§ IL CORSIVO

RI-SMEMORANDA




Aldo Bello



Il 9 settembre 1494 Carlo VIII di Francia entrò nella città di Asti, dopo avere scalato le Alpi, ripercorrendo con difficoltà di gran lunga minori la strada che diciassette secoli prima era stata seguita dal formidabile esercito di Annibale. I suoi soldati cantavano: "Nous conquérerons les Italies", noi conquisteremo le Italie, esprimendo in questo modo due semplici e fondamentali convinzioni: quella della loro sicura vittoria, e l'altra, delle molteplici divisioni caratteristiche del Paese che avrebbero sottomesso.
L'una e l'altra si rivelarono fondate. Il Regno di Napoli, che era la loro meta ultima, lo conquistarono "col gesso", vale, a dire senza neppure dovere combattere per poter contrassegnare - col gesso, appunto - le porte degli edifici da requisire per i loro alloggiamenti. Poi dovettero tornarsene in patria e l'avventura del loro re nella "fatal penisola" rischiò di concludersi piuttosto male. Imprevedibilmente, "les Italies" si erano messe d'accordo, e lo restarono quel poco o quel tanto che fu sufficiente a far svanire i sogni di gloria del giovane re gallico. Ma non più di quel tanto, mentre la lacerazione apportata da Carlo VIII al sistema politico italiano non sarebbe stata più ricomposta, come fu possibile verificare solo pochi anni dopo, quando il suo successore, Luigi XII, ritentò l'impresa.
E la rinnovò, quell'impresa, di concerto dapprima con i sovrani di Spagna, poi in guerra con loro. Guerra che si sarebbe protratta per decenni, riducendo l'Italia così come la vide Machiavelli: "Senza capo, senza ordine, battuta, spogliata, lacerata, corsa", vittima "d'ogni sorte ruina". Alla fine di quegli sterminii, sarebbe iniziata quella dipendenza della penisola da sovrani stranieri che sarebbe continuata per secoli, giungendo fino a Napoleone e all'imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe. Perciò Guicciardini avrebbe definito il 1494 "anno primo degli anni miserabili^ di cui fu lo storico alto e austero.
Ci brucia ancora il 1494? Il ricordo delle "Italies" è imbarazzante, mentre si parla di separatismi, di secessioni e di altre corbellerie che sottendono la disarticolazione dell'Italia "una e indivisibile"? O forse ancora ci si preoccupa che, dietro l'ombra di Carlo VIII, finisca per profilarsi quella di Ludovico il Moro che, primo fra gli altri nostrani, la tradizione incolpa delle rovine d'Italia; e che, quindi, secondo un illustre costume italico, i peggiori e più pericolosi nemici nostri li dobbiamo sempre cercare tra noi?
Sta di fatto che, dopo le celebrazioni del 1492, di Colombo e della scoperta del Nuovo Mondo, con tutte le polemiche che ne sono emerse, sarebbe stato salutare ricordarsi anche del 1494 e di Carlo VIII. Certo, si sarebbe dovuto parlare anche, se non proprio principalmente, di Ludovico Sforza, di Venezia, della Toscana, di papa Alessandro VI (Rodrigo de Borja, un Borgia!), e del Regno di Napoli. Certo, ci saremmo rinfrescata la memoria sul Moro (da moron, il gelso, appena introdotto in Lombardia) e sul suo incoraggiamento a Carlo VIII a scendere in Italia, e sui nuovi voltafaccia, sui suoi avvelenamenti, sulle condanne a morte che reclamò contro saggi ministri e sui confinamenti che decretò; anche in questo, come nello splendore della sua corte, principe rinascimentale a pieno titolo: nello stesso tempo usurpatore e mecenate, tiranno e sottile diplomatico. Ma disposto a tutto in nome e per conto del proprio potere. Persino a far falsificare la storia.
Attendiamo, in proposito, lumi sulla vittoria dei Comuni sul Barbarossa. Fu vera gloria? Certamente, fu leggenda costruita attorno alla battaglia di Legnano. E infatti, non fu il giuramento di Pontida un'invenzione dello storico di Ludovico il Moro, Bernardino Corio? Rivediamo criticamente, e sinteticamente, alcune circostanze. E' accertato che Federico Barbarossa cercava un accomodamento, o un compromesso, con i Comuni italiani. Non cercava la guerra, dal momento che aveva già le sue beghe da sistemare in Germania. Ma papa Alessandro III, ansioso di mettere le, mani sull'eredità di Matilde di Canossa, glieli aizzò contro. Tant'è che, dopo la sconfitta dell'imperatore, giunse a un accordo personale (oggi si direbbe: una pace separata) con lui. E a Venezia e a Milano giustamente gridarono per le strade che il papa era un traditore.
In realtà, Legnano non ebbe niente a che fare col Barbarossa e con i Comuni. La battaglia avvenne a Borsano, alla periferia di Busto Arsizio. E più che di una battaglia, si trattò di un agguato: vi presero parte quattromila cavalieri di parte imperiale, pochissimi dei quali erano tedeschi: per la più gran parte si trattava di comaschi, che odiavano tanto i milanesi da farsi trucidare sul posto piuttosto che arrendersi ai dodicimila di parte comunale. Erano, quindi, tre contro uno.
Altro che immagini del Carroccio imbandierato e circondato da guerrieri, col prete che celebrava la messa e invocava l'aiuto del cielo, come ci hanno tramandato le oleografie dei libri di storia medioevale; altro che il fantomatico Alberto di Giussano, celebrato dal Carducci! L'imboscata di Borsano fu una barbara ecatombe che non sottintendeva alcun fine ideale, ma soltanto enormi interessi materiali e strategie politico-territoriali disgreganti. Da quel giorno l'Italia divenne un'espressione geografica. E' bene non dimenticarlo. E' bene non scordare che l'infelicità degli italiani, i paralleli che ancora oggi spaccano in due o in tre il Paese, gli accaniti campanili che continuano a fronteggiarsi più che a confinare, hanno avuto origine e fondamento anche sulle artificiose leggende dietro le quali si agitavano ben altre realtà. Chissà se tutto questo lo sa, o riesce a immaginarlo, quel tal Luca Leoni Orsenigo, sventolatore di un nodo scorsoio nell'aula di Montecitorio, carrocciano della prima ora, che fra l'altro aveva denunciato al fisco 42 milioni di reddito annuo, e possedeva 42 appartamenti. Nell'Italia del Nord, e non in Bangladesh.
Si può obiettare: i falsari spesso hanno fatto la Storia. Ed è vero. In un mondo dominato dai mezzi di comunicazione di massa, in cui tutti senza esclusione - e senza pudore - si sentono nel diritto di esprimere i loro bla-bla su tutto e su chiunque, irrobustendo dall'alto di un'orrenda ignoranza la tela di ragno del pensiero debole, per lo meno quello dei grandi falsificatori di documenti storici è stato, e continua ad essere, a modo suo, un "lavoro scientifico", che presuppone profonde conoscenze di storia, di politica, di diplomazia, di giurisprudenza. Sono artisti eccentrici, creatori "in negativo". Sono come le cave di tufo, che a chi abbia un minimo di fantasia prospettano - a rovescio, non in altezza ma in profondità - palazzi e cattedrali e interi paesi: qui realizzati in astratto, nel vuoto; e più in là, sulla superficie della terra, innalzati in concreto, nella pienezza del loro essere. E tuttavia, l'astratto e il concreto determinanti la trasformazione paesaggistica, urbanistica, che ci dà la lettura in chiaro di una civiltà. Allo stesso modo, l'opera dei falsari. Facciamo qualche esempio.
A un amico di Stoccarda che si preoccupava della sua salute, non molto tempo fa Konrad Fischer, alias Konrad Kujau, quarantaquattrenne rigattiere con la passione per il collezionismo di cimeli nazisti, confessò con candore: - Sono di fatto molto stanco. Scrivo dalla mattina alla sera -. Fischer Kujau era infatti l'autore dei sessantadue volumi di false memorie di Hitler, venduti al settimanale "Stern" per nove milioni di marchi. Un'opera gigantesca e una truffa colossale che oggi permette al falsario di riposarsi nel Caribe o in qualche altro angolo del pianeta. In un certo senso, un fortunato, perché i suoi falsi non hanno determinato, come spesso è accaduto, guerre, suicidi, prigioni e persino sconvolgimenti planetari.
Il falso più nefasto della storia moderna fu il celebre "bordereau", la noterella fabbricata da un gruppo di ufficiali francesi antisemiti per incolpare di tradimento il capitano dello Stato Maggiore Alfred Dreyfus, un israelita alsaziano. Condannato all'ergastolo alla Caienna, pubblicamente degradato, vituperato dai colpevolisti e osannato dagli innocentisti, infine riabilitato e reintegrato nell'esercito, Dreyfus divise la Francia e l'Europa per oltre mezzo secolo. Al suo processo a Parigi era presente un giornalista viennese, Theodor HerzI, il quale si convinse che gli israeliti non sarebbero stati sicuri senza un loro Stato: il che portò alla fondazione del movimento sionista e, infine, alla nascita di Israele.
Il "bordereau" non fu l'unico falso contro gli ebrei. Nel 1903 apparve nella Russia zarista un libello dal titolo Protocolli dei Savii di Sion. Nessuno vi chiariva dove, come e quando questi maggiorenti ebraici si fossero riuniti, ma lo scopo del vertice era ben illustrato: sovvertire il mondo, impadronirsi di tutte le leve del potere internazionale, preannunciare l'avvento dell'Anticristo. Va a onore dello zar Nicola II l'aver definito l'opuscolo "una calunnia", ma gli autori erano i suoi stessi scagnozzi dell'Ochrana, la polizia segreta zarista. Solo nel 1921 venne alla luce la prima fonte di tanta menzogna: un romanzetto antisemita, Biarritz, scritto nel 1868 dal tedesco Hermann Goedsche con lo pseudonimo di Sir John Retcliffe. Tuttavia, proprio agli inizi degli anni '20 i Protocolli furono in qualche maniera autenticati dalla rivista "Indipendent" del magnate americano Henry Ford. Nel 1933, anno della presa del potere in Germania da parte dei nazisti, i tedeschi sfornarono ben trentatre edizioni.
In fatto di falsi pericolosissimi, anche l'Italia è stata terra fertile. Nel 754, per esempio, papa Stendono II produsse un documento, "Constitutum Constantini" o Donazione di Costantino, che avrebbe avvelenato i rapporti tra Chiesa e potere statale italiano e internazionale praticamente fino al 1870, anno della presa di Roma, dopo la breccia di Porta Pia.
Narrava, la Donazione, che il grande imperatore, convertitosi al Cristianesimo nel 312, avrebbe abbandonato Roma per trasferirsi a Bisanzio nel 324, non ritenendosi degno di regnare là dove già regnava il successore di Pietro. Prima di lasciare l'Italia, Costantino avrebbe fatto dono al pontefice dell'intera penisola, oltre che di tutti i Paesi dell'emisfero occidentale. Di qui, secoli di guerre per le investiture e di scontri, il più delle volte armati, tra Papato e Impero. Spettò ai grandi umanisti Niccolò da Cusa e Lorenzo Valla smascherare l'imbroglio con un'analisi del latino medioevale che sicuramente non era quello aulico di Costantino e dei suoi scribi. Questo avveniva nel 1517, l'anno in cui Martin Lutero proclamava le celebri novantacinque tesi del dissenso da Roma.
Altrettanto denso di conseguenze, questa volta non politiche o religiose, fu un illustre falso presentato a Londra nel 1760 dallo scozzese James Macpherson. Il titolo era chilometrico: Frammenti d'antica poesia raccolti nelle Highlands di Scozia e tradotti dal gaelico o dall'Irlandese. L'autore sarebbe stato Ossian, un mitico bardo vissuto nel III secolo dell'era volgare. Era l'inizio della letteratura romantica anglosassone e in seguito di quella dell'intera Europa. Napoleone e Goethe tennero l'illegittimo Ossian in gran pregio, nonostante le prove di falso addotte da Samuel Johnson, il maggior letterato inglese del XVIII secolo.
Di tutti i falsi, comunque, forse i più audaci furono compilati in epoca moderna. Il primo a Vercelli, nel 1957, ad opera di due signore, madre e figlia, Rosa e Amalia Panvini, che riuscirono a rifilare all'americano "Life" e al "Corriere della Sera" nientemeno che le memorie di Mussolini. Quaderni e inchiostri d'epoca, calligrafia perfettamente mussoliniana: le memorie corbellarono in un primo tempo persino Vittorio Mussolini, l'ottimo jazzista, figlio del Duce. Solo più tardi l'inganno venne a galla e le due signore rischiarono la galera. Sentenziò un esperto calligrafo dell'università di Losanna: "Queste memorie saranno opera di un falsario, ma un falsario di genio". Nel frattempo, ignaro della vertenza, l'inglese "Sunday Times" aveva sborsato per la pubblicazione (mai avvenuta) 71.400 dollari. E ancora oggi, a oltre settant'anni di età, Amalia Panvini continua a sostenere che i documenti vennero consegnati a suo padre da un gerarca in fuga negli ultimi giorni di guerra.
L'altro grande avventuriero moderno del falso fu il free-lance newyorkese Clifford Irving, che nel 1971 convinse gli editori della McGraw-Hill di aver collaborato alla stesura della biografia del miliardario americano Howard Hughes, da tempo recluso in volontario esilio in una clinica asettica dell'America Centrale, ma pur sempre vivo. Ottenne 750 mila dollari che furono versati in un conto in Svizzera. Ma benché agonizzante, Hughes ebbe il tempo di denunciare l'impostore. Per Irving si aprirono le porte della prigione, dapprima in Svizzera, poi negli Stati Uniti.
Morale: è fuor di dubbio che, prima o poi, tutti i nodi dei falsari vengono al pettine. Quel che è tragicomico è che i miti e gli imbrogli dei falsi persistono, convincono spesso più della verità: e sulle loro basi si possono costruire fortune politiche o economiche, si possono deviare corsi della storia e complicare vicende, umane singole e collettive. Modesta proposta per prevenire: perché, nel '96, in quel di maggio genetliaco della cosiddetta "battaglia di Legnano", non si conia una medaglia, con la Compagnia del Carroccio da una parte, e con la Compagnia della Morte sull'altra faccia, dedicandola al falso storico? Un po' di ironia, con i tempi che corrono, non guasterebbe.
Non si tratta di riscrivere la storia, perché questo significherebbe presumere che ci sia un gran libro con le verità già impresse. Indispensabile, e giusto, è invece rivedere e risistemare. Cioè far sparire le bugie e, possibilmente, le ambiguità. Esempi: ma chi distrusse l'Invincibile Armada, gli inglesi, cose sostengono a Londra, o gli olandesi, come studiano ad Amsterdam, o infine la furia del mare, come affermano a Madrid? Il dubbio e legittimo. Ma ci sono altre "storie" che vanno conclamate: non è vero che il Fascismo cadde ad opera degli italiani antifascisti, ma perché gli alleati vinsero la guerra. Non è vero che la svolta di Salerno fu opera di un colpo d'ala di Togliatti, ma perché così aveva deciso l'Unione Sovietica. Non è vero che la democrazia tornò in Italia per scelta nazionale, ma perché così voleva il gioco delle parti nazionali. Non è vero che l'Italia repubblicana e, figlia soltanto della Resistenza, fu soprattutto figlia della catastrofica fine del Fascismo. Non è vero che il Fascismo sia stato espressione di una grande corrente unicamente di destra, occorre rivedere i fermenti che dal Risorgimento vanno alle ancora oggi inguarite ferite del 1915-18, all'imperialismo e alla questione sociale, per capire e chiarire una volta per tutte che nel Fascismo confluirono tanto i travagli della destra quanto quelli della sinistra, questioni come il nazionalismo e come il sindacalismo rivoluzionario. Non è vero che la Resistenza fu solo lotta di liberazione e di classe, fu anche una feroce guerra fratricida alla quale non furono estranei omicidi, vendette, ritorsioni personali e di parte. E, infine, non è vero che da noi letteratura e politica, o meglio ancora, tradizione letteraria e tradizione politica siano più chiaramente leggibili per la continuità; semmai, per la frattura che le caratterizza: essendo indicative non tanto di una prospettiva unitaria, quanto di una municipalistica: meno vicine a Francesco De Sanctis, più vicine a Niccolò Machiavelli. Non a caso il poema cavalleresco, da Boiardo all'Ariosto, a Tasso, si sviluppò tutto nella realtà storica del piccolo ducato estense. La cavalleria feudale ebbe da noi un ruolo minore rispetto alla Francia e alla Spagna. Da noi il modello era quello delle culture municipali. Tant'è che Croce, già nel 1936, affermava che di una storia d'Italia anteriore al processo unitario del Risorgimento non fosse il caso di parlare, dal momento che essa si risolveva nella varia storia delle singole unità politiche in cui l'Italia per secoli era stata divisa.
Basta andarsi a vedere la collezione di Statuti nella biblioteca del Senato per farsi un'idea più precisa duna realtà frazionata in una geografia municipale.
Se la geografia ci divide, che cosa ci unisce?
Senz'altro, la cattiva fama, figlia bastarda della storia. Ci uniscono le "machiavellerie", vale a dire la grande intelligenza che fu propria dell'autore del Principe, non disgiunta dalla sua marioleria così italicamente esemplare. Le testimonianze vengono anche da lontano. Nella quattrocentesca Orazione ai nobili di Lucca di Giovanni Guidiccioni è fin troppo emblematica la lettura di certi difetti nazionali, dal tempo dei Comuni ai giorni di Tangentopoli. Vi si ragiona "dei mille sconci interessi e mille aperte rubberie", del rapporto tra governanti e governati, del cinismo delle classi dirigenti.
Allora? Che cosa può mai coglierci di sorpresa? Gli inganni, le falsificazioni, le "rubberie"? E quando qualcuno insegnerà, ai giovani soprattutto, che quasi sempre da noi la storia vede soltanto se stessa e si dimentica che è fatta dalla gente che conserva un'altra memoria delle cose e delle vicende? Chi, raccontando la storia, servirà la storia? Forse ha ragione Ruggero Guarini, quando dice che sia essa "magistra" (Cicerone), il racconto senza senso di un idiota (Shakespeare) o un lungo incubo (Joyce), la storia può metterla a posto solo chi si congeda da lei, chi fugge via, chi la manda a farsi benedire. Chi la scorbacchia. Chi intuisce che il passato non va soltanto saputo, ma sentito. Chi la rende leggibile interrogando chi l'ha vissuta in prima persona. Infine, chi si serve dell'intelligenza, e manda in soffitta le antiche mariolerie.


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