§ SUD E LAVORO

SMANTELLARE




Mariano D'Antonio



Gli Uffici di collocamento, alle dipendenze del ministero del Lavoro, sono stati finora organismi burocratici che assegnavano finte garanzie alle persone in cerca di occupazione. Difatti, come dimostra l'esperienza compiuta nelle regioni più afflitte dalla disoccupazione, cioè nelle regioni del Mezzogiorno, questi uffici non sempre hanno saputo assolvere neppure a tali adempimenti formali.
Perciò, a mio avviso, il collocamento andrebbe sbaraccato e al suo posto introdotto un sistema centrato sulla trasmissione di informazioni attendibili a chi offre e a chi domanda lavoro. Che tale sistema sia affidato, con opportuni accorgimenti disciplinari, ad agenzie private, è una delle eventualità da prendere in considerazione.
Veniamo al lavoro interinale. Esso può essere applicato a qualunque fascia di persone (di alta, di media e di bassa qualifica) che cerchino un'occupazione. Meglio istituzionalizzarlo, anziché affidarsi, come oggi accade, all'impiego "nero" nelle imprese sommerse. Fra l'altro, forme di occupazione flessibile e adeguatamente regolamentata "ripulirebbero" il mercato del lavoro di tutte quelle situazioni ibride - come la seconda attività non dichiarata di cassintegrati e di lavoratori in mobilità - che distruggono anziché creare opportunità di impiego decente.
Non mi pare che riducendosi la fiscalizzazione degli oneri sociali si determini un'alternativa tanto drammatica, da produrre un nuovo squilibrio nel costo del lavoro. Non dimentichiamo che si è trattato di un'imposizione dell'Unione Europea, cioè di un atto dovuto in funzione dell'armonizzazione delle nostre con le norme europee. Negli anni Ottanta l'industria manifatturiera delle regioni più deboli ha recuperato in produttività, sicché la preesistente fiscalizzazione generava una piccola rendita di posizione a molti imprenditori del Mezzogiorno e ad altrettanti "Investitori" nel Mezzogiorno. La via d'uscita alla ridotta fiscalizzazione sta dunque nello sforzo di accrescere l'efficienza organizzativa delle imprese. Si è detto in passato che la fiscalizzazione compensava i sovraccosti che le imprese meridionali sostenevano per le diseconomie ambientali, cioè per la mancanza di infrastrutture. Lo stesso discorso si è fatto per gli incentivi finanziari erogati dal vecchio intervento straordinario e ora ridimensionati dalla nuova politica regionale.
Questo è, a mio avviso, un argomento insostenibile: una compensazione pecuniaria diretta o indiretta in cambio di deboli infrastrutture non ha risolto il problema, non ha cioè indotto i pubblici poteri ad attrezzare adeguatamente il territorio meridionale. Anzi, né lavoratori, né imprenditori sindacalizzati hanno premuto per l'adeguamento infrastrutturale. Tanto c'erano gli incentivi finanziari e parafiscali...
Quanto alla cosiddetta regionalizzazione del costo del lavoro, personalmente sono favorevole a dare maggiore spazio alla contrattazione salariale decentrata che, facendo salvo un salarlo minimo contrattuale fissato su scala nazionale (e non superiore ai due terzi della paga lorda complessiva), permetta a sindacati e a imprenditori di collegare (per l'altro terzo o più della paga lorda) la retribuzione al rendimento specifico dell'impresa specifica.
Per quel che riguarda il minor numero di vincoli ai licenziamenti per contribuire alla maggiore fluidità del mercato del lavoro e per rendere mediamente più brevi i periodi di disoccupazione, la mia risposta è affermativa, a condizione che si avvii veramente un grande impegno per la formazione e per la riqualificazione dei lavoratori spiazzati, cioè licenziati, affinché siano in grado di reinserirsi nella produzione.
Infine, non credo che ci siano alternative alla flessibilità del mercato del lavoro. Torno, però, sulla questione della formazione professionale. E' questo, secondo me, il grande campo di attività, ancora inesplorato, degli enti pubblici territoriali (le Regioni), che finora hanno mancato ai loro compiti istituzionali. Una flessibilità del lavoro priva di strumenti formativi adeguati è un eufemismo per dire del passaggio dall'occupazione alla disoccupazione di lunga durata. Per questo motivo i lavoratori avversano la flessibilità. La vedono come una trappola. Peraltro, con la diffusione di nuove tecnologie anche nei servizi, con il rivoluzionamento dei metodi di gestione sempre più orientati alla qualità, lasciare indifesi operai e impiegati spiazzati dal progresso tecnico-organizzativo, lasciarli privi di un'opportunità di seria, impegnata (e anche ardua) riqualificazione è delittuoso.


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