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IBRAHIM E IL PARADISO




Amedeo Rolandi



Ibrahim si svegliò scosso da brividi di freddo: l'inverno milanese, per lui nato e cresciuto a Beirut, era assolutamente insopportabile.
La vecchia cascina di Rozzano, nell'hinterland milanese, nella quale aveva trovato rifugio per merito di Amina, aveva una porta di legno scheggiata dal tempo e dalle intemperie che aveva sopportato per circa un secolo: la sua costruzione risaliva, infatti, agli ultimi anni dell'Ottocento.
Ibrahim aveva sedici anni e, fino all'età di dodici anni, aveva vissuto in un campo profughi situato alla periferia della capitale libanese, conoscendo gli orrori della guerra di tutti contro tutti; la fanciullezza era trascorsa fra gli scoppi delle granate ed il crepitìo dei fucili automatici ed aveva fatto l'abitudine a correre in una profonda buca scavata con i badili e dotata di numerosi anfratti, pomposamente chiamati rifugi.
Il cibo era sempre scarso ed Ibrahim, già a sei anni, aveva dovuto ricorrere a tutte le astuzie per procurarsi il necessario per la sopravvivenza. Qualche volta i genitori ed il fratello maggiore Alì, mettendo a repentaglio la vita, uscivano dal campo per acquistare i generi di prima necessità e fu proprio in occasione di una di queste sortite che i genitori di Ibrahim rimasero uccisi.
A questo punto nulla più tratteneva i due fratelli in quell'inferno di fuoco e, alla prima occasione favorevole, si imbarcarono clandestinamente in un cargo che li condusse a Genova. Qui giunti, cominciarono a frequentare l'angiporto incontrandovi Abu Kassem, un siriano che aveva creato un gruppo di giovani ai quali, contro pagamento di una tangente, procurava dei lavoretti saltuari.
La comunità provvedeva ad offrire ai giovani degli alloggi di fortuna ed un piatto giornaliero di cibo caldo; il lavoro, costituito da piccolo contrabbando e dal facchinaggio per il carico e lo scarico delle navi era a volte molto faticoso e, non di rado, pericoloso.
Dopo pochi mesi di permanenza a Genova, Ibrahim rimase solo; suo fratello Alì rimase, infatti, ucciso da una cassa che, staccatasi dal braccio della gru che doveva stivarla in una nave, precipitò sulla banchina del porto e lo schiacciò.
Abu Kassem ed i suoi accoliti misero a tacere la cosa portando al largo il cadavere di Alì e buttandolo in mare.
Da certi strani discorsi fatti da Abu Kassem, Ibrahim capì di essere diventato uno scomodo testimone e la notte successiva alla morte di Alì raccolse le sue poche, misere cose e fuggì.
Sulla tangenziale di Genova, fu raccolto da un camionista che lo lasciò alle porte di Milano.
Ibrahim trascorse il resto della notte dentro la carcassa di una macchina che aveva trovato strada facendo e, quando il sole fu alto, con il suo fagotto in spalla, si inoltrò nella periferia della sconosciuta metropoli.
Erano ormai le cinque di sera quando Ibrabim incontrò, in un largo viale alberato, quella che sarebbe diventata la sua benefattrice.
Era una giovane di media statura, dalla pelle piuttosto scura, che indossava una minigonna di pelle nera ed un top tanto scollato da sembrare un semplice reggiseno. La ragazza passeggiava sul marciapiede facendo dondolare una borsetta di finta pelle e fumando una sigaretta: Ibrahim si fermò e cominciò a guardarla, incantato. Quasi non sentiva più i morsi della fame che lo avevano tormentato per tutto il giorno.
Dopo qualche minuto la ragazza, sentendosi osservata con insistenza, si avvicinò ad Ibrahim con passo ondulante e gli chiese se avesse bisogno di qualcosa. Ibrahim disse di aver fatto un lungo viaggio e di essere molto affamato.
La giovane donna gli chiese come si chiamasse e da dove venisse e, saputo che era libanese, lo prese sottobraccio e lo condusse in un bar offrendogli da mangiare e da bere. Mentre Ibrahim divorava avidamente un panino dietro l'altro, la ragazza gli disse di essere siriana e di chiamarsi Amina; gli chiese, poi, se avesse un posto dove dormire per quella notte e, avuta risposta negativa, lo invitò ad aspettarla finché avesse finito il suo lavoro. Avrebbe pensato lei a sistemarlo, almeno momentaneamente, finché non avesse trovato un altro posto.
Nei pressi del luogo dove la ragazza lavorava c'era un giardinetto con alcune panchine: Ibrahim sedette su una di esse dalla quale poteva osservare Amina. Vide così che ogni tanto un'auto si fermava lungo il marciapiede sul quale la giovane passeggiava e che, dopo un breve conciliabolo con il guidatore, la sua amica saliva in macchina e si allontanava per circa mezz'ora; la scena si ripeté diverse volte finché, alle dieci, Amina gli fece cenno di raggiungerla.
Tornarono nel bar dove Ibrahim si era sfamato quel pomeriggio ed Amina fece una telefonata: dopo pochi minuti giunse un taxi che li condusse alla cascina di Rozzano. La giovane disse al tassista di aspettarla ed accompagnò Ibrabim all'interno mostrandogli il grande letto dove avrebbero dormito insieme quella notte, quindi uscì e si trattenne fuori in compagnia del tassista per circa un quarto d'ora.
Quella notte Ibrahim apprese tante cose nuove per lui: Amina gli disse che faceva la prostituta e gli insegnò a fare l'amore; quando finirono gli spiegò che gli uomini la pagavano per fare quello che aveva fatto con lui e che lei viveva con i soldi che così si procurava.
Ibrahim trascorse una notte molto agitata; non riusciva a convincersi che un atto bello come quello che aveva consumato con la sua amica potesse essere acquistato come un chilo di patate.
Quando lo disse ad Amina, vide che questa piangeva e, abbracciandola, le assicurò che da quel momento avrebbe provveduto lui a procurare il denaro necessario per vivere e che lei avrebbe dovuto fare l'amore soltanto con lui.
Amina fu colpita dall'animo generoso di quel ragazzo di soli tredici anni e gli spiegò che presto avrebbe potuto constatare quanto fosse difficile vivere in un paese straniero senza quei guadagni che il suo giovane corpo poteva procurare.
Lo accarezzò a lungo e nuovamente fecero l'amore con più entusiasmo della prima volta; giacquero poi, stanchi ma felici, in quel grande letto ed Ibrahim si addormentò e sognò che Amina era la sua sposa e che vivevano in una di quelle grandi case in riva al mare che avevano fatto diventare famosa Beirut prima che la follia umana la trasformasse in un campo di battaglia perennemente inondato di sangue. Ibrahim si risvegliò nel tardo pomeriggio con una gran fame e si ritrovò solo; Amina era uscita e gli aveva lasciato sul tavolo un cartoccio con alcuni panini perché lui potesse sfamarsi.
Dopo aver mangiato, Ibrahim uscì dalla cascina e fu quasi ripreso dall'incubo della guerra che credeva di aver allontanato definitivamente da sé: la campagna milanese era inondata di una fitta nebbia che gli ricordò il fumo provocato dalle bombe e dagli incendi. Si tranquillizzò subito perché non sentì i sordi boati delle bombe e non vide fiamme dietro quel fumo dallo strano odore.
La giornata trascorse molto lentamente e quando, a notte inoltrata, sentì il rumore di una macchina che si avvicinava, uscì di corsa per andare incontro ad Amina.
Quella sera Amina non ritornò con il taxi del giorno precedente: la BMW si fermò nel cortile e ne discesero due uomini che reggevano la ragazza tra le braccia trascinandola come un sacco vuoto.
Ibrahim si nascose nell'ombra e, prima di muoversi, attese che Amina e gli sconosciuti entrassero in casa.
Ibrahim rimase nel suo nascondiglio per un tempo che gli parve lunghissimo; in realtà, quando gli sconosciuti uscirono era trascorsa soltanto mezz'ora durante la quale tutte le luci della casa erano rimaste accese e si udivano forti rumori provenienti dall'interno.
Finalmente i due accompagnatori di Amina uscirono ed uno di loro recava una grossa borsa rigonfia che mise nel baule della BMW.
Quando fu ben certo che la macchina fosse ormai lontana, Ibrahim si avvicinò alla casa con un passo leggero e, spinto l'uscio appena accostato, si fece coraggio ed entrò. La vide subito: Amina era distesa sul grande letto nel quale erano stati felici e sembrava che dormisse.
Ibrahirn non si accostò subito a lei; diede un'occhiata circolare alla stanza nella quale regnava un grande disordine: i cassetti dei mobili erano tutti aperti ed il loro contenuto rovesciato sul pavimento, i due quadri che adornavano la parete di fronte alla porta erano stati sventrati ed i vetri, divelti dalle cornici, erano sparpagliati per terra.
Sembrava, insomma, che gli sconosciuti avessero cercato qualcosa che evidentemente dovevano aver trovato, visto che erano usciti dalla casa con quella grossa borsa piena da scoppiare.
Ibrahim si aggirava in quella stanza come un sonnambulo senza avere il coraggio di avvicinarsi al letto: dalla posizione della testa di Amina aveva capito che doveva esserle accaduto qualcosa di terribile; il collo della ragazza, infatti, era piegato tutto da una parte come se fosse staccato dal resto del corpo.
Fattosi infine coraggio, si accostò al giaciglio e vide le grandi ombre scure sotto gli occhi di Amina, il filo di sangue, ormai rinsecchito, all'angolo della bocca tumefatta e, sul collo, i segni dello strangolamento.
Ibrahim avrebbe voluto urlare tutto il suo dolore ma la voce non usciva dalla sua gola secca; soltanto due lacrime, scendendo dagli occhi che bruciavano, rigavano il suo volto.
Il ragazzo comprese di essere rimasto nuovamente solo: la vita non gli risparmiava i dolori. Prima i suoi genitori, poi suo fratello ed infine Anima: aveva perso tutti.
Emise un profondo sospiro e, scacciando la tristezza che rischiava di sommergerlo, raccolse piano le sue povere cose ed una fotografia di Amina che stava appoggiata, senza cornice, sul comodino ed uscì da quella casa che poteva trasformarsi in una trappola mortale.
La notte senza stelle lo accolse fra le sue fredde braccia ed ebbe un lungo brivido: cosa avrebbe fatto adesso?
Camminò a lungo, senza rendersi conto della direzione in cui i suoi passi lo conducevano. L'importante era allontanarsi da quello spettacolo di morte e di crudeltà.
La luce dell'alba illuminava ormai i tetti delle case quando Ibrahim giunse alla periferia della grande città; vide una luce uscire da un negozio e sentì l'odore del pane appena sfornato. Bussò piano a quella porta chiusa e, a gesti, fece capire all'uomo che gli aveva aperto di essere affamato e stanco.
Conosceva abbastanza l'italiano per spiegarsi, ma la voce non voleva saperne di uscire dalla sua gola arsa dalla sete, dal dolore e chiusa dal terrore.
L'uomo lo guardò e dovette fargli pena perché, rientrato nel negozio, ne uscì subito con una grande pagnotta che porse ad Ibrahim; quindi rinchiuse la porta e disparve.
Ibrahim sedette sull'orlo del marciapiede, davanti al negozio, e cominciò a sbocconcellare quel pane ancora fragrante di forno; calmò così la fame ma non il grande vuoto che sentiva alla bocca dello stomaco.
Mise quel che restava della pagnotta nella sua borsa e si allontanò con passo lento alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui sapeva.
Camminando nelle strade che cominciavano ad animarsi, vide ad un tratto un uomo che, stando accanto ad un semaforo, puliva i vetri delle macchine che si fermavano quando scattava il segnale rosso.
Stette un po' lì ad osservare quello strano traffico e, resosi conto che l'uomo del semaforo doveva essere della sua stessa razza, si avvicinò e cercò di parlargli; voleva chiedergli se poteva aiutarlo nel suo lavoro e se, in cambio, poteva avere un tetto e qualcosa per sfamarsi.
Le labbra di Ibrahim si muovevano ma dalla bocca non usciva alcun suono; l'uomo capì che il ragazzo era muto e gli chiese di spiegarsi a gesti.
La disperazione si dipinse sul volto del ragazzo che soltanto ora si era reso conto che non sarebbe più riuscito a parlare; lo shock era stato talmente grande da renderlo muto.
L'uomo si chiamava Abdullah e veniva dal Marocco: anch'egli aveva una lunga, triste storia di miseria e di dolori dietro di sé e non stentava a capire quel ragazzo muto che lungo la strada della vita aveva perduto tutto ciò che dà valore ad un'umana esistenza.
I due divennero inseparabili e, pian piano, Ibrahim, aiutandosi con i gesti e con i movimenti delle labbra, raccontò al suo compagno la storia della sua vita. Abdullah era un brav'uomo e prese a cuore la sorte dello sfortunato ragazzo che Allah aveva voluto fargli incontrare.
Trascorrevano le giornate ad un angolo di strada lavando i vetri delle auto di passaggio e, nei momenti più duri, elemosinando; le magre risorse così raccolte davano loro la possibilità di mangiare, quanto al dormire si arrangiavano in rifugi di fortuna che spesso, per un motivo o per l'altro, dovevano cambiare.
Ibrahim trascorse con Abdullah circa tre anni; al terzo inverno, una mattina, svegliandosi, non lo trovò accanto a sé e lo cercò per una settimana in tutti i posti che erano soliti frequentare, senza successo.
Il suo girovagare lo portò un giorno nei pressi della cascina nella quale aveva trascorso le ore più felici della sua vita in compagnia di Amina; Ibrahim aveva tanto freddo in quei giorni e gli sembrava che le ossa non reggessero più il peso del suo corpo.
Si avvicinò con molta circospezione alla cascina non avendo dimenticato che da quel luogo era fuggito talmente terrorizzato da aver perso la parola. Spinse adagio la porta che emise un cigolìo simile ad un lamento umano, mise dentro la testa e vide la stanza completamente vuota: unici abitanti di quel luogo erano i ragni che tessevano lunghe ragnatele che pendevano dal soffitto e che gli ricordarono le reti dei pescatori che aveva visto a Beirut, da bambino. All'improvviso un topo uscì dal suo nascondiglio e, squittendo, attraversò la stanza.
Si avvicinava ormai la sera e Ibrahim decise di trascorrere la notte nella cascina; dal sacco che portava in spalla estrasse due coperte sporche e rabberciate che costituivano il suo giaciglio, accostò la porta e si distese nell'angolo più riparato della stanza.
Quella notte il freddo non gli dava requie, lunghi brividi scuotevano il suo corpo sfinito. Finalmente, dopo che ebbe baciato la fotografia di Amina, ormai consunta e tutta spiegazzata, il sonno riparatore stese un pietoso velo sopra di lui.
Si svegliò alle prime luci dell'alba e, volgendo il capo verso la finestra sgangherata, vide una gran luce al centro della quale apparve il volto sorridente di Amina: di colpo non ebbe più freddo, sentì che le forze gli tornavano e, dalla sua bocca ormai muta da tre lunghi anni, uscì chiaro e forte il nome della donna che era stata il suo primo ed unico amore. "Amina, aspettami, voglio venire con te!".
Lei gli tese la mano ed Ibrahim la prese: insieme, nel grande alone di luce che li circondava, presero la via del cielo e, volando leggeri, raggiunsero il Paradiso di Allah.


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