§ RICORDI DI GUERRA

UNO SCHERZO DEL DESTINO




Italo Vittorio Tondi



Un pomeriggio dell'anno accademico 1938-'39, in una Università del Nord, mentre da allievo interno frequentavo l'Istituto di Patologia Medica, fui convocato alla Casa del Fascio dall'aitante ed altero Segretario della GUF (Gioventù Universitaria Fascista), mio condiscepolo, molto impegnato nell'attività di partito e pochissimo in quella scolastica. Fui investito, dopo un gelido saluto, da un severo rimbrotto per la mia persistente assenza nelle adunate pomeridiane dei "sabati fascisti". Alla mia giustificazione che il ruolo di allievo-interno mi impediva, e mi avrebbe impedito fino alla laurea, di ottemperarvi, con un drastico perentorio "ti espellerò dai ranghi" mi congedò.
L'episodio non ebbe seguito perché alcuni giorni dopo fu eletto Federale e destinato in una città del Centro-Italia.
A laurea mia conseguita e conflitto bellico esploso (giugno 1940) anch'egli, con qualche mese di ritardo, in scintillante divisa di orbace, conseguì il diploma. Diventammo colleghi, percorrendo strade diverse. Io verso Firenze per il corso allievo-ufficiale medico, propedeutico per la nomina a sottotenente della Sanità militare; lui col promozionale trasferimento in una prestigiosa città del Nord.
Nominato sottotenente medico chiesi ed ottenni di essere destinato in zona di guerra. Raggiunsi nell'agosto 1941 il 55° Reggimento Fanteria della Divisione "Marche", di stanza a Trebinye (a pochi chilometri da Ragusa, sede del Comando di Divisione).
Trascorsero due anni di attività bellica con sporadici attacchi diurni e notturni del nemico e con feriti, morti e prigionieri in alcuni violenti e cruenti scontri frontali.
All'inizio del luglio 1943 due battaglioni, rispettivamente il mio della Divisione "Marche" ed uno della Divisione "Bergamo" (alla nostra affiancata durante tutta la campagna) furono trasferiti nella zona di Spalato per una importante operazione. Radio-fante diceva trattarsi di un tentativo per catturare il maresciallo Tito o il comandante Mihajlovic.
La sera del 25 luglio (verso le ore 20) arrivò l'ordine dell'imminente inizio della operazione. Due ore dopo, mentre si era sul piede di partenza, un contrordine la bloccò.
Col lampo della folgore radio-fante diffuse la notizia della "deposizione di Mussolini". Gioia, sorpresa, stupore ed un urlo belluino la accolsero, anche se con l'amarezza della guerra perduta. Quei sentimenti ebbero però brevissima sconcertante durata per l'arrivo della seconda notizia. Il maresciallo Badoglio, nuovo Capo del Governo, aveva dichiarato che la guerra continuava, ordinando nel contempo che tutti i gerarchi fascisti fossero immediatamente trasferiti in zone di guerra.
Di notte prese l'avvio l'operazione programmata, che durò più giorni e senza successo. In quei giorni, specie durante le soste, i contatti ed i rapporti con i commilitoni del battaglione "Bergamo" divennero sempre più frequenti e camerateschi.
Fu in uno di quegli incontri che mi trovai di fronte, con grande meraviglia, smarrimento e turbamento, in divisa da tenente della Divisione "Bergamo", il mio collega, ex-segretario della GUF ed ex-Federale. Ci riconoscemmo guardandoci increduli e certamente entrambi ricordando l'episodio dei " sabati fascisti". Ma ci ignorammo.
A fine agosto (1943), per gravi motivi familiari e dopo sette giorni di un disastroso viaggio, per mare prima ed in tradotta dopo, raggiunsi casa mia (a Zollino, il 3 settembre). Qui mi colse, l'otto settembre, la notizia dell'armistizio.
La mia mente, oltre che per il profondo sconforto di una guerra persa, fu assalita e tormentata dal pensiero della sorte che sarebbe toccata ai compagni d'arme rimasti incastrati tra le milizie serbo-croate e lo spietato esercito tedesco. E per molti di essi il destino fu atroce. I meno disgraziati finirono in campi di concentramento o ai lavori forzati in Germania, parecchi morendovi di inedia.
Per controlli sanitari, alcuni giorni dopo l'armistizio, fui sottoposto a visita presso l'Ospedale Militare di Bari.
Pranzando alla mensa ufficiali del 48° Reggimento Fanteria ebbi la seconda onirica visione di vedere mangiare, vicino al tavolo mio, il collega che ritenevo ormai prigioniero in Croazia. Da reduci della sua Divisione appresi poi che a bordo di un motopeschereccio era riuscito a mettersi in salvo, approdando a Bari. Ci scambiammo sguardi di reciproco compiacimento senza però, forse per stupido orgoglio, pervenire ad una riconciliazione.
A fine settembre (1943) fui assegnato, unico ufficiale medico, ad un Centro di raccolta reduci di guerra (dall'Africa, dalla Grecia, dall'Albania e dalla Yugoslavia provenienti) ad Alessano (Lecce) allestito.
L'accoglienza, l'ospitalità, la simpatia, la solidarietà agli sfortunati miei compagni d'arme di quella generosissima popolazione sono indimenticabili.
Svolgevo il mio servizio presso la Scuola Comunale. Tra gli Ufficiali mi era stata segnalata la presenza di tre ex-Federali. La sorpresa fu indescrivibile quando tra essi riconobbi, per la terza volta, il mio collega e commilitone, sia pure di altra Divisione. Pochi giorni dopo, due di loro vennero a trovarmi e chiedere un possibile aiuto professionale, nel timore di una vendetta fisica, sempre potenziale per il loro passato impegno politico. Un Convento ed un Ospedale garantirono la loro incolumità. Il terzo, il mio collega cioè, si rese uccel di bosco, disertando.
Per una legge vigente (contemporanea presenza di tre fratelli alle armi) nell'aprile 1944 ritornai cittadino e professionista libero.
Nelle more di rientrare, a guerra conclusa, nella mia vecchia sede universitaria, fui assunto come assistente-medico incaricato presso l'Ospedale Civile di Lecce.
A mie reiterate domande, in quel periodo, a militari e civili di Alessano sulla sua sorte mi fu da alcuni riferito che nel tentativo di attraversare la linea di fuoco tra gli opposti schieramenti (anglo-americani, polacchi e corpo di liberazione italiano da una parte ed esercito tedesco e repubblichini dall'altra) era rimasto "ucciso".
Dolore compassione ma soprattutto un profondo rimorso, per quanto avrei potuto fare non feci, per più mesi mi angosciarono. Agli inizi del 1945 dal mio Primario, per sue ragioni di salute, fui pregato di sostituirlo per una consulenza richiestagli da un paziente di Tuturano (Brindisi).
Su una scalcinata "Balilla", con quattro ruote di aereo equipaggiata, su un manto stradale da tratturo (e non da statale 16), con alla guida il figlio del paziente, intrapresi il traballante viaggio. A lui, durante il percorso, chiesi con quale collega mi sarei incontrato. Mi rispose di non saperlo, limitandosi a dire "è un medico del Settentrione".
Giunto a destinazione (Tuturano), per una scala sconnessa e strettissima arrivai all'ingresso di una vecchia casa colonica. Incredulo, stupefatto, quasi scioccato, incerto tra sogno e realtà, mi ritrovai davanti il "redivivo" collega, alcuni mesi prima segnalatomi "ucciso".
Molto guardinghi, perché nulla trapelasse ai numerosi famigliari presenti del nostro lontano e recente passato (per i drastici provvedimenti disciplinari cui sarebbe incorso), accusando la precedente colleganza universitaria, cameratescamente ci abbracciammo.


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