§ FRA SALENTO E FIRENZE IN LIBERTA' DI SCRITTURA

RACCONTI INEDITI DI ORESTE MACRI'/SIMEONE (VII)




Gino Pisaṇ



a) Il paradosso dell'invarianza

Elemento centrale della narrativa macriana è il doppiaggio attraverso il quale il narratore si duplica nel suo sosia (Simeone), responsabile, quest'ultimo, di una visione straniata delle cose, pot-pourri di anacronìe e discronìe, di recuperi memoriali e "confusioni" fra realtà e immaginazione, fra verità e menzogna, donde il carattere surreale oltreché ironico, satirico, filosofico, fantastico della sua scrittura.
In questo codice che sembra omologare su di un unico piano orizzontale ludo letterario ed esperienza esistenziale, in realtà il falso e il vero rappresentano due zone epistemologiche separate, ossia due livelli di realtà fra loro complementari e reciproci. Si fissa, insomma, un punto trigonometrico dal quale la prospettiva risulta deformata eppure, paradossalmente, reale. Poligona e, insieme, unitaria. Nascono, così, più piani affabulativi, dinamicamente contrapposti o intercambiabili senza che risulti alterato il messaggio ideologico talvolta affidato ad abrupti rimandi extratestuali, quasi a chiamare in gioco l'autorità di questo o quel filosofo, storico, sociologo che sia, all'ombra del quale Simeone protegge il bizzarro, eccentrico, inusuale discorso sulle cose, ossia quell'insieme di paradossi cui è deputata una funzione straniante. Discorso sulle cose, dunque, ma, più propriamente, discorso sulla vita. In questa Lebensphilosophie si esercita, ora dispiegandosi nel gioco letterario, ora querelandosi sotto la specie dell'ironia, ora tingendosi di paradossale umorismo, il giudizio dello scrittore, non latente una costante biografica: la solitudine o l'esilio. Da qui quel suo intermittente rifugiarsi sul pianeta Marte, osservatorio 'calviniano', ma già swiftiano, dal quale il "discorso" sul mondo sembra giungere epurato da ogni coinvolgimento sentimentale. Funzionali a questo carattere di , presenza distante, in cui si copulano dolore e ironia, reale e fiabesco, registri linguistici illustri e vernacolari, sono le due prose che presentiamo: Sulla compassione e Intorno alla gratitudine. Brevi come un apologo, ne hanno anche il tono, fermo restando lo specifico orizzonte del fictional world macriano.
La disciplina fantastica, infatti, cui si sottopone la riflessione dell'autore (in questo caso Simeone) alleggerisce e libera da ogni scoria moralistica il ragionamento (adotto il lemma a ricalco semantico dei gelliani Ragionamenti di Giusto Bottaio) sulla compassione e sulla gratitudine, sentimenti contigui, i quali postulano, però, due posizioni diverse circa l'oggetto di essi.
Nell'uno e nell'altro apologo, come spesso avviene nei 'racconti' di Simeone, l'input è dato da un riferimento extratestuale, sicché testo ed extratesto convergono in una sorta di co-testualità, dove il secondo elemento risulta legato al primo in chiave contrappuntistica, determinando un andamento biplanare e dialettico. In questo caso è Nietzsche a introdurre il discorso. A ben guardare, si noterà che la chiamata in causa del filosofo tedesco non solo attiene all'economia, per così dire, contenutistica, ma anche tende ad associare, nella mente del destinatario, il carattere asistematico, diaristico, apoftegmatico della riflessione 'simeonica' a quella nicciana. Stabilita questa lunghezza d'onda sul canale della comunicazione, il lettore si ritrova introdotto nella canonicità di un'espressione tutt'altro che ludica, sicché lo spettro della kantiana 'ragion pratica' si parcellizza nella brevità arguta, nel tono 'occasionale', nella puntualità circoscritta e leggera, specifica dell'apologo.
Nel primo, il serioso andamento della riflessione iniziale sullo stoicismo cede il passo ad una esemplificazione a metà strada fra il tono asseverativo ("Certo, è bella cosa") e quello straniante che capovolge la prospettiva comune, sicché il "premio della Protezione Civile per un'azione cosiddetta coraggiosa" risulta una condanna da evitare, una sanzione, per aver danneggiato "colui che ha bisogno di essere salvato, dato che l'esistenza è per sé amara e detestabile".
Segue, poi, la dissacrazione di quell'aura sovraumana, circonfusa intorno allo stoico, il quale, in fondo, ama se stesso al di là di ogni misura, rifiutando persino la consolazione di un Dio pietoso che si curi di lui. Un Dio qui metaforizzato nel ruolo dell'infermiere "maggior testimone del nostro fallimento", donde la "neutralizzazione dei segni positivi e negativi intercambiabili dell'umano troppo umano", ossia della morale superomistica. Infine due 'vignette' esegetiche, le quali daranno al lettore la misura dell'egoismo umano, anche quando si paludi di pietà.
Nel secondo, medesima movenza esordiale: un apoftegma dal nicciano Zarathustra ("Grandi favori non rendono riconoscenti, bensì vendicativi"). Assunto che, in altri tempi, sarebbe stato oggetto di suasoriae e di controversiae, di esercitazioni e di dialoghi, tanto appare paradossale e negativo: "il beneficiato non vede l'ora di vendicarsi di essere grato [ ... ]. Il beneficiante coatto ad essere riverito e a dover domare l'istinto naturale di criminale aggressività". Il lettore si chiederà perché. La risposta di Simeone non tarda: "La gratitudine è un conto aperto, che il beneficiato non riuscirà mai a saldare, giacché il beneficiante [ ... ], non richiedente né richiesto [ ... ], non saprebbe stabilire l'entità di tale conto, altrimenti si volatilizzerebbe la gratuità del beneficio". Segue una sorta di esemplificazione ("Il superiore" ecc.) cui consegue una sillogistica conclusione legata alla logica del paradosso: "Sappia, dunque, chi fa del bene, il peso e il rischio inevitabile della gratitudine, il quale non si può alleggerire in nessun modo".
L'ottica tradizionale, che mi sembra perfettamente espressa da un pensiero del Guicciardini ("Non c'è cosa più labile della memoria di un beneficio ricevuto") è così capovolta.
Ma resta l'amaro pessimismo dello storico rinascimentale. Solo che il cruccio qui latita, come latita ogni presunzione di moralismo. La responsabilità di tale scelta è, però, tutta di Simeone.


b) I racconti di Simeone / Oreste Macrì

SULLA COMPASSIONE
Sarei d'accordo con Nietzsche (Aurora, 137) sulla eccellenza (apparente) della condotta morale (cioè, non morale) dello stoico kantiano, che si guarda bene dal buttarsi in acqua per salvare uno che sta per affogare, se avessi la sicurezza che lo stoico potrebbe e saprebbe gettarsi in acqua per salvare quel disgraziato. Mi resta il dubbio sulla libertà dello stoico di fare o non fare. A furia di mettersi in testa di non fare si necessita interiormente ed è costretto a non fare.
Certo, è bella cosa farsi i fatti propri, non impicciarsi, al fine di non inorgoglirsi ed evitare di essere lodato e magari avere un premio dalla Protezione Civile per un'azione cosiddetta coraggiosa; e anche al fine di non danneggiare oltre colui che ha bisogno di essere salvato, dato che l'esistenza è per sé amara e detestabile. Ma non è fugabile il sospetto del calcolo sottile - a parte la viltà - di far parte della setta degli stoici, i quali non sfuggono essi stessi al fatale orgoglio umano. Il gioco nicciano sui sentimenti è uno spettacolo deprimente. Nietzsche di certo aveva paura e orrore di essere amato per eccessivo e smodato desiderio di essere amato; era gelosissimo di se stesso, con il dente avvelenato di perenne neonato. Rifiutava la compassione per orrore della malattia, in quanto colui che ci assiste nell'infermità è considerato il maggior testimone del nostro fallimento, il quale si intensifica e si fissa in noi, se l'infermiere si agita e soffre e piange con noi; riproduzione figurale della matercula che ci assistette esagitata quando avemmo il morbillo o la varicella. Perciò l'infermo nicciano è senza infermiere, in che consiste il suo cosiddetto ateismo. Del resto, a Nietzsche non va bene neppure la condotta degli stoici, parificata in definitiva a quella dei cristiani schopenhauriani nella consueta neutralizzazione dei segni positivi e negativi intercambiabili dell'umano troppo umano.
Immaginate due vignette. Nella prima si vede un cieco (falso) che, assiso per terra, chiede l'elemosina; la gente passa indifferente o quasi; qualcuno di quando in quando svogliatamente getta una moneta nel cappello capovolto. Nella seconda vignetta lo stesso falso cieco appare ben vedente con lo stesso cappello in terra capovolto. Questa volta al suo fianco sta lo stesso canino ritto sulle zampe, applicati sul naso occhiali scuri a simulare la cecità e apposita dicitura sul petto ("Cieco"). La gente si ferma, anzi s'affolla e il cappello accoglie belle monete e qualche banconota.
Trovare la pietà. Nessuna, naturalmente nell'aspetto circense della scenetta; l'elemosina nella seconda vignetta corrisponde al biglietto d'ingresso nel Circo Krone; equazione commerciale: divertimento-pagamento. Nella prima non c'è nulla da divertirsi, anzi il passante sente possibile per sé quella sciagura della cecità e s'infastidisce; magari dà qualcosa, ma come offa al Maligno che lo risparmi.
La stessa pietà apotropaica si potrebbe riscontrare nella seconda vignetta del cane cieco, ma in questo caso è maggiore la pietà assoluta, aggiunta la maggior tenerezza, che gli umani rivolgono agli animali domestici rispetto ai propri simili sul modello della relazione tra padrone assoluto e cane schiavo in detta scenetta. La falsa cecità di entrambi serve solo al vignettista per legare le due vignette e non c'entra coi sentimenti dei passanti.
Simeone
(p.c.c. Oreste Macrì)


INTORNO ALLA GRATITUDINE

Nel paragrafo Dei compassionevoli del nicciano Così parlò Zarathustra si legge: "Grandi favori non rendono riconoscenti, bensì vendicativi". La soluzione finale dei rapporti tra beneficianti e beneficiato è giusta e fatale, dato l'altissimo grado di tossicità psico-fisiologica della gratitudine come valore sociale concordato. Col passare del tempo accadrà sempre che il beneficiante, forse per inconscia pietà verso il suo beneficiato obbligato alla riconoscenza, commetta una sciocchezza, un passo falso verso detto beneficiato; ad es., un improvviso e assurdo rifiuto o diniego dello stesso dono o beneficio, o qualche lieve pretesa, che subito il beneficiato ingrandisce ed esaspera, togliendo pretesto per smaltire il grave peso della gratitudine. Oppure il beneficiato provoca il beneficiante negandogli un minimo favore con risibile pretesto, si che il beneficiante s'incazza e il gioco è fatto.
In tal guisa la scintilla dei due comportamenti risolve il groppo della gratitudine e le due alterezze si dividono per sempre, subentrando benefica ruggine fino all'oblio. Insomma, il beneficiato non vede l'ora di vendicarsi di essere grato, cieco e supino in alcunché di ignoto e inerte. Il beneficiante, inoltre, si sente come una palla al piede per quella faccia melensa, coatto a essere riverito e a dover domare l'istinto naturale di criminale aggressività, il che, naturalmente, è più incoercibile nel beneficiato.
Il motivo è semplice. La gratitudine è un conto aperto, che il beneficiato non riuscirà mai a saldare, giacché il beneficiante, d'altronde non richiedente né richiesto di ciò, non saprebbe stabilire l'entità di tale conto, altrimenti si volatilizzerebbe la gratuità del beneficio, la quale, appunto, è causa della illimitatezza del conto e conseguente insopportabilità.
Quanto finora osservato si riferisce al superiore, che si degna di beneficiare l'inferiore con dono che non può essere se non gratuito, si che ogni ossequio e servizio del beneficiato sono interminabili quanto dovuti. Se il beneficiante è l'inferiore (ad es., salvataggio in mare, soccorso autostradale), il superiore beneficiato estingue il debito morale con immediato beneficio (in denaro, vestiario, raccomandazione o semplice ringraziamento con effusiva stretta di mano). Anzi, il superiore è seccato di essere beneficiato, giacché è stato disturbato.
Sappia, dunque, chi fa del bene, il peso e il rischio inevitabile della gratitudine, il quale non si può alleggerire in nessun modo. In ciò stesso consiste la purezza d'animo nel fare del bene alla radice del compimento del bene. Sappia che i beneficiati bramano scaricarsi della gratitudine, perché più o meno oscuramente pensano di non essere degni del beneficio ricevuto. Epperò è stranamente positiva la loro ingratitudine repressa, quasi segno di umiltà. Il modello del Cristo è lampante. Dentro di noi pensiamo "Ma chi gliel'ha fatta fare a sacrificarsi per noi? a caricarsi di questo eterno e incancellabile rimorso? Noi veniamo prima di Lui dal caos del caso e del male. Ha voluto redimerci gratuitamente con mimesi del nostro spirito criminale e malefico. Ed ora come faremo a ricompensarlo?". Si che tentiamo di incolparlo delle nostre colpe. Terremoto di Lisbona? La riedificammo nello stesso territorio! Andiamo a cercare pretesti nella lettera testuale di antichi teologi, dove pensiamo sia scritto che pochissimi di noi si salveranno, e così ci scarichiamo del peso della gratitudine. Oscilliamo addannandoci tra qualche particolare della nostra volontà e il rimetterci totalmente alla di lui grazia; nel primo caso ci corresponsabilizziamo per togliergli una parte del beneficio; nel secondo caso ci deresponsabilizziamo, e forse è questo il segno peggiore della nostra incarnata ingratitudine. Chiedo venia di questa sparata finale senza senso.
Simeone
(p.c.c. Oreste Macrì)


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