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IMPRESA ITALIA




Giovanni Agnelli



In Europa il clima generale si è fatto più sereno e le potenzialità di crescita più concrete. Pur con tutta la loro evidenza e la loro forza, i dati dell'economia non sembrano però sufficienti ad attenuare le aspettative negative e il nervosismo che dominano i mercati finanziari e che inducono gli operatori a comportamenti e scelte che potrebbero avere ricadute pesanti sulla tenuta del processo di espansione.
Più dei fatti, pesano i timori. E tra questi, più degli altri, quello per una ripresa dell'inflazione e per un aumento dei tassi d'interesse. Ci chiediamo se questo timore sia giustificato. In realtà, molti elementi ci inducono a pensare che non lo sia.
Un surriscaldamento della domanda in Europa appare improbabile. La dinamica delle retribuzioni è sensibilmente rallentata. Le ristrutturazioni continue - che interessano non solo l'industria, ma anche settori sempre più ampi dei servizi - stanno rafforzando notevolmente la capacità competitiva delle imprese.
L'apertura dei mercati e l'accresciuta concorrenza internazionale favoriscono il contenimento dei prezzi. Tuttavia, permangono certamente molti fattori che contribuiscono se non ad alimentare, per lo meno a non placare le inquietudini e a non ridurre la divaricazione tra economia reale e mercati finanziari.
Indubbiamente, la situazione politica non stabilizzata in molti Paesi ha un peso non irrilevante. L'Europa sta ancora vivendo una lunga stagione elettorale che si protrarrà fino a tutta la primavera, ma anche laddove elezioni a breve non sono previste, come in Gran Bretagna e in Spagna, le maggioranze di governo non sembrano particolarmente solide. Anche negli Stati Uniti la leadership politica appare indebolita nella popolarità e nella capacità di dare concreta attuazione ai suoi programmi.
Tutto ciò, però, non sembra offrire motivi sufficienti per quell'eccesso di pessimismo che attraversa i mercati finanziari. La ripresa può e deve essere gestita, con gradualità e accortezza. E su questo punto sembrano ormai convergere le azioni delle autorità politiche e monetarie. Le banche centrali stanno dimostrando di saper reagire prontamente alle variazioni dell'attività economica, accompagnandone la crescita ed evitando tensioni sui prezzi. Se un auspicio si può fare, è che nei prossimi mesi continuino a operare in tal modo, cercando di stabilizzare al massimo il clima delle aspettative anche con dichiarazioni e spiegazioni che concorrano alla formulazione di previsioni più razionali.
Per parte loro, i governi europei stanno lavorando per migliorare la situazione dei bilanci pubblici, anche se si tratta sempre di fare scelte difficili e contrastate, non certo semplici e lineari. In Francia si prevede una significativa riduzione del disavanzo. In Germania la politica di bilancio punta al conseguimento di un nuovo equilibrio finanziario entro tempi ragionevoli: già nel 1995, comunque, disavanzo e debito dovrebbero rientrare nei limiti stabiliti col Trattato di Maastricht.
Nella stessa Italia, il Paese che presenta la situazione più critica, abbiamo compiuto nuovi passi avanti nella riduzione della dinamica di alcune delle principali voci di spesa. Appare evidente, in sostanza, che non saranno i bilanci pubblici a dare impulso alla crescita: lo sviluppo è affidato tutto al settore privato. E le imprese dovranno saper rispondere alle crescenti responsabilità che derivano da questo ruolo trainante, investendo con coraggio puntando con maggiore forza all'innovazione, adoperandosi per quella crescita dell'occupazione che la collettività si attende.
Certo, non è affatto scontato che esse siano in grado di sostenere questi impegni. Ciò dipenderà anche dall'esistenza di alcune condizioni di base. Innanzitutto, le imprese dovranno poter contare su riferimenti certi - sia di politica monetaria sia di politica fiscale - sui quali costruire le loro strategie e pianificare le loro iniziative. In secondo luogo, i Paesi europei (e il nostro certamente più degli altri) dovranno adottare tutte le misure necessarie per rendere più flessibile il sistema economico e più efficiente l'allocazione delle risorse.
Sappiamo che molto resta ancora da fare su questo terreno. C'è da ridurre il ruolo dell'intervento pubblico nell'economia attraverso la privatizzazione di imprese industriali e di servizio. C'è da ridimensionare un sistema di sicurezza sociale troppo esteso e generoso, il cui finanziamento grava in massima parte sul lavoro, innalzandone il costo e scoraggiandone di fatto l'utilizzo. E c'è da eliminare le molte rigidità del mercato del lavoro che generano l'illusione del posto sicuro in chi ancora ce l'ha e sbarrano gli accessi a chi il posto non l'ha o non l'ha più.
Un contributo importante per rasserenare il quadro può certamente venire anche da una chiarificazione sulle prospettive della costruzione europea. Il processo di integrazione ha senza dubbio subito qualche sbandamento in questi ultimi anni, sotto la spinta proveniente dal crollo dell'impero sovietico, dall'unificazione tedesca e dalla recessione mondiale. E tuttavia non si è arrestato, né ha ridotto la sua forza di attrazione.
Il disegno di una Comunità che tende sempre più a coincidere con la stessa nozione di Europa si è fatto ancor più concreto: l'allargamento a Est appare sempre meno improbabile. Siamo di fronte a un momento cruciale per i destini futuri del nostro continente.
Noi continuiamo a essere convinti - e la storia di questi ultimi quarant'anni ci rafforza in questa convinzione - che l'Europa abbia un futuro solo in una prospettiva di maggiore e sempre più stretta integrazione economica, ma anche monetaria e politica. Sappiamo bene che, allo stato delle cose, non è pensabile che l'ulteriore rafforzamento del processo di unificazione veda coinvolti immediatamente e in egual misura tutti i Paesi membri. Pensare a un'unione flessibile, a un'unione per fasi e per gruppi di Paesi - come del resto prevede lo stesso Trattato di Maastricht in materia di unione monetaria - non è affatto un'eresia né un tradimento dello spirito comunitario. Al momento presente, tuttavia, la necessità di accrescere la coesione all'interno dell'Unione Europea ci spinge a ritenere più che opportuno che il processo di convergenza a tutti i livelli venga approfondito da quel nucleo di Paesi che più è nelle condizioni di percorrere questa strada. Ciò, naturalmente, lasciando aperta la porta a eventuali nuove partecipazioni quando fossero in grado di rispettare i criteri stabiliti e, soprattutto, salvaguardando lo spirito comunitario, e cioè la piena e paritaria partecipazione di tutti al processo decisionale.
La costituzione di un "nucleo duro" -riproposta di recente da esponenti tedeschi e francesi - non appare un modo per tagliar fuori questo o quel Paese, ma piuttosto un'occasione di rilancio del cammino comunitario. Diciamo anche che poter contare su questo avanzato punto di riferimento sarebbe certamente un incentivo ulteriore per tutti gli altri a ricercare le condizioni per una piena partecipazione all'unione più stretta.
E' nell'interesse di tutti che si marci in questa direzione. Anche dell'Italia. Il nostro Paese può certamente tornare a svolgere un ruolo di spinta e di stimolo nella costruzione europea. Ma per far questo, il rispetto dell'obiettivo del risanamento delle nostre finanze pubbliche è irrinunciabile.
Non esistono alternative praticabili rispetto a una lunga e costante azione di graduale riduzione del deficit, dalla quale dipende, fra l'altro, l'abbassamento di un costo del denaro che oggi si colloca su livelli altissimi rispetto a quelli degli altri principali Paesi. Del resto, basta guardare all'esperienza di numerosi altri Paesi per constatare come la riduzione del deficit attraverso un rigoroso controllo delle spese, piuttosto che con l'incremento della pressione fiscale, può portare rapidamente più sviluppo e più occupazione.
C'è anche un altro aspetto che merita di essere sottolineato. Gli interventi sul lato della spesa non sono solo importanti perché consentono di non aumentare una pressione fiscale che tuttora ci pone ai vertici in Europa. Essi prefigurano un cambiamento di grande portata nel rapporto tra lo Stato e i cittadini. Questo rapporto si era venuto alterando dal dopoguerra ad oggi.
L'ambizione - certamente nobile nei principi che l'ispiravano - di estendere a tutti i cittadini ogni tipo di protezione se, da un lato, ha portato quasi al collasso le finanze pubbliche, dall'altro ha deresponsabilizzato gli individui, con effetti fortemente negativi sulla loro capacità di iniziativa, di risparmio, e sui loro stessi valori, primo fra tutti il senso della collettività.
Oggi si cominciano a porre le basi per un rapporto diverso, un rapporto più chiaro e più trasparente, in cui uno Stato meno burocratico può assicurare piena tutela a chi ne ha effettivamente bisogno, mentre i cittadini tornano ad essere responsabili delle loro scelte e delle loro decisioni sul proprio futuro. Il risanamento finanziario, dunque, ha implicazioni di grande respiro per il futuro del Paese. Occorre aggiungere, peraltro, che molte altre questioni cruciali attendono di essere affrontate. Sono le questioni che riguardano, ad esempio, la riforma della pubblica amministrazione; la ridefinizione dei ruoli e delle responsabilità tra i diversi livelli del governo del Paese; il rilancio degli investimenti in infrastrutture moderne; la deregolamentazione dell'economia, la valorizzazione di una risorsa dimenticata come il Mezzogiorno.
Grande rilievo riveste, in quest'ambito, il processo di privatizzazione che, dopo uno slancio iniziale, sembra essersi arrestato. Esso va ripreso con vigore non solo per ridare efficienza e competitività di lungo termine al sistema Paese, ma in molti casi anche per assicurare possibilità di sopravvivenza a imprese che non possono più godere di protezione rispetto alla concorrenza internazionale. In particolare, la privatizzazione delle aziende bancarie, ancora per larga parte in mano pubblica, costituirà un passaggio essenziale per favorire lo sviluppo di un sistema produttivo più efficiente. Gli istituti di credito privatizzati, infatti, ora che le norme hanno reso possibile anche in Italia la creazione della banca universale, possono svolgere un ruolo strategico di perno per la crescita delle imprese.
Gli impegni che ci attendono sono dunque ancora molto severi. Diciamo, però, che difficilmente potremo affrontarli se non restituiremo spazio alla politica, quella vera, quella che è capace di coniugare passione e serenità, concretezza e visione di lungo termine. Il nostro Paese sta ancora attraversando una fase di transizione complessa e delicata. Ma benché la situazione politica non abbia ancora trovato un suo punto di equilibrio, l'economia italiana manifesta segni di grande vitalità. Questi segni vanno colti, consolidati, trasformati in occasione di sviluppo.
Sprecare questo momento sarebbe un fatto grave, soprattutto perché significherebbe perdere l'opportunità di dare un lavoro ai giovani, che sono quelli che più hanno sofferto le conseguenze della lunga crisi di questi ultimi anni.
L'avvenire è una conquista che ci dobbiamo costruire giorno dopo giorno, con molto lavoro, ognuno svolgendo al meglio il proprio ruolo e recuperando un più forte senso di responsabilità e un senso dello Stato da Paese moderno e avanzato quale vogliamo essere.


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