§ PRIMO PIANO

QUALE SUD




Sergio Zavoli



Il passato del Mezzogiorno non è mai passato del tutto. La sua storia, pur svolgendosi in un processo di cambiamenti anche vistosi, appare immutabile nel mostrare l'impronta di una condizione, parrebbe, immutabile: l'emergenza. Di che cosa si tratta? Degli effetti gravi, materiali e psicologici, prodotti da una "diversità" di cui il Sud continua a patire l'indomabile natura e, insieme, l'incoercibile logica, cioè dallo scarto sociale ed economico che divide il Nord dal Meridione d'Italia. In una bella recensione al citatissimo saggio di Luciano Cafagna Nord e Sud, Roberto Zavaglia ne coglie il senso più originale e suggestivo ricordandoci che questo divario ha un aspetto anche positivo: è infatti capace di generare a sua volta una serie di risposte, tali da conferire a "talune arretratezze del Mezzogiorno una sorta di attitudine difensiva nei confronti delle tendenze omologanti consolidatesi in tutto l'Occidente". Che vuol dire? Che dobbiamo tenerci i nostri guai e per giunta sentirei consolati dalla loro peculiarità e magari tutelarli, quasi fossero, per paradosso, dei privilegi? Qui è Cafagna stesso a chiarirci che, sebbene egli non creda utile uno sviluppo realizzato in forme uguali nell'intero Paese, in nome di una ineludibile "contemporaneità universale" occorre riconoscere che "non si può evitare di fare i conti con l'industrializzazione o almeno, ammesso che sia separatamente possibile, con la post-industrializzazione" di oltre un terzo del territorio nazionale, cioè il Sud.
E allora, come deve esistere, utilmente, il diverso? In "un soddisfacente scambio paritario di diversità però vendibili", spiega Cafagna, che parla con il suo linguaggio specialistico. Ma Zavaglia ci viene incontro, riassumendo così: "Le singole vocazioni vanno rispettate, pur scontando che esse debbano armonizzarsi funzionalmente a una crescita globale". Meno male! Già, a complicarci la vita, aveva provveduto quel meridionalismo che Cafagna, lucidamente, definisce "d'impostazione rivendicativa e risarcitoria", cui uno Stato colmo di rimorsi, deciso a placarli, ha risposto con cospicui stanziamenti di spesa da cui è derivato uno sperpero di proporzioni epiche: senza dire, come non bastasse, che su quel fiume di denaro ha prosperato la più grandiosa, capillare e radicata catena di illegalità che l'Europa conosca e che il Sud dovrà tenersi non sappiamo per quanto tempo.
Pochi, a questo riguardo, sollevano una questione di etica pubblica, sociale e culturale. Eppure essa va posta nei confronti di una classe dirigente che per rispondere alla chiamata della Storia - così declamano i burocrati della politica, ma in realtà per cavarsela con il più facile, ingannevole e inquietante sistema di interventi assistenziali -ha istituito una diversità né difendibile né governabile, e men che meno "vendibile" in funzione dell'interesse nazionale. Tutto ciò che si è fatto nel Mezzogiorno in nome di una crescita equamente devoluta all'intera comunità nazionale, per le forme in cui è stato elargito, non poteva che rivelarsi un'omologazione fittizia nei contenuti e spesso dannosa negli effetti. E se questo sembrasse appartenere a ieri, mentre ora si chiama il Paese a un unico sforzo in vista di un unico destino promuovendo il Sud alla condivisione di tanta fatica, di tanto merito e, ciò che suona più falso, di tanti benefici, occorre abbandonare non solo quell'idea di diversità che nel Sud ha prodotto uno sciupio e clientela, pigrizia e trasgressione, ma anche quell'idea di eguaglianza che perpetua l'alibi dei riconoscimenti in astratto, mai calati nella realtà.
Ho già scritto, e lo confermo, che non può dolerci la scomparsa del ministero per il Mezzogiorno. Occorre però aggiungere che nemmeno c'è da rallegrarsi del modo generico con cui si è inteso rassicurare il Sud a proposito delle sue perduranti e persino aumentate difficoltà. Esse non sono uguali da regione a regione: si va da livelli di intraprendenza che non sfigurano rispetto agli esempi dell'Europa più prospera, come l'Abruzzo e la Puglia, a pericolosi fenomeni di smantellamento industriale, specie in Campania, Sicilia e Calabria, senza che niente subentri a ciò che scompare e si creino nuove opportunità d'impresa e di lavoro. Gli interventi possibili, non assistenzialistici alla vecchia maniera, ma tali da rimettere in moto le attività produttive, vanno calibrati caso per caso. Si è parlato di una rete d'iniziative locali, e dal basso, cui il governo può e deve dare incentivi, appoggio, coordinamento, e misure legislative quando esse siano opportune. Ma gli imprenditori, i rappresentanti politici e i nuovi sindaci dovranno intendersi tra loro, avanzare proposte e adoperarsi perché vengano accolte e correttamente realizzate. Difficile, e tuttavia necessario. Alle ragioni del rimorso, se pure c'è, va infatti aggiunto il lascito pesante di una politica che ha via via indebolito il Sud proprio nel momento in cui proclamava di sostenerlo istituendo la giustificazione e il metodo della "straordinarietà" dei problemi e delle possibili soluzioni, anziché cogliere l'ordinarietà di un collasso, non soltanto materiale, cui l'intero sistema aveva messo mano. Confondere i consumi con il benessere e il benessere con lo sviluppo non ha significato, specie nel Sud, ridistribuire risorse e opportunità; né per rimediare al guasto basta contentarsi della diversità concependola nel suo significato più benigno, ad esempio affidandone le sorti al bergamotto e all'industria delle vacanze!
Il Sud sarà finalmente diverso, senza che ciò significhi restare indietro, e in subordine, soltanto a patto che la diversità diventi un argomento, e non un alibi, del nuovo. Ora, quest'idea del Sud vocato a vendere le sue bellezze ai turisti mi ricorda, sebbene il nesso sia incongruo e persino ridicolo, il proposito hitleriano di affidare all'Italia, dopo il trionfo dell'Asse, la semina del grano e una sterminata catena alberghiera al servizio di un'Europa altrimenti affaccendata. Non chiudiamo gli occhi dinanzi alla realtà: occorre che il nuovo, nel Mezzogiorno, per esso e per l'Italia, nasca anzitutto da una rivoluzione culturale che scoraggi e sgomini quaggiù, prima che altrove, progetti fondati sulle eredità genetiche, sulle classificazioni lambrosiane, sui beni naturali, su un grande, servile, pigro terziario senza altro presupposto che le tipicità, vere e false, del territorio.
Occorre un risveglio che corrisponda non al sole e al mare, o alla genialità spicciola e inconcludente, ma alla voglia di esistere come luogo centrale della crescita nazionale. I segni, sul posto, ci sono. Aspettiamo anche quelli di fuori.


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