lirica" manifestano ai loro contemporanei la crisi della visione epica di fronte alla prospettiva individuale: quando Archiloco introduce la propria esperienza come parametro della realtà, quando Saffo vanta l'autonoma scelta dell'amore come bene supremo, essi tracciano una nuova dimensione della mente umana. Solone rappresenta in termini espliciti la simbiosi della prassi politica con un'azione intellettuale, cui appartiene il compito di richiamare la collettività a un sistema di valori che le consenta di convivere nelle conquiste della democrazia.
Solone sa di parlare a un corpo sociale, che rilutta ad accettare la portata innovatrice delle sue proposte; e tuttavia non esita di fronte a un impegno totale, fiducioso nella validità del proprio messaggio. Ma la fatale opposizione fra l'intellettuale e la massa, fra l'interpretazione dinamica della realtà e l'immobilismo delle opinioni, provoca nei due esponenti sommi della sapienza presocratica la reazione opposta. Il tratto che accomuna Parmenide ed Eraclito è lo sdegnoso rifiuto dell'ignoranza della moltitudine; la certezza della propria verità li relega in una drammatica distanza, che tuttavia non rinuncia a proclamare un messaggio, poiché anche separandosi dall'opinione comune l'intellettuale propone una critica, denuncia la falsità inerente a uno schema di convenzioni.
Come mostra il caso di Euripide, l'intellettuale apprende e definisce la propria funzione di testimone della verità soprattutto quando egli non confida più in una solidarietà del corpo sociale, al cui interno gli sia possibile esplicare con successo una funzione critica e propositiva. Allora a sorreggerlo interviene la certezza che tale opera merita il suo impegno come garanzia morale e come presagio di un inevitabile futuro imposto dalla storia. Diviene sempre più palese il divario fra le due opzioni possibili nei rapporti con il sistema: l'opposizione e la partecipazione.
D'altro canto, Euripide rappresenta ancora un fenomeno isolato: la natura stessa del teatro costringeva gli autori drammatici a un rapporto dialettico e dinamico con le convinzioni del pubblico. Gli altri poeti della tragedia e Aristofane sono intellettuali che si propongono un modello d'intervento attivo, i primi nel progresso dell'investigazione del reale, il comico come confutazione della politica degenerata. Nello stesso periodo i Sofisti propongono una nuova dimensione dell'intellettuale, come professionista del sapere e della sua comunicazione: nel loro insegnamento itinerante e retribuito si manifesta il primo germe di uno sviluppo destinato a importanti conseguenze.
Il travagliato declino della polis rappresenta una fase cruciale nell'interpretazione e nella prassi del ruolo dell'intellettuale. In Socrate si accentua il conflitto con l'opinione pubblica, nell'implacabile denuncia cui l'indagine razionale sottopone l'acritica accettazione delle convenzioni; per un altro verso, la tipologia della sua azione risale al modello del sapiente che opera a un livello privato e personale all'interno della collettività. Su versante opposto sta la pubblicistica di Isocrate, esemplare della nuova immagine dell'intellettuale, che affida all'energia del discorso pubblico un programma politico di carattere sostanzialmente propositivo, nell'ottica di situazioni concrete. Ma con drammatica evidenza l'ambigua funzione dell'intellettuale emerge in Platone: l'impegno diretto nella vita pubblica si risolve nel fallimento delle sue missioni siciliane, ed egli converte la propria funzione nella contestazione dei sistemi correnti di governo, inventando un modello teorico dello Stato: quando la realtà si sottrae all'intellettuale, ad esprimere il suo conflitto con il presente subentra l'utopia. Sarà Aristotele a trovare una mediazione, proponendo una costituzione che tiene conto dell'esperienza, e tuttavia la sottopone all'emendamento della ragione. Ma anche il suo modello rimane un'ipotesi: quando rifiuta l'apporto critico della cultura, la politica non è in grado di realizzare un'idea di Stato, rimane al livello di un confronto di forze.
La collettività cittadina d'altronde si è estesa, e si è differenziata: l'intellettuale non diffonde più il proprio messaggio in mezzo alla gente, la sua attività deve trovare una sede specifica. La scuola, retorica o filosofica, diventa il centro di formulazione e di propulsione delle idee, che si diffonderanno in via mediata nella comunità. Ma nell'estrema crisi dell'universo cittadino il teatro, nonostante la sua evoluzione verso un programma di edonistico disimpegno, ha ancora la forza di recuperare una forte responsabilità di intervento sociale. Nelle commedie di Menandro la polemica contro la disparità economica e l'ingiustizia di classe, l'interpretazione del nuovo ruolo della donna, l'appello alla solidarietà insita nella condizione umana valgono come indizi di una consapevole presenza intellettuale, svolta sui due versanti della critica e della proposta.
I rapporti di Aristotele con Filippo di Macedonia e con Alessandro anticipano una situazione che diventerà canonica nell'Ellenismo. L'intellettuale si trasferisce nella corte, diventa parte integrante di una struttura che al sapere affida una funzione di prestigio e di propaganda. In questa sede il suo ruolo non è più positivo, e tanto meno può essere critico, e tuttavia conserva un margine significativo d'incisività: esso si concentra nella testimonianza del rilievo che la cultura assume nella coscienza collettiva. Dal canto suo, il principe illuminato apprezza nell'intellettuale un fattore attivo del buongoverno: preferire il cortigiano, il satellite prostrato nell'encomio è il contrassegno del tiranno, o del sovrano inetto quanto vanesio. Può accadere che grandi poeti ad Alessandria compongano elogi per i Tolomei, ma non si tratta di servile adulazione: con quest'atto essi esprimono la propria solidarietà con un potere che riconosce la loro funzione, e conferisce alla cultura uno spazio significativo nell'elaborazione di una nuova civiltà.
Una lunga tradizione aveva maturato nell'intellettuale greco la profonda e insopprimibile consapevolezza della propria funzione civile; e l'energia di tale convinzione si dimostra nella capacità di intuire e valorizzare le trasformazioni imposte dal corso della storia. Ai sovrani dell'Ellenismo spetta il merito di avere compreso che gli intellettuali adunati nelle loro metropoli costituivano il tramite fra il passato e un presente che solo in forza di tale passato trovava la propria autentica identità, il vanto di continuare il significato dell'esperienza greca. Senza la cooperazione illuminata fra il potere e la cultura, la Biblioteca di Alessandria non sarebbe sorta, e sarebbe scomparso il patrimonio di sapere e d'arte che tuttora costituisce il fondamento della civiltà europea.
Ma nuovi territori attendevano a loro volta di essere fecondati dall'attività degli intellettuali greci. Il significato profondo del detto oraziano "Graecia capta ferum victorem cepit" va oltre l'accertamento dell'influsso di una letteratura sull'altra: esso deve intendersi come il fondamentale attestato della funzione che la cultura greca ebbe nell'imprimere un senso e una coscienza al dominio universale di Roma. Senza il contributo di un Polibio, di un Panezio o di un Posidonio, difficilmente avrebbe potuto formarsi un'ideologia della romanità come prosecuzione della civiltà greca, e come realizzazione di una missione universale. Al tempo stesso, il modello culturale della Grecia valeva a dimostrare la necessità dell'intellettuale nella maturazione di una società in grado di realizzare consapevolmente i propri valori specifici. A questa suggestione Roma dovette il sorgere di una cultura 'Torte", ossia permeata di istanze intellettuali; e questa fu in grado di elaborare i motivi originali di una tradizione che, sebbene si richiamasse all'esperienza greca, rivendicava perentoriamente una dimensione autonoma.
D'altro canto, l'esempio dei regni ellenistici dimostrava l'efficacia degli intellettuali nei rapporti con il potere. Gli scrittori dell'età di Augusto rappresentano l'esempio più illustre di un'integrazione che da un programma di prestigio e di propaganda ricevette motivazione per risultati artistici di qualità altissima.
Durante i secoli dell'impero, all'intellettuale greco rimane affidata la problematica mediazione fra i due sistemi culturali, che coesistevano all'interno dell'unità politica. Ma la sua presenza tende a limitarsi in un'azione periferica, anche se talvolta non priva di incarichi prestigiosi: Plutarco è il caso tipico di un intellettuale che opera ai margini del potere; e solo alla sua serietà e intelligenza, fuse con una profonda umanità e con un vivido senso della realtà, si deve l'estremo recupero dell'antica funzione propositiva del suo ruolo, nell'idea di una cultura che costituisca la realtà stessa dell'individuo, come stile di vita e di eticità interiore. Ma il suo modello non trova altro che risposte individuali quanto sporadiche; e l'intellettuale emarginato dalla società si riduce ad attendere la fine di un mondo che si spegne perché non ha più la forza morale di accogliere la sua critica e la sua proposta.
La drammatica conclusione del trattato Sul sublime, come il dialogo De oratoribus attribuito a Tacito, denuncia la morte dell'autentica funzione dell'intellettuale. La sua prerogativa è un intervento dinamico nella realtà, ma questo non è possibile quando manca la realtà non soltanto di chi parla, ma anche di chi recepisce il discorso. Di questa condizione d'asservimento l'assolutismo è una delle cause determinanti, ma non l'unica. La libertà che ora manca non è soltanto politica: è anche libera scelta di valori da parte della collettività.
Quando prevalgono i condizionamenti di un'opinione pubblica, che ha come obiettivi esclusivamente il successo e il denaro, il consumo e il piacere, l'intero sistema sociale individua come fine unico l'immobile conservazione dei propri privilegi e delle proprie aspirazioni.
Esso rigetta l'intellettuale come un corpo estraneo, che rappresenta la fastidiosa testimonianza di una responsabilità a cui si preferisce abdicare. Il sapere, la critica promuovono il progresso, che è la rischiosa ipotesi di un mutamento; ma solo l'intellettuale sa che il mutamento è una necessità della storia. Il produttore di automobili non è in grado di saperlo, cioè di capirlo.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000