§ SUD E LAVORO

QUALE DEREGULATION




Sergio D'Antoni



I compiti del collocamento pubblico sono stati già ridimensionati dall'introduzione della chiamata nominativa. Non è più tempo di monopoli. Questa materia deve essere sempre più affidata alla trattativa delle parti sociali. Il pubblico deve sempre più limitarsi a garantire che il rapporto si svolga con criteri di imparzialità e di trasparenza. Le strutture pubbliche, poi, devono svolgere una politica attiva: per la formazione, che aiuti l'incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Negli altri Paesi europei, la soluzione del lavoro interinale non ha prodotto risultati esaltanti. Noi non dobbiamo ripetere gli stessi errori. E abbiamo indicato la soluzione: è stata scritta negli accordi di luglio '93, e va rispettata. Va applicata. Bisogna evitare la deregolamentazione "selvaggia" del mercato del lavoro. E chiediamo precise garanzie contrattuali nell'uso del lavoro interinale. Siamo contrari ad ogni gestione di tipo unilaterale di questa materia, perchè provocherebbe disparità insostenibili, sul piano economico e su quello giuridico.
Per la questione dell'azzeramento della fiscalizzazione degli oneri sociali, siamo molto preoccupati: e il Mezzogiorno, in questa situazione, è l'area più a rischio. Ci vogliono misure di flessibilità contrattuale, come il salario d'ingresso, e un forte sostegno alla domanda pubblica con iniziative industriali che diano lavoro ai giovani, potenziando la formazione professionale.
In questo senso va orientata anche la scuola, riducendo la distanza che la separa dalla reale situazione del lavoro, dell'evoluzione tecnologica, delle esigenze produttive.
Noi riconosciamo che la flessibilità è un elemento negoziale per regolare il mercato del lavoro. Ma la presunta "liberalizzazione" non risolve l'esigenza di dare piena occupazione. Sappiamo tutti che cosa è accaduto in Inghilterra, o negli Stati Uniti, assecondando le "teorie" degli ultraliberisti e dei magnificatori delle virtù automatiche del mercato. La "libertà di licenziare" indiscriminata è un rischio da evitare. Noi vogliamo farlo puntando a politiche attive per la formazione dei lavoratori, in un arco di tempo lungo (dalla scuola, al lavoro, ai periodi di mobilità, alle diverse forme di uscita dal lavoro). Non si tratta dunque di segmentare, moltiplicandoli, i periodi di disoccupazione: si tratta di vedere in che modo si utilizza il tempo di assenza dal lavoro, in termini di riqualificazione al passo con le nuove tecnologie e forme di organizzazione produttiva. La stessa flessibilità non è un toccasana. Ci sono altre vie. La crisi che stiamo attraversando non è ciclica, ma strutturale. Anche per questo motivo, insistiamo sull'importanza di non disperdere il capitale umano lavorativo, puntando a ridurre la sua durata, o a distribuirla. La ricchezza crescente si deve redistribuire in modo più equo. A un lavoro che non c'è, si deve sostituire una prospettiva di tempi e stili di vita diversi, e di solidarietà. Per questo per noi è centrale una politica degli orari. C'è manodopera eccedente. Si facciano contratti di solidarietà. E poi si metta in campo una strategia più articolata del tempo di lavoro, in sintonia con le indicazioni contenute nel "libro bianco" di Delors, di grande importanza per tutta la Comunità europea. Naturalmente, questo insieme di problemi reclama un'attenzione politica complessiva, "di governo". Perché di primaria necessità sono le politiche per la formazione, i piani di ricerca e i progetti relativi all'occupazione e allo sviluppo.


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