§ Segni dei tempi

Apocalisse domani




Ada Provenzano, Flavio Albini, Bruno A. Cordero
Coll.: Franco Rey, Carlo Mastria, Aldo Malaspina, Giorgia Cordier



NEO-MILLENARISMO
Il primo ad aver portato alla luce i nuovi umori è stato un filosofo anomalo e solitario, Sergio Quinzio, che ha parlato dell'emergenza ambientale in modo assai diverso da come avevano fatto in precedenza commentatori e socialisti. Per le loro dimensioni, per la loro complessità, e soprattutto per le loro interconnessioni su scala mondiale, i guasti che oggi ci minacciano sono unici, non hanno nulla a che vedere con le catastrofi che in passato hanno colpito l'umanità, ha scritto Quinzio, rifacendosi ad allarmi come quello lanciato dal World Watch Institute di Washington. Ma le conclusioni che Quinzio ha tratto sono del tutto diverse: "Se l'inquinamento dell'aria cresce, se la siccità e le inondazioni sembrano seguirsi senza più regole, se le foreste scompaiono e il deserto avanza, se il buco dell'ozono si allarga, tutto insieme incalzando, siamo davvero sicuri che a tutto questo esista un rimedio a portata di mano, da applicare concordi a tutto il pianeta entro i tempi brevi in cui sarebbe necessario? Credo che sia lecito, anzi doveroso dubitarne". Ecco chiaramente sintetizzati i timori di catastrofe imminente che tormentano tanti "uomini stradali" di questa fine millennio; e resi chiari e razionali stati d'animo su cui non si è ancora riflettuto abbastanza. Ad esempio, la sfiducia nella scienza, avvertita come qualcosa che ormai è sfuggita di mano all'uomo. Sfiducia che fra l'altro è la causa profonda di comportamenti collettivi recenti, come il voto contro le centrali al referendum sul nucleare. Quinzio dice, citando Heidegger: "Solo un Dio ci può salvare", solo il pettine di Dio può sciogliere i nodi inestricabili che l'uomo ha procurato. Nessuno, se non gli uomini stessi, può salvare il mondo e l'umanità, dice Norberto Bobbio. Bisogna resistere alla tentazione di arrendersi dinanzi ai problemi dell'ambiente, anche perché le risorse disponibili non sono state mai così grandi, precisa il sociologo Luciano Gallino. Il dibattito è aperto.
Bobbio ammette che "la fiducia nel progresso inarrestabile che aveva ispirato per secoli le filosofie della storia dell'Occidente è esaurita", anzi è stata fatta colare a picco dall'uso a fin di male della scienza e della tecnica, dall'accrescersi delle disuguaglianze tra Paesi sempre più ricchi e Paesi sempre più poveri, dal fallimento della rivoluzione: "Io non ho alcuna certezza del futuro", confessa Bobbio, e cita Pascal: "Noi corriamo spensierati verso l'abisso dopo esserci messi davanti agli occhi qualche cosa che ci impedisce di vederlo".
Al catastrofismo è la malattia infantile dell'ambientalismo", accusa uno dei più noti fisici italiani, Carlo Bernardini: "Specie in Italia molti, anche fra gli intellettuali, sono arrivati tardi a prendere coscienza dei problemi dell'ambiente e questo li porta a una visione più drammatica del necessario. Allarmi come quello del rapporto del World Watch Institute, che danno dieci anni di tempo per porre rimedio ai guasti del pianeta, più che reali preannunci di catastrofi sono dei moniti lanciati dalla comunità scientifica ai governi perché si decidano ad agire". Ma si potrebbe anche osservare che quel termine di dieci anni ha un duplice volto: fra poco meno, infatti, saremo a quella fatidica scadenza di fine millennio che ha sempre evocato negli uomini immagini di distruzione e di resa finale dei conti con chi ci ha messi al mondo; e facendo un passo avanti, si può avanzare l'ipotesi che questa volta le paure e le suggestioni millenarie stanno trovando un loro sbocco concreto proprio nell'oggettiva realtà del disastro ambientale. Insomma: siamo di fronte alla nascita di un nuovo millenarismo.
Secondo Quinzio, è forse anche la tangibile minacciosità dell'aria che diventa sempre meno respirabile, dell'acqua avvelenata e del caos urbano che rende molto più cupa l'attesa di questo passaggio d'epoca: "Nell'anno Mille c'era anche molto forte una tendenza verso il futuro. Le paure erano in qualche modo il collo della bottiglia che l'umanità doveva attraversare per arrivare al nuovo. Adesso prevale una paura che non ha soltanto radici religiose, ma che tocca anche una parte considerevole della cultura laica". E a sostegno di quanto sopra, si potrebbe citare il critico letterario britannico Frank Kermode, secondo il quale la vera chiave di lettura di buona parte della letteratura contemporanea è il senso incombente di apocalisse. E si potrebbe citare la grande fioritura che si sta avendo in Germania di romanzi, saggi, poesie che hanno per argomento la catastrofe ecologica, fino e anche oltre il romanzo di Christa Wolf, I giorni dopo Chernobyl.
E' difficile negare, anche da parte di chi segue le letture più razionaliste della realtà, che l'esplosione atomica di Chernobyl non abbia rappresentato qualche cosa di profondamente nuovo, soprattutto per i giovani. Dice il cattolico-verde Giannozzo Pucci: "Sono nato poco prima dello scoppio della prima bomba atomica. Tutta la mia vita e la mia cultura, come quella di tantissimi miei coetanei, è stata segnata in modo indelebile da quella prima catastrofe e da quelle che via via si susseguivano". E cita un pensatore come Wittgenstein: "Non è insensato credere che l'era scientifica e tecnica sia l'inizio della fine dell'umanità...". E sostiene Massimo Cacciari, dalla sua casa di Venezia: "Anche se potessimo inventarci strade per far fronte alle contraddizioni in cui siamo impantanati, questo non avrebbe niente a che vedere con la salvezza. Riusciremmo semplicemente a garantire la sopravvivenza dell'esistente. Ma perpetuando questo metodo di vita, avremmo solo istituzionalizzato l'inferno".
E' una posizione non lontana da quella di Emanuele Severino, il quale da tempo predica "la negatività originaria della civiltà della tecnica". Qualche eco di questo pensiero si può trovare anche nel pensiero di Carol Wojtyla e nella stessa enciclica "Sollicitudo rei socialis", dove si riafferma la dottrina che l'uomo, non essendo una creatura come tutte le altre, ha dei diritti maggiori sul mondo, ma che allo stesso tempo deve usarlo con rispetto. Altrimenti, come diceva Giobbe, tutti gli uomini "spireranno senza neppure saperlo".

QUEL "TERZO SEGRETO"
Un segreto impastato d'Apocalisse. Un terribile castigo per l'umanità nella seconda metà del XX secolo, con lo scatenarsi di una grande guerra, la morte di milioni e milioni di uomini nel giro di poche ore, una grande divisione all'interno della Chiesa. E' questo, in sintesi, il contenuto del cosiddetto "terzo segreto" di Fatima.
In realtà è la terza parte di un segreto che i veggenti ricevettero il 13 luglio 1917 nella terza apparizione. La prima parte riguardò la visione dell'inferno, la seconda le persecuzioni scatenate dalla Russia che si sarebbe però convertita se il papa l'avesse consacrata alla Madonna. Queste due parti sono state rivelate; ma non la terza che, tuttavia, fu messa per iscritto dalla veggente superstite, Lucia, nel 1943, e ora rimane inedita e custodita negli archivi vaticani. Doveva essere rivelata dopo il 1960, ma Giovanni XXIII, dopo aver letto il testo, decise di non pubblicarlo. E così hanno fatto i suoi successori. Del segreto però fu redatta una "relazione diplomatica" e inviata, a titolo informativo, alle autorità di Washington, di Londra e di Mosca negli anni '60 perché la Santa Sede la riteneva necessaria, anzi indispensabile, alla convenzione riguardante la cessazione degli esperimenti nucleari. Il suo contenuto fu conosciuto attraverso un'indiscrezione e sostanzialmente confermato da Giovanni Paolo II in una conversazione informale con un gruppo di persone a Fulda, in Germania, durante la visita del novembre 1980. La Madonna avrebbe detto a Lucia: "Un grande castigo cadrà sul genere umano, non oggi, né domani, ma nella seconda metà del secolo XX": conversione, preghiera e penitenza sono infatti al centro dell'intero messaggio di Fatima. In questa parte del segreto si parla di "grandi prove per la Chiesa, di cardinali che si opporranno a cardinali, di vescovi a vescovi". "Satana marcerà in mezzo alle loro file e a Roma vi saranno grandi cambiamenti. La Chiesa sarà offuscata". Vi si afferma inoltre che "una grande guerra si scatenerà nella seconda metà del XX secolo" e che "fuoco e fumo cadranno dal cielo, le acque degli oceani diverranno vapori e la schiuma si innalzerà sconvolgendo e tutto affondando. Milioni e milioni di uomini periranno di ora in ora, e coloro che resteranno in vita invidieranno i morti. Da qualunque parte si volgerà lo sguardo, sarà angoscia, miseria, rovine in tutti i Paesi".
Giovanni Paolo II spiegò a Fulda che "per il suo contenuto impressionante e per non animare la forza mondiale del comunismo a certe ingerenze", i suoi predecessori preferirono la "relazione diplomatica". "Inoltre -aggiunse - dovrebbe bastare ad ogni cristiano di sapere quanto segue: quando si legge che oceani inonderanno interi continenti, che gli uomini verranno tolti dalla vita repentinamente da un minuto all'altro, e ciò a milioni, [ ... ], se si sa questo, non occorre davvero pretendere la pubblicazione di questo segreto [ ... ]. Molti vogliono sapere solo per curiosità e sensazione: ma essi dimenticano che il "sapere" porta con sé anche la responsabilità. Questo è pericoloso quando, in pari tempo, non si vuole far nulla, dicendo che non giova a nulla". A questo punto, il papa afferrò il Rosario e concluse: "Ecco la medicina contro questo male. Pregate, pregate, e non interrogate ulteriormente. Il resto, raccomandatelo alla Madonna!".

LE PAURE DI SEMPRE
Corruzione politica, crisi economica, deficit demografico, annullamento dei valori morali, decadenza culturale. E l'elenco potrebbe continuare. Sempre di più storici e filosofi europei e americani cercano, e finiscono col trovare, analogie curiose ma inquietanti tra la fine dell'Impero romano e la situazione attuale dell'Occidente industrializzato. Alcune di queste tesi sfociano nel razzismo, come quella dello storico francese François Fontaine, che vede il pericolo maggiore per Europa e Nordamerica non nell'Est, o non solo nell'Est, ma nel Sud del mondo, nei Paesi in via di sviluppo e in quelli del Terzo mondo, "prolifici e agitati" e pronti a riversare "il proprio sangue straniero", sulla società occidentale. Altri finiscono col cedere all'immagine di una lenta ma progressiva decadenza del genere umano nella storia, sicché la Fine della nostra civiltà e il ritorno alla barbarie in qualche modo preconizzata da Spengler all'inizio del secolo sono considerati inevitabili. C'è chi, addirittura, guardando all'avvicinarsi del Duemila, profetizza la fine del mondo.
Invece di farsi prendere dal pessimismo, è bene andare a verificare quelle epoche storiche che nel nostro passato più possono contenere una qualche analogia con la situazione attuale.
La fine del mondo antico fu infatti precorsa dalla grande crisi che sin dalla guerra del Peloponneso, e poi ancor più nel IV secolo a.C., travagliò il mondo greco e fu intuita da uno dei più grandi storici di tutti i tempi, Tucidide. C'è un aspetto particolarmente interessante per una coincidenza con l'oggi: nell'arco di trecento anni (dalla morte di Alessandro alla caduta degli ultimi regni ellenistici) una massa crescente di greci finì per soccombere a concezioni profondamente deprimenti (il mondo governato immutabilmente dal cieco caso, con l'uomo incapace di venir fuori dal ruolo di vittima), mentre molti altri, più speranzosi o emotivi, si aggrappano a nuovi culti mistico-pagani e misterici per dare un senso compiuto all'avventura umana. Così oggi la crescita di consenso che ottengono le sette religiose di vario tipo pare il segno di un analogo smarrimento religioso e morale.
E secondo lo storico Mazzarino, che venne accusato da più parti di essere un epigono di Spengler, ma che dimostra invece di non cedere alla moda della decadenza, non sono pochi gli elementi che provocarono la crisi dell'Impero romano e che potrebbero essere considerati presenti nel nostro secolo. E' un lungo elenco, dall'apparizione di nuovi popoli sulla scena del mondo alla presenza di mano d'opera "importata e barbara" in certe regioni (come l'agricola Etruria), dalla grave decadenza dei costumi e dalla mancanza di uomini veramente grandi (come intuì già Cicerone, e come gli umanisti italiani successivamente interpretarono) all'oppressione sociale che caratterizzava il dominio romano sui contadini delle province. A questo occorre collegare l'atteggiamento del Cristianesimo che in molti suoi iniziali pensatori faceva coincidere la fine di Roma con la fine del mondo, prendendo spunto dall'Apocalisse di San Giovanni e dalle profezie di Daniele sulle quattro monarchie che si succedono nella storia. Solo con l'andare del tempo la posizione della Chiesa mutò e si stabilì una concordia con l'Impero.
La fine di Roma venne assunta specialmente nel nostro secolo con le tragedie delle due guerre mondiali come un paradigma del presente: chi paragonò la fine dell'Impero alla caduta degli imperatori Romanoff, Absburgo, Hohenzollern, come lo storico Rostovzev, chi nella storia sociale del Basso impero ravvisò una vicenda analoga alla rivoluzione russa, come lo storico Persson. Tra il '20 e il '30 il crollo dell'Impero romano diventò quasi una pagina di storia contemporanea: "La civiltà può morire, perché essa è già morta una volta", scrisse Wilamowitz. E a volte a questa valutazione pessimistica si aggiungeva la previsione apocalittica.
Anche oggi questa "mania" millenaristica pare trovare nuovi seguaci. Secondo il filosofo Abbagnano, l'annunzio di una più o meno prossima ma inevitabile fine del mondo risuona da più parti nella nostra cultura: l'indebolimento dei valori morali, l'incapacità di risolvere il problema della fame nel mondo e la crescita degli armamenti ne costituiscono il presupposto. Distruzione, catastrofe, fine, sono termini sempre più abusati e c'è da temere che, visto che mancano pochi anni alla fine del secolo e millennio, si possano verificare fenomeni simili alle grandi paure vissute prima dell'Anno Mille.
Il millenarismo storicamente ha assunto due facce: quella annichilita di chi paventa la fine del mondo e la distruzione dell'umanità (filone che ideologicamente risale all'Apocalisse), e quella ottimista di chi sogna l'avverarsi di un nuovo mondo e il ritorno all'età dell'oro che vede come punto di partenza le profezie di Gioacchino da Fiore. Nel primo caso la storia non ha alcun senso e l'individuo non deve fare altro che attendere la catastrofe finale; nel secondo invece millenarismo è sinonimo di rivoluzione e il nuovo mondo assume i connotati di una società perfetta, quale quella che soprattutto il marxismo aveva cercato di disegnare. A differenza dell'apocalittica, dove è Dio che decide tempi e modi della fine del mondo, nella teoria e nella prassi marxiana è l'uomo che trova le risorse per attuare il mondo senza più giustizia. Così accade anche per tutte le formulazioni dell'utopia che sognano la fine dei limiti umani. Inutile dire che entrambe le prospettive si rivelano, per le parti opposte, "anticristiane" e "antistoriche". Eppure anche oggi trovano non pochi sostenitori: se la pretesa di costruire un mondo perfetto è ormai (anche drammaticamente) naufragata, la visione apocalittica incontra ovunque nuovi discepoli.
Di fronte a profezie come quelle dei telepredicatori americani o delle sette che prosperano nel Vecchio e nel Nuovo Continente, si rivelano lucide le parole di un teologo che collaborò anche a questa rivista, Italo Mancini: "Un tempo eravamo sbilanciati verso la memoria del passato, oggi siamo stregati dall'ansia per il futuro. lo sono contro il vizio di leggere le epoche storiche con la chiave del tramonto. E' quanto sosteneva Spengler, ma sulla base di queste idee Heidegger giunse ad affermare che "solo un dio può salvarci", salvo che questo dio aveva un nome, Hitler. Il catastrofismo nuoce e non è cristiano".

CULLA-TOMBA EUFRATE
"Il sesto angelo suonò la tromba, e allora intesi una voce dai quattro angoli dell'altare d'oro posto di fronte a Dio. La voce disse al sesto angelo che teneva la tromba: libera i quattro angeli incatenati presso il fiume Eufrate! I quattro angeli, preparati proprio per quell'ora, quel giorno, quel mese, quell'anno, furono liberati per uccidere un terzo degli uomini. Udii quanti erano i loro soldati a cavallo: erano duecento milioni. Cavalli e cavalieri mi apparvero vestiti di corazze, alcune rosse come di fuoco, altre azzurre come lo zaffiro, e altre gialle come lo zolfo. I cavalieri avevano teste che parevano di leoni. Fuoco, fumo e zolfo uscivano dalla loro bocca. Un terzo degli uomini fu ucciso da questi tre flagelli: dal fuoco, dal fumo, dallo zolfo, che uscivano dalla bocca dei cavalli ... ".
Questa è la Bibbia: Apocalisse, capitolo 9. L'Eufrate, il "grande fiume", simbolo della potenza babilonese, come lo chiama sempre il Libro sacro degli ebrei e dei cristiani, attraversa l'Iraq. Che cosa potrà sprigionarsi dalle rive di questo fiume? Fuoco, fumo, zolfo. Domenico del Rio traduce: bombe, gas, armi chimiche...
Non c'è soltanto l'Apocalisse. C'è il profeta Geremia: "Sulle rive dell'Eufrate stramazzeranno e soccomberanno [ ... ]. La spada farà macello a sazietà e gronderà sangue, perché ecatombe sarà sul fiume Eufrate [ ... ]. Tu, o Signore, hai sentenziato su questo luogo: che sia distrutto, senza che vi rimanga abitatore, uomo o animale, ma giaccia deserto in eterno".
Richiamare l'Apocalisse o Geremia può forse essere salutare anche a una società dissacrata come la nostra. Anzi, non c'è forse nulla più di una società secolarizzata che tema le manifestazioni del sacro e si sconcerti davanti a predizioni apocalittiche e a immagini demoniache. Mancando l'assuefazione quotidiana con il religioso, ci si può ridurre, alla fine, nelle stesse condizioni dell'uomo primitivo, preso dal terrore del tuono e del fulmine.
"Eventi sorprendenti stanno cambiando il volto della storia", aveva detto Giovanni Paolo II. "Speranze di pace si intrecciano a minacce di distruzione e di violenza". E una voce non cristiana, ma musulmana, era arrivata fino a noi durante un convegno interreligioso tenuto a Bari. Ad Altamura, una sera, lo sceicco Isaahk Idriss Sakouta, dell'Arabia Saudita, il volto ispirato sotto un turbante bianco, profetizzò la rovina del mondo secolarizzato e la sua catarsi finale: "Io vedo attraverso il tempo, vedo il mondo pronto per un grande evento, per qualcosa di divino. Il comunismo è caduto. Così cadranno tutti i paesi il cui dio è il denaro". Ma dove non è adorato, oggi, il dio denaro?
Dagli Emirati Arabi alle banche di Mosca e di Pekino, dalla Terra del Fuoco a Wall Strett. "E adorarono il dragone, e adorarono la bestia e il numero della bestia", dice ancora l'Apocalisse: dove il numero è il denaro.
A Madrid, in un congresso di teologia sul tema "Dio o il denaro", è stato lanciato l'allarme sull'annullamento della vita sulla terra per la scomparsa delle condizioni di abitabilità. Questa scomparsa era già stata profetizzata alla fine del '700 dalla Leggenda sulla fine del mondo, stampata a Monaco di Baviera, che prediceva sugli anni che precedono il Duemila. E' una premonizione che combacia con la realtà dei terreni, dei fiumi, dell'aria, dei cibi, di cui abbiamo esperienza tangibile oggi: "La terra si avvelenerà da sola. L'erba, per quanto verde, racchiuderà veleno e sarà veleno per gli animali che di essa si nutrono. Così saranno veleno anche le carni di questi animali. L'uomo respirerà veleno, incapace, con tutta la sua scienza, di combattere mali invincibili. Anche il cielo sarà avvelenato e sulle città abitate si stenderà come un velo di gas velenoso, che per molti sarà mortifero. Tutti questi veleni saranno prodotti dall'uomo ed egli stesso ne soccomberà. Sarà la fine della natura deturpata e avvelenata dall'uomo e, morendo, essa trascinerà l'uomo nella sua rovina. Dopo questi segni tremendi, ecco che Dio verrà a dividere i buoni dai cattivi, così come fa l'uomo dei campi che di tra i bulbi buoni toglie via quelli che sono marciti".
"Fratelli, non disprezzate le profezie!", ammonisce San Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi.

ULTIM'ORA
"In mezzo a tante apparizioni, a tante visioni, fra tante voci strane, tra i miracoli di Dio e i prodigi del demonio, chi poteva dire che un giorno la Terra non sarebbe andata in fumo, al suono delle trombe fatali? Si poteva credere, a quel tempo, che quella che noi chiamiamo vita fosse in realtà la morte e che il mondo, mentre andava finendo, facesse in realtà come il santo della leggenda, cominciasse a vivere e finisse di morire. Et tunc vivere incepit, morique desiit". Così, nel secolo scorso, lo storico Jules Michelet descriveva la grande paura dell'Anno Mille. Era una paura che trovava la sua origine soprattutto nel ventesimo capitolo dell'Apocalisse: "E quando mille anni saranno consumati ... ".
Qual è il nostro stato d'animo, oggi, all'avvicinarsi della fine del secondo millennio? Già intorno qualcuno comincia a dire che i segni si stanno moltiplicando e sono sempre più inquietanti. Ecco le grandi carestie nel Terzo mondo, che provocano tumulti; ecco la nascita dei mostri, figli del Talidomide e figli dei laboratori sperimentali; ecco la nuova peste, l'aids; ecco la distruzione per fuoco, fumo e veleno, con Chernobyl.
L'attesa non si limita ai popoli cristiani. Il capo Chippew, Sun Bear, sostiene: "Riteniamo, secondo i nostri santi insegnamenti, che il tempo della purificazione sia iniziato nel 1973 e dovrà durare fino al Duemila". Coloro che vogliono sopravvivere, precisa il capo pellerossa, dovranno prepararsi: "Le profezie dicono che quando il paese dei tibetani sarà invaso, essi faranno ritorno all'uomo rosso. Questo è accaduto, sono venuti fra noi e studiamo insieme, confrontando le profezie". Eppure, questa inquietudine per l'avvento del secondo millennio sembra ancora silenziosa e quasi repressa. Qualcuno, per farei coraggio, spiega che il terzo millennio "dovrebbe più o meno coincidere con l'età dell'Acquario": che non sarebbe segno zodiacale negativo. Ma come mai queste preoccupazioni sull'avvenire, su una possibile catastrofe, così forti ancora pochi anni fa, sembrano in questo momento quasi rimosse? Risponde il filosofo che i nemici descrivono come seguace del nihilismo, nemico della civiltà moderna e della tecnica, Emanuele Severino: "Oggi la scienza è divenuta l'unica filosofia, l'unica religione. Questo è il fatto più importante dell'ultimo secolo; nessuna ideologia oggi è così forte da contrapporsi alla scienza. L'unica contestazione valida che si è avuta in questi anni è quella del Club di Roma, nel 1972: il suo rapporto diceva che esistono limiti fisici allo sviluppo dei Paesi industrializzati, e che se non ne terremo conto arriveremo al collasso. Questa tesi non è stata confutata in modo soddisfacente, ma nessuno sembra tenerne conto". Ma sul piano filosofico questa fiducia in uno sviluppo senza catastrofi non comincia a vacillare? "E' più salda che mai. Nemmeno Heidegger è riuscito a metterla in dubbio. Per criticare la scienza, bisogna andare alla radice del nostro pensiero. Ma penso che nel Duemila la fede nella scienza sarà più forte che mai".
Sul piano religioso, però, l'annuncio della fine, della palingenesi, della catastrofe estrema da cui verrà anche il riscatto ha sempre avuto un ruolo che è difficile dimenticare.
Come reagiscono oggi gli ambienti religiosi, alla vigilia del Duemila? Giovanni Filoramo, che insegna Storia delle Religioni a Torino: "Credo che anche se ci arriva molto attenuato, il motivo apocalittico rimane ben vivo. Non tanto nella Chiesa ufficiale, quanto in quelle che vengono comunemente definite "sette". Molte di queste sono addirittura nate annunciando la catastrofe. Pensiamo alla potentissima Chiesa dell'Unificazione del reverendo Moon, che aveva anzi previsto che la fine del mondo sarebbe arrivata con un certo anticipo, nel 1969. Oppure ai testimoni di Geova, che hanno milioni di adepti in tutto il mondo: tutta la loro dottrina fa riferimento all'imminente battaglia di Armageddon tra le legioni di Cristo e le orde di Satana. Ma sembra interessante che queste spinte millenariste si trovino anche fuori dal mondo giudaico-cristiano. Gli Hare Khrisna, per esempio, non hanno una concezione lineare del tempo, come la nostra; per loro ci sono dei cicli che si susseguono. Ora però siamo al punto più basso del cielo e i sintomi che fanno prevedere imminenti catastrofi si fanno sempre più numerosi".
Come mai, allora, sembra che anche le "sette" preferiscano non insistere troppo su questi temi? "Perché le sette hanno avuto troppo successo. Oggi sono forti, si rivolgono sempre meno agli emarginati e sempre di più alle classi medie. Di conseguenza, i problemi organizzativi hanno preso il sopravvento. Ma l'attesa della grande catastrofe rimane. Oggi viene espressa da alcune correnti "verdi", soprattutto in Germania: e in Italia, ad esempio in Piemonte, c'è la comunità di Daimonur, nel Canavese, convinta che il mondo stia arrivando alla fine e che la vita di comunità possa servire da rifugio. Per quanto riguarda il mondo religioso, sono convinto che l'elemento apocalittico resti latente. Basterà poco, una crisi, qualche catastrofe, e subito sentiremo risuonare l'annuncio della fine imminente e dei tempi nuovi. Questo motivo è riemerso anche nel mondo cattolico, per esempio in quelli di Comunione e Liberazione, che pure appaiono così attivi e ottimisti".
La catastrofe finale e l'apocalisse sono da secoli al centro delle ricerche degli occultisti. L'interesse intorno a Michel de Nostredame, il Nostradamus profeta provenzale nato nel 1503, va crescendo in modo impressionante. Appaiono continuamente nuove pubblicazioni che offrono la spiegazione, conclamata ogni volta "definitiva", delle sue famose e oscure quartine. L'ultimo di questi interpreti, Ottavio Cesare Ramotti, ha una caratteristica originale: fa di mestiere l'analista programmatore, e si è dunque servito del computer per dare la sua spiegazione esaustiva: "Si dice che le quartine, o centurie, di Nostradamus sono ambigue e possono essere adattate a qualsiasi circostanza. E' vero. Anzi, è stato vero fino ad oggi. In realtà Nostradamus è stato sempre letto in disordine. lo ho trovato la chiave per stabilire la sequenza cronologica esatta, in modo che tutta la sua opera possa essere letta come un unico racconto. Sarebbe troppo lungo spiegare come ci sono riuscito: basti dire che la vera chiave è la figura dell'astrolabio, che Nostradamus, essendo astronomo, conosceva perfettamente".
Ma c'è un problema. La gran maggioranza delle quartine si riferisce ad avvenimenti già accaduti. E il futuro, il Duemila? "Anche questo è vero. Dirò anzi che spesso Nostradamus è prolisso, troppo dettagliato. Centinaia di quartine sulle seconda guerra mondiale, ventiquattro quartine sulla guerra delle Falkland ("Nel più lontano Occidente inglese dove si reca dell'isola la donna..."). Ora sto studiando quello che dice a proposito dei nostri tempi. Il problema è che Nostradamus ha detto pochissime cose sul periodo che va dal 1990 al Duemila. Comunque, è sicuro che ci sarà una guerra terribile, una guerra atomica (lui usa più volte la parola "atomique", che ai suoi tempi era pochissimo nota). Ma non sarà la fine del mondo. Le profezie arrivano fino al 2050. La fine del mondo verrà, ma molto più tardi. E' tutto scritto. Sono partito nelle mie ricerche quando ho letto su un giornale il racconto della visita del papa alla grotta di Lourdes, nel 1983. Corrispondeva, parola per parola, a una quartina che descriveva la visita del pontefice in una grotta dei Pirenei. Stabilito questo punto fermo, è stato sufficiente mettere le quartine nel computer".
Da un altro luogo legato a un'apparizione della Madonna, com'è noto, da Fatima, sono venute altre previsioni di catastrofe finale. Dice Sergio Quinzio, scrittore e autorevole studioso di problemi religiosi: "Io sono un vecchio apocalittico. E non possiamo dimenticare che il Cristianesimo, alle sue origini, era una setta apocalittica giudaica. Mi pare difficile dimenticare queste origini".
I terrori alla fine di un cielo storico o cosmico sono dunque un fenomeno ricorrente nella storia dell'umanità. Nessuno può meravigliarsi se, allo scadere del secondo tormentato millennio di Cristo, riaffiorano nella memoria collettiva dell'Occidente antiche paure. La paura è una compagna della storia dell'uomo, e giustamente storici, psicanalisti, antropologi ce lo hanno ricordato anche di recente. D'altra parte, fenomeni come la minaccia dell'inquinamento planetario, la realtà di una forza nucleare sempre più difficilmente manovrabile dall'uomo, fanno sì che timori di apocalisse, di ecatombe universale appaiano almeno teoricamente tutt'altro che ingiustificati.
Ma non si deve pensare che le cose, nei tempi antichi, andassero poi tanto diversamente. Non c'erano gli spaventosi rischi che oggi sembrano minacciarci. In cambio, l'uomo del passato non si sentiva affatto sicuro. Pericoli mitici, innanzitutto. Gli antropologi ci hanno insegnato che l'uomo tradizionale si sentiva continuamente assediato da paure, si immaginava circondato da forze astrali o demoniache che lo tentavano e che lo circuivano, che potevano in ogni modo danneggiarlo. E anche i cataclismi naturali per l'uomo antico erano i segni di una Potenza oscura, incombente, superiore e non animata da quella giustizia e bontà che sono le doti abitualmente attribuite da noi moderni, e cristiani, alla nostra idea di divinità.
Il mondo antico era punteggiato da momenti di crisi, nei quali ci si ripeteva che l'universo stava invecchiando, e che in cielo e in terra apparivano segni d'ogni genere, tutti garanti o per lo meno minaccianti catastrofi, rovine, morte. Alla fine dell'era romana vi fu persino chi mise in fila questi segni, li catalogò e li studiò attentamente. I "monstra" non erano soltanto "mostri" nel nostro senso del termine: creature abnormi, terrificanti, misteriose. Erano soprattutto dei segni. "Monstrum a monstrare": la cometa, la nascita del bambino o dell'animale a due teste, l'inondazione, le notizie sull'invasione di popoli lontani e dai costumi sconosciuti acquistavano tutte il significato di un monito.
Qualcosa del genere accadde alla fine dell'Impero romano, così come accadde nel corso del Cinquecento, in quel vasto sommovimento di popoli, di culture, di istituzioni che portò alla Riforma protestante. Anche allora pronostici, avvisi di sciagura, profezie, diffusi e commentati a tutti i livelli della società, grazie al diffondersi di una nuova tecnica di informazione: la stampa.
Ma quando noi pensiamo a un'età di "terrori", ci rifacciamo invariabilmente al cosiddetto Anno Mille. E per la verità, ci pensiamo sulla base di una vecchia leggenda romantica: quella secondo la quale (Michelet se n'era fatto araldo, diffusore, in parte inventore) alla fine dello scadere dell'ultimo anno del decimo secolo, dunque del primo millennio dopo la nascita, secondo altri dopo la morte di Cristo, la gente si sarebbe ammassata tremebonda attorno alle abbazie e ai castelli e avrebbe atteso la Notte del giudizio: la Fine del Mondo.
Non era, in fondo, una visione del tutto pessimista, al contrario di quanto a noi parrebbe. In realtà il Giudizio Divino sarebbe stato improntato alla prospettiva della discesa del Regno dei Cieli: quella fine sarebbe stata anche un inizio glorioso, sia pure attraverso la sofferenza. E i segni, alla fine di quel millennio, pare vi fossero: invasioni barbariche, fame, incendi, rovine di antichi monumenti e di intere città. I cronisti del tempo, esclusivamente monaci o quasi, redigevano accurate liste di tali prodigi e concludevano, appunto, che il mondo stava invecchiando ed era prossimo alla fine. Noi però oggi ci rendiamo conto che tali pronostici, insieme con tutti i fenomeni relativi, erano tipici di un po' tutto il Medio Evo: anzi, potremmo dire di un po' tutti i tempi. E affiorano ogni qualvolta una società entri in un periodo di crisi. Quelli dell'Anno Mille non furono probabilmente superiori ai terrori di altri secoli.
E' un fatto che a partire dall'XI secolo il panorama del nostro continente cambia: miglioramento climatico, incremento demografico, fine dell'età delle grandi invasioni barbariche, incremento di traffici, di viabilità, di commerci, di cultura. Insomma, una vera e propria rinascita. Giosuè Carducci, innamorato di quella rinascita medioevale, avrebbe a sua volta descritto i terrori dell'Anno Mille in termini che per lunghi decenni si sono tramandati nelle scuole e che hanno indelebilmente segnato il nostro immaginario. Ma nessuna prova certa esiste che la fine del X secolo e gli inizi dell'XI fossero età percorse da paure e da speranze superiori a quelle di altri momenti.
In effetti, basta riflettere sulla difficoltà dell'uomo medioevale a orientarsi nei parametri temporali per rendersi conto che è improponibile pensare a una "notte delle paure" alla fine del primo millennio. L'Europa occidentale era piena di calendari, si può dire che ogni città calcolava l'inizio e la fine dell'anno solare secondo tecniche sue proprie. L'idea che il giorno iniziasse con la mezzanotte, che per noi abituati all'orologio è ovvia, non lo era affatto nel Medio Evo, quando si riteneva invece che il giorno cominciasse all'alba, secondo una vecchia tradizione laica, oppure al tramonto, secondo la liturgia cristiana.
Quanto al computo relativo all'anno della nascita e della morte di Cristo, esso era stato fissato fin dal VI secolo, ma con notevoli errori sugli stessi dati tradizionali a disposizione nel tempo. Insomma, una notte della paura alla fine del millennio è insituabile alla luce delle tradizioni calendariali dei secoli X-XI. Nessun uomo di quel tempo avrebbe potuto dire con precisione in che ora il millennio stesse spirando.
Invece, tutti noi sapremo bene quale sarà il primo minuto del prossimo millennio. Ma domandiamoci - il primo minuto del secondo millennio da che cosa? Da quale evento? Dalla nascita di un bambino ebreo, situata secondo il computo di un oscuro monaco cristiano dei primi secoli dell'era volgare, che probabilmente sbagliò i conti? Le nostre profonde certezze sono ancorate a questo viso lontano, allo splendore di una stella della quale parlano testi ebraici, al vagito di un Fanciullo in una grotta della Giudea. Ecco perché noi, figli dell'oscuro Medio Evo, ci sentiamo assediati dalla Paura, ma anche garantiti dalla Speranza.

LE "CRONACHE" DI GLABRO
"Trascorsi mille anni, Satana sarà sciolto e uscirà dal suo carcere". Così l'Apocalisse. Come in una strettoia, cruna d'ago, foro di clessidra, la storia pare destinata ad estinguersi attraversando quella strozzatura temporale. Poco prima del Mille, molte sette proclamarono l'imminente ritorno di Cristo sulla terra. La Chiesa, invece, citando San Paolo, dichiarò sconosciuta la data della fine del mondo: "Il Signore coglierà gli uomini di sorpresa come un ladro notturno". Più tardi, la storiografia romantica diffonderà l'immagine di un popolo atterrito dal millenario.
Intanto, c'è un duplice "millennium": la nascita e la morte del Cristo. Inoltre, anche per la ristretta classe intellettuale, il concetto di tempo era assai vago. Secondo Mare Bloch, a quell'epoca non si pensava in base a una cronologia uniforme. Basti osservare i criteri adottati: segni astronomici, anni di regni e pontificati, cicli tratti dai decreti fiscali romani. Se il calendario di Dionigi il Piccolo era già di per sé errato, in Spagna, per motivi ignoti, l'era volgare cominciava dal 38 avanti Cristo. A ciò si aggiunga il problema delle feste mobili e dell'inizio dell'anno, dovuto alla condanna con cui la Chiesa bollava il rito pagano del primo gennaio. I calcoli, fra l'altro, erano molto complessi: neanche il genio matematico di Gauss riuscì, nell'Ottocento, a riprodurli in un unico algoritmo. Tanto più strano è il fatto che, per alcuni secoli, l'invenzione dell'orologio venne attribuita a Silvestro II, papa intorno al millennio.
A questo tempo sconvolto corrispondeva uno spazio devastato. Terra di foreste e micro-popoli, di credenze superstiziose, di feticismi, l'Occidente del X secolo, ha osservato Georges Duby, uscì quasi dalla storia, e certamente lasciò meno tracce del suo passato che l'Africa centrale del XIX secolo. E' un pianeta spopolato, scosso dalla miseria, e da violenza, carestie, malattie anche epidemiche. In una società di contadini, sacerdoti e guerrieri, l'ambiente letterario appare così colpito che l'uso della scrittura rischia di scomparire. Mentre il disfacimento dell'Impero favorisce i paesi periferici, mentre si affaccia un nuovo ceto medio, mentre monaci e abbazie acquistano potere a scapito dei vescovi e delle cattedrali, matura il passaggio da una religione liturgica a una d'azione, ricca di pellegrinaggi e di crociate. In questo panorama di portenti e d'orrore si collocano le voluminose Cronache dell'anno Mille di Rodolfo il Glabro.
Pettegolo, nevrotico, psicopatico, questo monaco fu il migliore testimone dell'epoca. Certo, nelle sue pagine lo studio del passato diventa strumento di edificazione e salvezza: storiografia e teologia della Redenzione si fondono. Se il visibile racchiude l'invisibile, ogni fenomeno andrà letto come un segno divino, "poiché per noi quasi ogni avvenimento ha senso figurato". Prodigi e sortilegi sono espressioni di una mentalità analogica, simile a quella del pensiero magico e selvaggio. Come ha spiegato Duby, le reliquie, le specie eucaristiche, la persona del re, la presenza vivente dei defunti e dei demoni, introducono nella trama quotidiana una particella di sacro. Così, il mistero sgorga dal reale con meteoriti, mostri, eclissi, comete, sullo sfondo di un'umanità "incline fin dall'origine al male come un cane al vomito o una scrofa che si lava sguazzando nel fango". Eppure, tanta crudezza cela una pietà profonda, la stessa che si avverte davanti allo spettacolo animale degli affamati: "Le loro voci si facevano esili al punto da somigliare al lamento di uccelli moribondi".
Il latino di Rodolfo, anodino e verboso, non ha il raffinato, decomposto gusto che Huysmans celebrò nel 1884 in A rebours, la bibbia del decadentismo. L'eroe di quel famoso romanzo, il dandy Des Esseintes, amava i secoli in cui la lingua dei Cesari, ormai putrefatta, "si sfasciava perdendo le membra, colando sangue, conservando appena, nella corruzione del suo corpo, alcune parti solide che i cristiani distaccavano per marinarlo nella salamoia del loro nuovo linguaggio". Al contrario, il fascino delle Cronache sta in un sentimento aurorale, infantile, favolistico, proiettato nel futuro.
D'altra parte, il codice originale di questo testo rappresenta un esempio rivoluzionario anche sotto il profilo tecnico-librario. Si tratta infatti di uno tra i primi casi di partecipazione diretta. In vari passi, abbandonando la pratica della dettatura, l'autore redasse lo scritto di sua mano. Sin dalla stesura, dunque, quest'opera preannuncia tempi nuovi, quasi una primavera nell'universo scampato alla minaccia: "Pareva che la terra stessa, scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse di un candido manto di chiese".

IL DUEMILA. E POI?
"Sarà completamente devastata la terra", dice Isaia, "arrossirà la luna, impallidirà il sole". Altri sono più precisi. Come Giovanni nella sua escatologia minuziosa e compilatoria (sette angeli e sette sigilli, coppe, candelabri, falci, bestie con sette teste o due corna, spade, statue, chiavi, pozzi, e il nome computerizzato dell'Anticristo in cifre: seicento sessantasei) che avrà grande fortuna nel Medio Evo e nel Rinascimento, e che Nostradamus tenterà con un certo successo di imitare.
Gli apocalittici hanno, di solito, un forte senso delle immagini; ma hanno anche un grande amore per le cose, per la loro immobile concretezza; non tanto, come si sarebbe indotti a supporre, perché percepiscono che nel mondo delle cose tutto è destinato a finire, ma per la ragione opposta: perché il mantello di Cebete sopravviverà al sarto che l'ha cucito, perché le cose "stanno" con imperturbata fissità (così dovrebbero e vorrebbero "stare" le cose dello spirito, diceva Montale: come pietre), sopravvivono ai popoli e ai regni. Circondato da un mondo di oggetti stabili e fedeli, l'apocalittico immagina come ipotesi estrema non la propria fine, ma la fine di quella perennità. In altre parole, l'apocalittico è un oggettivista; nessun serio fichtiano potrebbe immaginare o pensare la fine dell'umanità e dei tempi.
Ma è, questo, solo un primo in fondo trascurabile aspetto dell'apocalittica come genere letterario e stile di pensiero. La teoria è ricca e complessa, e forse l'idea dell'eskaton è il nucleo generativo di buona parte del sapere occidentale.
Il "mitologema" millenarista, come è stato recentemente definito, ha origine per l'era cristiana con l'Apocalisse, che la tradizione attribuì a San Giovanni, dove si insiste molto sulla questione dei "mille anni" (" ... fino a quando mille anni saranno consumati"). Le ragioni dell'Apocalisse erano in fondo molto chiare, e storicamente circoscritte: si trattava, dal punto di vista teologico e dottrinale, di spiegare la presenza del male nel mondo nonostante la perfezione di Dio, di precisare con immagini più vive, e con un abbozzo di filosofia della storia, la tesi canonica (ma non per questo meno problematica) dell'ortodossia cristiana, per cui il male è "permesso" da Dio per garantire la libertà dell'uomo.
In base a questa tesi, era necessario supporre una fine dei tempi, un giudizio finale, un'ultima discriminazione degli eletti e dei perduti. Era inoltre necessario (ma qui Giovanni corrispondeva a un'urgenza storica molto più drammatica) dare un senso al martirio, promuovere l'attesa di una giustizia prossima e definitiva ("Fino a quando, o Signore,.. tarderai a far giustizia del nostro sangue sparso dagli abitanti della terra?").
Più tardi, nelle campagne desolate dell'Anno Mille, dove Rodolfo il Glabro scontava i suoi peccati raccontando i prodigi e le calamità del tempo, e dove il papamago Silvestro II, meglio noto come Gerberto d'Aurillac, interrogava uno spirito maligno da lui imprigionato perché lo consigliasse, o scrutava il cielo per trarne presagi, il millenarismo fu una vera e grande paura che percorse l'intera Europa. Ma a quell'epoca quasi tutto era paura, magia, perdizione. Passato l'Anno Mille, e passato anche il 1033, millenario della Passione di Cristo, un "gioioso ottimismo" pervase gli animi, sorsero chiese ovunque a ringraziare Iddio e a celebrare il ritorno della speranza nel cuore degli uomini.
Lo stesso fenomeno si ripresentò dopo il 1260, data che Gioacchino da Fiore aveva inspiegabilmente fissato per la fine dei tempi, spaventando mezzo mondo cristiano: tale fu la delusione per quell'apocalisse mancata, che Salimbene da Parma, gioacchinista convinto, divenne all'istante un materialista rigoroso, decidendo di non credere più a nulla che non gli fosse certificato dai suoi propri occhi. Poi vi fu la congiunzione astrale del 1524 (sei dei sette corpi celesti riuniti nella costellazione dei Pesci), annunciata e seguita da grandi piogge e inondazioni, ma infine risolta in poco più che nulla; e da ultimo intervenne Nostradamus, il quale molto prudentemente pose l'anno fatidico in un'epoca inverificabile anche per noi: il 3797.
In seguito, il millenarismo si affievolì come idea religiosa, ma sopravvive come utopia sociale, o escatologia rivoluzionaria, o illusione tecnocratica. Oggi, tramontata anche l'apocalisse laica e progressista dell'Ottocento (molti si sentono a questo proposito nella condizione di Fra' Salimbene), pare non resti che il terrore dell'eskaton nucleare o chimico: un'apocalisse senza giustizia e senza riscatto.
Non va dimenticata, oltre tutto, una teoria apocalittica contemporanea, quella prefigurata dagli ambientalisti. C'è un'idea "realistica" della fine del mondo, che ci deriva dalla considerazione degli squilibri cosmici creati dalle ansie produttive e consumistiche dell'umanità. E non è, neanche questa, un'idea del tutto nuova: già nel XII secolo una scrittrice apocalittica, Ildegarda di Bingen, pose espressamente al centro delle proprie tesi escatologiche la questione della natura: i sismi, i diluvi, le siccità - sosteneva - hanno per causa l'uomo, la redenzione dell'umanità deve essere anche redenzione della natura, resa crudele e imperfetta dalle costanti profanazioni umane.

VERSO IL TERZO MILLENNIO
Quando ha paura di finire, oppure prova fatica a ricominciare con secoli nuovi, ogni millennio trova i suoi simboli e li fa parlare. Quasi duemila anni fa, il mondo conosciuto, cioè dominato dai Romani, era squassato da guerre e rivolte: la Giudea era un fuoco, Gerusalemme era distrutta. A Patmos, Giovanni scrive l'Apocalisse e annuncia la fine. Un angelo anticipa la scena per il grande oracolo del cristianesimo: il cielo verrà arrotolato come i fogli di un papiro, le stelle cadranno come fichi da un albero piegato dal vento. La conclusione della storia si identifica con la distruzione della natura per mezzo del fuoco. Sullo sfondo di questa storia empia, in un panorama divenuto terso, si annuncia l'avvento del regno di Dio, della nuova Gerusalemme.
Dieci secoli dopo arriva l'Anno Mille. La letteratura romantica e approssimativa ci descriverà torme affamate e paurose, prese alla gola da un'attesa vissuta mese dopo mese, giorno dopo giorno, fino alla notte fra il 31 dicembre 1000 e il primo gennaio 1001. All'alba del nuovo millennio, il mondo sarebbe esploso nel nulla. Così ci narra la leggenda ricostruita più tardi. In verità, l'Anno Mille non è mai esistito, troppo vaghe sono le testimonianze perché si possano collocare in giorni e mesi le certezze di avvenimenti, di gesti collettivi. La storiografia contemporanea ci insegna che una atterrita condizione psicologica e religiosa durò in realtà oltre mezzo secolo, dal 980, o lì intorno, fino al 1040. Oggi possiamo chiamare Anno Mille questo periodo che segna un cambiamento, in trepidante attesa.
L'Occidente del decimo secolo è una terra di foreste, di tribù, di stregonerie, di pirati normanni e di armate saracene che arrivano, portano morte, rapiscono donne e bambini, e partono via. Le città come le ricostruisce George Duby, medievalista fra i maggiori, sono argini di legno e terra che chiudono il palazzo del principe e dei suoi guerrieri, la cattedrale e il borgo degli artigiani domestici. Fuori degli argini, un popolo contadino, assillato dalle carestie, vive con strumenti primitivi in lotta con la terra avara e con tanta fame. Ma nel nocciolo della superstizione e della miseria c'è una storia nuova, una storia possibile, la prima storia di una diversa stagione dell'umanità. E' una storia ingenua che balbetta e favoleggia. I racconti più autentici ci vengono da una letteratura povera.
Poveri, asciutti sono i simboli nella rappresentazione di un altro atteso "day after": un terremoto, una cometa dalla coda sfolgorante che traccia nel cielo l'immagine di un serpente, la nascita di un figlio deforme, l'un mostro", che i genitori affogano. I monaci inquieti che scrivono a cavallo di due millenni non hanno la magica suggestione di Giovanni. Ma certamente nelle loro orecchie restano le parole terribili e profetiche dell'Apocalisse, l'annuncio dell'antico serpente incatenato per mille anni: "Trascorsi i mille anni, Satana sarà sciolto e uscirà dalla sua prigione a sedurre le nazioni che sono ai quattro angoli delle terra per radunarle a battaglia, numerose come la sabbia del mare ... ".
Altri mille anni sono quasi trascorsi. Mediocre simbolo del nostro tempo che ai simboli preferisce le fotografie e le traduzioni simultanee e le riproduzioni tecniche e gli archivi elettronici, un orologio è stato caricato da un gruppo di scienziati intorno alla mezzanotte, soltanto pochi minuti prima a rappresentare i nuovi pericoli, le nuove nucleari paure della fine del mondo. A ogni cattiva notizia, a ogni installazione di missili o esperimento atomico o chimico, gli orologiai della nuova tecnologica apocalisse girano le lancette in avanti, si avvicinano al punto-limite, fino a quando perviene una buona notizia, un colloquiale passo verso intese e disarmi e riavvicinamenti, e gli scienziati regalano qualche tempo di vita in più, tirano indietro l'orologio di una manciata di minuti.
Cambiano i millenni, cambiano i simboli, cambiano i toni letterari nella costanza di un pericolo e di una paura. Nel mondo governato da Roma, poeti e visionari parlano la lingua immaginosa delle stelle, hanno la misura delle costellazioni, ogni timore si inquadra dentro uno zodiaco celeste, che tutto prevede, tutto contiene e tutto conterrà. L'ultima aetas è pensata come un rovesciamento dei cieli, agli astri sapienti adorati per millenni si sostituiscono nuovi astri, il fuoco viene dal sole che governa l'opera quotidiana dell'uomo e torna al sole dopo l'apocalisse, sotto un nuovo regno retto da una nuova divinità. Fine e principio sono immaginati dentro una civiltà percorsa da furori religiosi e sociali, da raffinatezze mistiche e da entusiasmi eccessivi, dai rimorsi dei vincitori e dai rancori dei vinti, tutti insieme ad attendere il crollo e poi la rinascita, lontani e opposti fra loro eppure compresi tutti dentro un ritmo, cristiani ed ebrei, zeloti, egizi, greci, romani, barbari già acculturati. Il presagio di un passaggio di vita era allora presagio di un passaggio di potere, da Roma all'Asia, dagli dei al Dio, in una rottura dei tempi e degli equilibri.
Nel piccolo ruvido mondo feudale dell'Anno Mille, invece, l'orizzonte è basso, bassa è la volta del cielo, la sapienza zodiacale è divenuta una piccola superstizione, quando il sole si alza dai Gemelli il pastore spinge il gregge verso pascoli nuovi, le dodici figure dello zodiaco raccontano fiabe più rozze, annunciano uno stralunato carnevale. E' una società divisa, una piccola cerchia di letterati intorno al principe e una anonima folla che non sa leggere né scrivere, né può vivere una dimensione della vita libera dall'ossessione quotidiana del pane, del freddo, delle malattie. Gerberto, papa dell'Anno Mille, scrive lettere che citano Plinio, Cicerone, quel Cicerone che mille e più anni prima aveva annunciato il "giorno in cui il mondo divamperà nel fuoco", ma il cristiano popolo di Gerberto conosce soltanto la barbarie franca, non l'oratoria romana.
Così, i simboli della fine del mondo sono, nel Medio Evo, semplici, elementari: sopra tutti è la cometa, segno di un disordine cosmico. E poi, con la cometa, altri preannunci della fine: meteoriti che cascano dal cielo e incendiano i campi, eclissi tenebrose. Come quella narrata da Sigeberto di Gembloux, per il giorno 29 giugno del 1033, giusto mille anni dopo la crocefissione di Gesù, quindi in un momento che si poteva davvero identificare nel calendario cristiano nell'Anno Mille: "Lo stesso anno, il millesimo della Passione del Signore, il terzo giorno delle calende di luglio, un venerdì, ventottesimo giorno della luna, si verificò un'eclisse o oscuramento del sole, che durò dalla sesta ora di quel giorno fino all'ottava e fu davvero terribile. Il sole prese un colore di zaffiro e portava nella sua parte superiore l'immagine della luna al primo quarto. Gli uomini, guardandosi fra loro, si vedevano pallidi come morti. Le cose tutte sembravano color zafferano. Allora uno stupore e uno spavento immenso pervasero il cuore degli uomini".
Sigeberto scriveva in latino, la gente non lo intendeva, "un'avidità sfrontata si impadroniva dell'animo umano, nascevano saccheggi, incesti, cieche cupidigie, furti, adulterii, ciascuno aveva orrore di confessare ciò che pensava di se stesso".
Tra fame, paura del cielo e paura della terra, voglia di ventri pieni e di peccato, e di paura del peccato, gli uomini dell'Anno Mille, anzi dei molti anni mille del fondo del Medio Evo, affidavano il senso della fine e del nuovo principio a stelle senza magia e senza fascino, non al regale zodiaco figlio di Babilonia, ma agli astri arcigni della superstizione barbara.
Le paure quasi all'alba del terzo millennio sono difficilmente definibili. La nostra società dei mezzi di comunicazione di massa non ha più un immaginario collettivo, né archetipi come li pensava Carl Gustav Jung; ha perso un rapporto nativo con una simbologia inscritta dentro i confini di una conoscenza e di una cultura comuni. La stagione scientifico-razionale (borghese) prima, la stagione delle telecomunicazioni in seguito hanno frantumato le grandi paure in tantissimi piccoli timori, nella moda di varie paure e nella paura di varie mode ideologiche, intellettuali e spettacolari. Le angosce sono quasi sempre vissute come nevrosi individuali o di piccolo gruppo; al più, di sette estremiste.
Nel tempo di Orazio, prima, o di Giovanni di Patmos, poi, o di Virgilio, o di Tacito, o di Svetonio, gli scricchiolii di un mondo regnante e gli annunci di un mondo nuovo ribelle erano tutti politici, o sociali, o spirituali, o mistici, dentro il fondo delle coscienze. Ma nessuna conoscenza scientifica, nessuna prova razionale poteva confortare il presagio che le stelle sarebbero davvero cadute. Così anche nel Medio Evo dell'Anno Mille le comete erano credute messaggere di morte, ma in realtà se ne restavano ben alte nel cielo e nulla legittimava la previsione di un impatto tra le stelle e la terra.
Adesso è la scienza, è la cronaca, è la tecnologia ad offrire fotografiche previsioni, calcoli di probabilità, statistiche di una possibile fine del mondo. Così la psicosi del millennio esce dalla simbologia e dall'elaborazione fantastica, per prendere l'andamento concreto di un grafico di una grande epidemia. Di fronte alla prospettiva di una guerra nucleare, non si direbbe quindi che possano farsi paragoni con gli altri due tramonti di millenni, né per la partecipazione collettiva né per l'intensità dell'attenzione.
Nelle grandi folle pacifiste di oggi non si coglie tanto la paura, quanto la voglia forte di contrastare un fatalismo reciproco degli Stati, che sembrerebbe lasciar scorrere su due correnti opposte i grandi iceberg armati fino a farli scontrare: ieri, l'Est e l'Ovest; oggi, l'Islam e l'Occidente. La visione del "day after" provoca rabbia più che paura, determina un drastico rifiuto per un infausto futuro.
Ma dov'è lo spazio per una apocalisse tecnologica, per un'invasione dei robot? E' stato scritto che nel passaggio dall'utopia positiva a quella negativa incide il timore della scienza, la paura quasi che essa possa rendere l'uomo schiavo o semplicemente numero o ingranaggio; ed è stato osservato poi come tutte e tre le principali utopie negative di questo secolo abbiano uno sfondo scientifico o tecnico: in Evgeni Zamjiatin sono la matematica e l'ingegneria, in Huxley è la biologia, in Orwell è la tecnica della trasmissione, del condizionamento e dell'indottrinamento. Ma gli anni trascorsi fra quando sono stati scritti i loro romanzi e la realtà di oggi ci hanno mostrato che i pericoli non sono nella scienza e nella tecnica, ma nella coscienza; non nelle scoperte, ma nel modo di usarle; non nelle macchine, ma negli uomini utilizzatori delle macchine; non nei laboratori, ma nelle stanze del potere.
Altro è, sullo sfondo, il timore di una guerra chimica o nucleare. Pensiamo agli "Ultimi giorni di Pompei", più di duemila anni fa: quella gente, vicina al Vesuvio, viveva accanto alla fine del suo mondo e non lo sapeva. Oggi avviene il contrario: si vive guardando il vulcano muto in continua, trepida attesa che esso possa risvegliarsi. Come è narrato in uno dei più grandi e poco conosciuti romanzi dei nostri tempi, Sotto il vulcano, di Malcom Lowry, scrittore di una forza poetica quasi irripetibile. Tanto Lowry, nella sua vita bruciata, quanto ciascuno di noi, nella nostra quotidianità di uomini e di numeri senza poesia, sappiamo bene di vivere sotto il vulcano. L'idea che ci possa essere un "giorno dopo" è soltanto la materializzazione di un simbolo, la materializzazione di quel vulcano che è accanto a noi e di quel vulcano che è dentro di noi. Anche quando brontola dalle viscere della terra, il vulcano può continuare a dormire per un altro millennio. 0 almeno a non nuocere. Purché la volontà degli uomini lo costringa a dormire.

DALLA BIBBIA A HOLLYWOOD
Gioacchino muore nel 1202 e il suo annuncio della "Terza età", la pienezza della "età dello Spirito", non soltanto animò il movimento, di poco successivo, degli spirituali francescani, ma aprì la via a tutte le moderne filosofie della storia. Riassumendo gli antecedenti sui quali si è innescata la potente creatività dell'abate medioevale, tracciando le vicende delle teologie cristiane della storia fin dalle più lontane origini e le vicende dell'esegesi dell'Apocalisse nel Cristianesimo latino, emerge che si era venuta affermando un'interpretazione delle profezie apocalittiche senza più tensione verso l'evento risolutivo, ma orientata in senso allegorico, morale ed ecclesiastico: una tendenza che Gioacchino da Fiore capovolgerà, ritornando genialmente alle origini.
Gioacchino attendeva una salvezza, sulla terra, dei giusti, premiati da Dio dopo una breve ma terribilmente devastante tribolazione. Visse sempre nella ferma convinzione che la fine fosse vicina: "Non accadrà questo nei giorni dei nipoti o negli anni della vecchiaia dei Nostri figli, ma nei vostri giorni pochi e cattivi".
La delusione delle ovunque serpeggianti speranze messianico-apocalittiche medioevali non impedì a Lutero, all'alba del mondo moderno, di fondare la sua teologia sull'imminenza del ritorno di Cristo e del giudizio finale. L'insigne storico olandese Heiko A. Oberman, in La riforma protestante da Lutero a Calvino, insiste sulla centralità di questo elemento non solo nel pensiero di Lutero, ma nei successivi sviluppi del movimento evangelico, che si avranno sia in Europa che in America.
Lutero attendeva lo scatenarsi dell'apocalittica lotta finale. Nella confusione degli ultimi tempi intendeva paradossalmente suscitare, con la predicazione autentica e pura della parola di Dio, l'estrema "profanazione satanica e l'asservimento del mondo. Lutero non ha dubbi nel pensare che, eliminando l'apocalittica, la sua teologia non risulti più comprensibile".
Altri studi recenti hanno dimostrato -seguendo per esempio le interpretazioni della figura apocalittica dell'Anticristo nel Seicento e nel Settecento inglese e la polemica contro il "Papa-Anticristo" nella tradizione ortodossa russa fino a tempi a noi più vicini - il perdurare di "categorie" che il predominio della "cultura laica" ha, più ancora che respinto, ignorato.
Augusto Placanica, nel suo Segni dei tempi, si è addossato un compito più ambizioso, quello di tracciare la storia del "modello apocalittico nella tradizione occidentale". Placanica compie una ricognizione ampia della presenza della visione apocalittica, rintracciandone alcuni elementi anche nell'antichità classica e mostrando come essa attraversi con caratteri di forte persistenza tutta la nostra storia. L'insieme delle testimonianze raccolte e interpretate dall'insigne storico italiano ha un peso notevole ed è difficilmente contestabile. Dopo aver percorso e documentato molteplici e intersecati itinerari, la sua conclusione è che "l'apocalittica resta ancora tra noi. Pare che quell'antico paradigma non voglia morire".
Citiamo soltanto due fra i numerosi esempi contemporanei che Placanica analizza: uno a livello dei "modelli segnico-catastrofici" che resistono nella cultura "mediobassa"; e l'altro a livello alto, nella polemica antilluminista dei filosofi Horkheimer e Adorno.
Il primo esempio. "Grazie all'occhio televisivo, l'apocalisse è entrata in casa, colloquia con la famiglia, affascina i bambini. Ecco scontri, incidenti, disgrazie, uragani e cicloni, catastrofi naturali, epidemie e siccità, ma anche drammi di follia collettiva, eccidi, guerre e guerriglie e connessi orrori, funesti assembramenti di folle scatenate in piazze o in stadi, disastri ecologici e paventati effetti planetari: cronaca o fiction, tutto sembra parlare in termini ultimativi e cosmici, e nell'invenzione scenografica non c'è più esagerazione che basti, e le tensioni vengono fatte rivivere come conflagrazioni di mondi, ire di mostri innaturali, arrivi di esseri viventi da mondi sconosciuti, aggressioni di entità repellenti - topi, zombi, insetti, squali robot, e persino realtà-non-realtà, masse vischiose e micidiali".
Il secondo esempio rileva "la natura apocalittico-catastrofica del pensiero dei due grandi francofortesi". Nei teorici del pensiero negativo, "la dimensione apocalittica consiste soprattutto nell'alta drammaticità e complessità della denuncia, che mira a svelare anche quelle illusorie apparenze di progresso che la comunità sociale apprezza, crede definitive e gelosissimamente difende". Horkheimer e Adorno vedono "il progresso come negazione di se stesso, in quanto adducente non alla felicità, ma alla sostanziale infelicità degli uomini".

DA DANTE A ECO UN FUTURO IN NERO
Forse i libri di materia esoterica, settaria e millenaristica, si dividono, come ha scritto Omar Calabrese, in "demenziali" e "seri"; o forse no, (come classificare, per esempio, Il pendolo di Foucault, che è certamente serio, ma se non contenesse un'abbondante dose di follia sarebbe una minestra senza sale ... ). Resta il fatto che i libri demenziali in materia sono assai più divertenti di quelli seri, magari anche più pericolosi ed esplicitamente infondati: ma per lo meno eccitanti. Che cosa deve leggere, dunque, il millenarista demenziale, ma non credulone? I classici, innanzitutto: l'Apocalisse di Giovanni, Nostradamus, la Divina Commedia. Più vicina a noi l'opera omnia di René Guenon, e quella di Gurdjev. Un po' dell'Evola della Rivolta contro il mondo moderno non dovrebbe guastare.
Se però il millenarista vuol sentirsi dire le stesse cose in forma letteraria più nobile, può ricorrere a Ceronetti o a Cioran. Ma probabilmente si diverte di più a leggere Rajneesh e la sua Bibbia di Bagwan, che è senz'altro più spiritoso e meno iettatorio. Discretamente millenarista è anche Carlos Castaneda, col suo infinito romanzo iniziatico a puntate Il potere del silenzio. Da non trascurare René Daumal, Mircea Eliade, Oswald Spengler ed Ernst Junger delle Scogliere di marmo. Millenaristi a modo loro erano certamente Céline, Heidegger, Ezra Pound, Carl Schmitt, i grandi intellettuali che proprio per questo atteggiamento fondamentale hanno scelto di unirsi al campo di destra nel grande scontro degli Anni Trenta. Diceva Sartre: i millenaristi hanno torto, ma hanno un sacco di ragioni per avere torto. Giudichi il lettore.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000