NEO-MILLENARISMO
Il primo ad aver portato alla luce i nuovi umori è stato un filosofo
anomalo e solitario, Sergio Quinzio, che ha parlato dell'emergenza ambientale
in modo assai diverso da come avevano fatto in precedenza commentatori
e socialisti. Per le loro dimensioni, per la loro complessità,
e soprattutto per le loro interconnessioni su scala mondiale, i guasti
che oggi ci minacciano sono unici, non hanno nulla a che vedere con
le catastrofi che in passato hanno colpito l'umanità, ha scritto
Quinzio, rifacendosi ad allarmi come quello lanciato dal World Watch
Institute di Washington. Ma le conclusioni che Quinzio ha tratto sono
del tutto diverse: "Se l'inquinamento dell'aria cresce, se la siccità
e le inondazioni sembrano seguirsi senza più regole, se le foreste
scompaiono e il deserto avanza, se il buco dell'ozono si allarga, tutto
insieme incalzando, siamo davvero sicuri che a tutto questo esista un
rimedio a portata di mano, da applicare concordi a tutto il pianeta
entro i tempi brevi in cui sarebbe necessario? Credo che sia lecito,
anzi doveroso dubitarne". Ecco chiaramente sintetizzati i timori
di catastrofe imminente che tormentano tanti "uomini stradali"
di questa fine millennio; e resi chiari e razionali stati d'animo su
cui non si è ancora riflettuto abbastanza. Ad esempio, la sfiducia
nella scienza, avvertita come qualcosa che ormai è sfuggita di
mano all'uomo. Sfiducia che fra l'altro è la causa profonda di
comportamenti collettivi recenti, come il voto contro le centrali al
referendum sul nucleare. Quinzio dice, citando Heidegger: "Solo
un Dio ci può salvare", solo il pettine di Dio può
sciogliere i nodi inestricabili che l'uomo ha procurato. Nessuno, se
non gli uomini stessi, può salvare il mondo e l'umanità,
dice Norberto Bobbio. Bisogna resistere alla tentazione di arrendersi
dinanzi ai problemi dell'ambiente, anche perché le risorse disponibili
non sono state mai così grandi, precisa il sociologo Luciano
Gallino. Il dibattito è aperto.
Bobbio ammette che "la fiducia nel progresso inarrestabile che
aveva ispirato per secoli le filosofie della storia dell'Occidente è
esaurita", anzi è stata fatta colare a picco dall'uso a
fin di male della scienza e della tecnica, dall'accrescersi delle disuguaglianze
tra Paesi sempre più ricchi e Paesi sempre più poveri,
dal fallimento della rivoluzione: "Io non ho alcuna certezza del
futuro", confessa Bobbio, e cita Pascal: "Noi corriamo spensierati
verso l'abisso dopo esserci messi davanti agli occhi qualche cosa che
ci impedisce di vederlo".
Al catastrofismo è la malattia infantile dell'ambientalismo",
accusa uno dei più noti fisici italiani, Carlo Bernardini: "Specie
in Italia molti, anche fra gli intellettuali, sono arrivati tardi a
prendere coscienza dei problemi dell'ambiente e questo li porta a una
visione più drammatica del necessario. Allarmi come quello del
rapporto del World Watch Institute, che danno dieci anni di tempo per
porre rimedio ai guasti del pianeta, più che reali preannunci
di catastrofi sono dei moniti lanciati dalla comunità scientifica
ai governi perché si decidano ad agire". Ma si potrebbe
anche osservare che quel termine di dieci anni ha un duplice volto:
fra poco meno, infatti, saremo a quella fatidica scadenza di fine millennio
che ha sempre evocato negli uomini immagini di distruzione e di resa
finale dei conti con chi ci ha messi al mondo; e facendo un passo avanti,
si può avanzare l'ipotesi che questa volta le paure e le suggestioni
millenarie stanno trovando un loro sbocco concreto proprio nell'oggettiva
realtà del disastro ambientale. Insomma: siamo di fronte alla
nascita di un nuovo millenarismo.
Secondo Quinzio, è forse anche la tangibile minacciosità
dell'aria che diventa sempre meno respirabile, dell'acqua avvelenata
e del caos urbano che rende molto più cupa l'attesa di questo
passaggio d'epoca: "Nell'anno Mille c'era anche molto forte una
tendenza verso il futuro. Le paure erano in qualche modo il collo della
bottiglia che l'umanità doveva attraversare per arrivare al nuovo.
Adesso prevale una paura che non ha soltanto radici religiose, ma che
tocca anche una parte considerevole della cultura laica". E a sostegno
di quanto sopra, si potrebbe citare il critico letterario britannico
Frank Kermode, secondo il quale la vera chiave di lettura di buona parte
della letteratura contemporanea è il senso incombente di apocalisse.
E si potrebbe citare la grande fioritura che si sta avendo in Germania
di romanzi, saggi, poesie che hanno per argomento la catastrofe ecologica,
fino e anche oltre il romanzo di Christa Wolf, I giorni dopo Chernobyl.
E' difficile negare, anche da parte di chi segue le letture più
razionaliste della realtà, che l'esplosione atomica di Chernobyl
non abbia rappresentato qualche cosa di profondamente nuovo, soprattutto
per i giovani. Dice il cattolico-verde Giannozzo Pucci: "Sono nato
poco prima dello scoppio della prima bomba atomica. Tutta la mia vita
e la mia cultura, come quella di tantissimi miei coetanei, è
stata segnata in modo indelebile da quella prima catastrofe e da quelle
che via via si susseguivano". E cita un pensatore come Wittgenstein:
"Non è insensato credere che l'era scientifica e tecnica
sia l'inizio della fine dell'umanità...". E sostiene Massimo
Cacciari, dalla sua casa di Venezia: "Anche se potessimo inventarci
strade per far fronte alle contraddizioni in cui siamo impantanati,
questo non avrebbe niente a che vedere con la salvezza. Riusciremmo
semplicemente a garantire la sopravvivenza dell'esistente. Ma perpetuando
questo metodo di vita, avremmo solo istituzionalizzato l'inferno".
E' una posizione non lontana da quella di Emanuele Severino, il quale
da tempo predica "la negatività originaria della civiltà
della tecnica". Qualche eco di questo pensiero si può trovare
anche nel pensiero di Carol Wojtyla e nella stessa enciclica "Sollicitudo
rei socialis", dove si riafferma la dottrina che l'uomo, non essendo
una creatura come tutte le altre, ha dei diritti maggiori sul mondo,
ma che allo stesso tempo deve usarlo con rispetto. Altrimenti, come
diceva Giobbe, tutti gli uomini "spireranno senza neppure saperlo".
QUEL "TERZO
SEGRETO"
Un segreto impastato d'Apocalisse. Un terribile castigo per l'umanità
nella seconda metà del XX secolo, con lo scatenarsi di una
grande guerra, la morte di milioni e milioni di uomini nel giro di
poche ore, una grande divisione all'interno della Chiesa. E' questo,
in sintesi, il contenuto del cosiddetto "terzo segreto"
di Fatima.
In realtà è la terza parte di un segreto che i veggenti
ricevettero il 13 luglio 1917 nella terza apparizione. La prima parte
riguardò la visione dell'inferno, la seconda le persecuzioni
scatenate dalla Russia che si sarebbe però convertita se il
papa l'avesse consacrata alla Madonna. Queste due parti sono state
rivelate; ma non la terza che, tuttavia, fu messa per iscritto dalla
veggente superstite, Lucia, nel 1943, e ora rimane inedita e custodita
negli archivi vaticani. Doveva essere rivelata dopo il 1960, ma Giovanni
XXIII, dopo aver letto il testo, decise di non pubblicarlo. E così
hanno fatto i suoi successori. Del segreto però fu redatta
una "relazione diplomatica" e inviata, a titolo informativo,
alle autorità di Washington, di Londra e di Mosca negli anni
'60 perché la Santa Sede la riteneva necessaria, anzi indispensabile,
alla convenzione riguardante la cessazione degli esperimenti nucleari.
Il suo contenuto fu conosciuto attraverso un'indiscrezione e sostanzialmente
confermato da Giovanni Paolo II in una conversazione informale con
un gruppo di persone a Fulda, in Germania, durante la visita del novembre
1980. La Madonna avrebbe detto a Lucia: "Un grande castigo cadrà
sul genere umano, non oggi, né domani, ma nella seconda metà
del secolo XX": conversione, preghiera e penitenza sono infatti
al centro dell'intero messaggio di Fatima. In questa parte del segreto
si parla di "grandi prove per la Chiesa, di cardinali che si
opporranno a cardinali, di vescovi a vescovi". "Satana marcerà
in mezzo alle loro file e a Roma vi saranno grandi cambiamenti. La
Chiesa sarà offuscata". Vi si afferma inoltre che "una
grande guerra si scatenerà nella seconda metà del XX
secolo" e che "fuoco e fumo cadranno dal cielo, le acque
degli oceani diverranno vapori e la schiuma si innalzerà sconvolgendo
e tutto affondando. Milioni e milioni di uomini periranno di ora in
ora, e coloro che resteranno in vita invidieranno i morti. Da qualunque
parte si volgerà lo sguardo, sarà angoscia, miseria,
rovine in tutti i Paesi".
Giovanni Paolo II spiegò a Fulda che "per il suo contenuto
impressionante e per non animare la forza mondiale del comunismo a
certe ingerenze", i suoi predecessori preferirono la "relazione
diplomatica". "Inoltre -aggiunse - dovrebbe bastare ad ogni
cristiano di sapere quanto segue: quando si legge che oceani inonderanno
interi continenti, che gli uomini verranno tolti dalla vita repentinamente
da un minuto all'altro, e ciò a milioni, [ ... ], se si sa
questo, non occorre davvero pretendere la pubblicazione di questo
segreto [ ... ]. Molti vogliono sapere solo per curiosità e
sensazione: ma essi dimenticano che il "sapere" porta con
sé anche la responsabilità. Questo è pericoloso
quando, in pari tempo, non si vuole far nulla, dicendo che non giova
a nulla". A questo punto, il papa afferrò il Rosario e
concluse: "Ecco la medicina contro questo male. Pregate, pregate,
e non interrogate ulteriormente. Il resto, raccomandatelo alla Madonna!".
LE PAURE DI
SEMPRE
Corruzione politica, crisi economica, deficit demografico, annullamento
dei valori morali, decadenza culturale. E l'elenco potrebbe continuare.
Sempre di più storici e filosofi europei e americani cercano,
e finiscono col trovare, analogie curiose ma inquietanti tra la fine
dell'Impero romano e la situazione attuale dell'Occidente industrializzato.
Alcune di queste tesi sfociano nel razzismo, come quella dello storico
francese François Fontaine, che vede il pericolo maggiore per
Europa e Nordamerica non nell'Est, o non solo nell'Est, ma nel Sud
del mondo, nei Paesi in via di sviluppo e in quelli del Terzo mondo,
"prolifici e agitati" e pronti a riversare "il proprio
sangue straniero", sulla società occidentale. Altri finiscono
col cedere all'immagine di una lenta ma progressiva decadenza del
genere umano nella storia, sicché la Fine della nostra civiltà
e il ritorno alla barbarie in qualche modo preconizzata da Spengler
all'inizio del secolo sono considerati inevitabili. C'è chi,
addirittura, guardando all'avvicinarsi del Duemila, profetizza la
fine del mondo.
Invece di farsi prendere dal pessimismo, è bene andare a verificare
quelle epoche storiche che nel nostro passato più possono contenere
una qualche analogia con la situazione attuale.
La fine del mondo antico fu infatti precorsa dalla grande crisi che
sin dalla guerra del Peloponneso, e poi ancor più nel IV secolo
a.C., travagliò il mondo greco e fu intuita da uno dei più
grandi storici di tutti i tempi, Tucidide. C'è un aspetto particolarmente
interessante per una coincidenza con l'oggi: nell'arco di trecento
anni (dalla morte di Alessandro alla caduta degli ultimi regni ellenistici)
una massa crescente di greci finì per soccombere a concezioni
profondamente deprimenti (il mondo governato immutabilmente dal cieco
caso, con l'uomo incapace di venir fuori dal ruolo di vittima), mentre
molti altri, più speranzosi o emotivi, si aggrappano a nuovi
culti mistico-pagani e misterici per dare un senso compiuto all'avventura
umana. Così oggi la crescita di consenso che ottengono le sette
religiose di vario tipo pare il segno di un analogo smarrimento religioso
e morale.
E secondo lo storico Mazzarino, che venne accusato da più parti
di essere un epigono di Spengler, ma che dimostra invece di non cedere
alla moda della decadenza, non sono pochi gli elementi che provocarono
la crisi dell'Impero romano e che potrebbero essere considerati presenti
nel nostro secolo. E' un lungo elenco, dall'apparizione di nuovi popoli
sulla scena del mondo alla presenza di mano d'opera "importata
e barbara" in certe regioni (come l'agricola Etruria), dalla
grave decadenza dei costumi e dalla mancanza di uomini veramente grandi
(come intuì già Cicerone, e come gli umanisti italiani
successivamente interpretarono) all'oppressione sociale che caratterizzava
il dominio romano sui contadini delle province. A questo occorre collegare
l'atteggiamento del Cristianesimo che in molti suoi iniziali pensatori
faceva coincidere la fine di Roma con la fine del mondo, prendendo
spunto dall'Apocalisse di San Giovanni e dalle profezie di Daniele
sulle quattro monarchie che si succedono nella storia. Solo con l'andare
del tempo la posizione della Chiesa mutò e si stabilì
una concordia con l'Impero.
La fine di Roma venne assunta specialmente nel nostro secolo con le
tragedie delle due guerre mondiali come un paradigma del presente:
chi paragonò la fine dell'Impero alla caduta degli imperatori
Romanoff, Absburgo, Hohenzollern, come lo storico Rostovzev, chi nella
storia sociale del Basso impero ravvisò una vicenda analoga
alla rivoluzione russa, come lo storico Persson. Tra il '20 e il '30
il crollo dell'Impero romano diventò quasi una pagina di storia
contemporanea: "La civiltà può morire, perché
essa è già morta una volta", scrisse Wilamowitz.
E a volte a questa valutazione pessimistica si aggiungeva la previsione
apocalittica.
Anche oggi questa "mania" millenaristica pare trovare nuovi
seguaci. Secondo il filosofo Abbagnano, l'annunzio di una più
o meno prossima ma inevitabile fine del mondo risuona da più
parti nella nostra cultura: l'indebolimento dei valori morali, l'incapacità
di risolvere il problema della fame nel mondo e la crescita degli
armamenti ne costituiscono il presupposto. Distruzione, catastrofe,
fine, sono termini sempre più abusati e c'è da temere
che, visto che mancano pochi anni alla fine del secolo e millennio,
si possano verificare fenomeni simili alle grandi paure vissute prima
dell'Anno Mille.
Il millenarismo storicamente ha assunto due facce: quella annichilita
di chi paventa la fine del mondo e la distruzione dell'umanità
(filone che ideologicamente risale all'Apocalisse), e quella ottimista
di chi sogna l'avverarsi di un nuovo mondo e il ritorno all'età
dell'oro che vede come punto di partenza le profezie di Gioacchino
da Fiore. Nel primo caso la storia non ha alcun senso e l'individuo
non deve fare altro che attendere la catastrofe finale; nel secondo
invece millenarismo è sinonimo di rivoluzione e il nuovo mondo
assume i connotati di una società perfetta, quale quella che
soprattutto il marxismo aveva cercato di disegnare. A differenza dell'apocalittica,
dove è Dio che decide tempi e modi della fine del mondo, nella
teoria e nella prassi marxiana è l'uomo che trova le risorse
per attuare il mondo senza più giustizia. Così accade
anche per tutte le formulazioni dell'utopia che sognano la fine dei
limiti umani. Inutile dire che entrambe le prospettive si rivelano,
per le parti opposte, "anticristiane" e "antistoriche".
Eppure anche oggi trovano non pochi sostenitori: se la pretesa di
costruire un mondo perfetto è ormai (anche drammaticamente)
naufragata, la visione apocalittica incontra ovunque nuovi discepoli.
Di fronte a profezie come quelle dei telepredicatori americani o delle
sette che prosperano nel Vecchio e nel Nuovo Continente, si rivelano
lucide le parole di un teologo che collaborò anche a questa
rivista, Italo Mancini: "Un tempo eravamo sbilanciati verso la
memoria del passato, oggi siamo stregati dall'ansia per il futuro.
lo sono contro il vizio di leggere le epoche storiche con la chiave
del tramonto. E' quanto sosteneva Spengler, ma sulla base di queste
idee Heidegger giunse ad affermare che "solo un dio può
salvarci", salvo che questo dio aveva un nome, Hitler. Il catastrofismo
nuoce e non è cristiano".
CULLA-TOMBA
EUFRATE
"Il sesto angelo suonò la tromba, e allora intesi una
voce dai quattro angoli dell'altare d'oro posto di fronte a Dio. La
voce disse al sesto angelo che teneva la tromba: libera i quattro
angeli incatenati presso il fiume Eufrate! I quattro angeli, preparati
proprio per quell'ora, quel giorno, quel mese, quell'anno, furono
liberati per uccidere un terzo degli uomini. Udii quanti erano i loro
soldati a cavallo: erano duecento milioni. Cavalli e cavalieri mi
apparvero vestiti di corazze, alcune rosse come di fuoco, altre azzurre
come lo zaffiro, e altre gialle come lo zolfo. I cavalieri avevano
teste che parevano di leoni. Fuoco, fumo e zolfo uscivano dalla loro
bocca. Un terzo degli uomini fu ucciso da questi tre flagelli: dal
fuoco, dal fumo, dallo zolfo, che uscivano dalla bocca dei cavalli
... ".
Questa è la Bibbia: Apocalisse, capitolo 9. L'Eufrate, il "grande
fiume", simbolo della potenza babilonese, come lo chiama sempre
il Libro sacro degli ebrei e dei cristiani, attraversa l'Iraq. Che
cosa potrà sprigionarsi dalle rive di questo fiume? Fuoco,
fumo, zolfo. Domenico del Rio traduce: bombe, gas, armi chimiche...
Non c'è soltanto l'Apocalisse. C'è il profeta Geremia:
"Sulle rive dell'Eufrate stramazzeranno e soccomberanno [ ...
]. La spada farà macello a sazietà e gronderà
sangue, perché ecatombe sarà sul fiume Eufrate [ ...
]. Tu, o Signore, hai sentenziato su questo luogo: che sia distrutto,
senza che vi rimanga abitatore, uomo o animale, ma giaccia deserto
in eterno".
Richiamare l'Apocalisse o Geremia può forse essere salutare
anche a una società dissacrata come la nostra. Anzi, non c'è
forse nulla più di una società secolarizzata che tema
le manifestazioni del sacro e si sconcerti davanti a predizioni apocalittiche
e a immagini demoniache. Mancando l'assuefazione quotidiana con il
religioso, ci si può ridurre, alla fine, nelle stesse condizioni
dell'uomo primitivo, preso dal terrore del tuono e del fulmine.
"Eventi sorprendenti stanno cambiando il volto della storia",
aveva detto Giovanni Paolo II. "Speranze di pace si intrecciano
a minacce di distruzione e di violenza". E una voce non cristiana,
ma musulmana, era arrivata fino a noi durante un convegno interreligioso
tenuto a Bari. Ad Altamura, una sera, lo sceicco Isaahk Idriss Sakouta,
dell'Arabia Saudita, il volto ispirato sotto un turbante bianco, profetizzò
la rovina del mondo secolarizzato e la sua catarsi finale: "Io
vedo attraverso il tempo, vedo il mondo pronto per un grande evento,
per qualcosa di divino. Il comunismo è caduto. Così
cadranno tutti i paesi il cui dio è il denaro". Ma dove
non è adorato, oggi, il dio denaro?
Dagli Emirati Arabi alle banche di Mosca e di Pekino, dalla Terra
del Fuoco a Wall Strett. "E adorarono il dragone, e adorarono
la bestia e il numero della bestia", dice ancora l'Apocalisse:
dove il numero è il denaro.
A Madrid, in un congresso di teologia sul tema "Dio o il denaro",
è stato lanciato l'allarme sull'annullamento della vita sulla
terra per la scomparsa delle condizioni di abitabilità. Questa
scomparsa era già stata profetizzata alla fine del '700 dalla
Leggenda sulla fine del mondo, stampata a Monaco di Baviera, che prediceva
sugli anni che precedono il Duemila. E' una premonizione che combacia
con la realtà dei terreni, dei fiumi, dell'aria, dei cibi,
di cui abbiamo esperienza tangibile oggi: "La terra si avvelenerà
da sola. L'erba, per quanto verde, racchiuderà veleno e sarà
veleno per gli animali che di essa si nutrono. Così saranno
veleno anche le carni di questi animali. L'uomo respirerà veleno,
incapace, con tutta la sua scienza, di combattere mali invincibili.
Anche il cielo sarà avvelenato e sulle città abitate
si stenderà come un velo di gas velenoso, che per molti sarà
mortifero. Tutti questi veleni saranno prodotti dall'uomo ed egli
stesso ne soccomberà. Sarà la fine della natura deturpata
e avvelenata dall'uomo e, morendo, essa trascinerà l'uomo nella
sua rovina. Dopo questi segni tremendi, ecco che Dio verrà
a dividere i buoni dai cattivi, così come fa l'uomo dei campi
che di tra i bulbi buoni toglie via quelli che sono marciti".
"Fratelli, non disprezzate le profezie!", ammonisce San
Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi.
ULTIM'ORA
"In mezzo a tante apparizioni, a tante visioni, fra tante voci
strane, tra i miracoli di Dio e i prodigi del demonio, chi poteva
dire che un giorno la Terra non sarebbe andata in fumo, al suono delle
trombe fatali? Si poteva credere, a quel tempo, che quella che noi
chiamiamo vita fosse in realtà la morte e che il mondo, mentre
andava finendo, facesse in realtà come il santo della leggenda,
cominciasse a vivere e finisse di morire. Et tunc vivere incepit,
morique desiit". Così, nel secolo scorso, lo storico Jules
Michelet descriveva la grande paura dell'Anno Mille. Era una paura
che trovava la sua origine soprattutto nel ventesimo capitolo dell'Apocalisse:
"E quando mille anni saranno consumati ... ".
Qual è il nostro stato d'animo, oggi, all'avvicinarsi della
fine del secondo millennio? Già intorno qualcuno comincia a
dire che i segni si stanno moltiplicando e sono sempre più
inquietanti. Ecco le grandi carestie nel Terzo mondo, che provocano
tumulti; ecco la nascita dei mostri, figli del Talidomide e figli
dei laboratori sperimentali; ecco la nuova peste, l'aids; ecco la
distruzione per fuoco, fumo e veleno, con Chernobyl.
L'attesa non si limita ai popoli cristiani. Il capo Chippew, Sun Bear,
sostiene: "Riteniamo, secondo i nostri santi insegnamenti, che
il tempo della purificazione sia iniziato nel 1973 e dovrà
durare fino al Duemila". Coloro che vogliono sopravvivere, precisa
il capo pellerossa, dovranno prepararsi: "Le profezie dicono
che quando il paese dei tibetani sarà invaso, essi faranno
ritorno all'uomo rosso. Questo è accaduto, sono venuti fra
noi e studiamo insieme, confrontando le profezie". Eppure, questa
inquietudine per l'avvento del secondo millennio sembra ancora silenziosa
e quasi repressa. Qualcuno, per farei coraggio, spiega che il terzo
millennio "dovrebbe più o meno coincidere con l'età
dell'Acquario": che non sarebbe segno zodiacale negativo. Ma
come mai queste preoccupazioni sull'avvenire, su una possibile catastrofe,
così forti ancora pochi anni fa, sembrano in questo momento
quasi rimosse? Risponde il filosofo che i nemici descrivono come seguace
del nihilismo, nemico della civiltà moderna e della tecnica,
Emanuele Severino: "Oggi la scienza è divenuta l'unica
filosofia, l'unica religione. Questo è il fatto più
importante dell'ultimo secolo; nessuna ideologia oggi è così
forte da contrapporsi alla scienza. L'unica contestazione valida che
si è avuta in questi anni è quella del Club di Roma,
nel 1972: il suo rapporto diceva che esistono limiti fisici allo sviluppo
dei Paesi industrializzati, e che se non ne terremo conto arriveremo
al collasso. Questa tesi non è stata confutata in modo soddisfacente,
ma nessuno sembra tenerne conto". Ma sul piano filosofico questa
fiducia in uno sviluppo senza catastrofi non comincia a vacillare?
"E' più salda che mai. Nemmeno Heidegger è riuscito
a metterla in dubbio. Per criticare la scienza, bisogna andare alla
radice del nostro pensiero. Ma penso che nel Duemila la fede nella
scienza sarà più forte che mai".
Sul piano religioso, però, l'annuncio della fine, della palingenesi,
della catastrofe estrema da cui verrà anche il riscatto ha
sempre avuto un ruolo che è difficile dimenticare.
Come reagiscono oggi gli ambienti religiosi, alla vigilia del Duemila?
Giovanni Filoramo, che insegna Storia delle Religioni a Torino: "Credo
che anche se ci arriva molto attenuato, il motivo apocalittico rimane
ben vivo. Non tanto nella Chiesa ufficiale, quanto in quelle che vengono
comunemente definite "sette". Molte di queste sono addirittura
nate annunciando la catastrofe. Pensiamo alla potentissima Chiesa
dell'Unificazione del reverendo Moon, che aveva anzi previsto che
la fine del mondo sarebbe arrivata con un certo anticipo, nel 1969.
Oppure ai testimoni di Geova, che hanno milioni di adepti in tutto
il mondo: tutta la loro dottrina fa riferimento all'imminente battaglia
di Armageddon tra le legioni di Cristo e le orde di Satana. Ma sembra
interessante che queste spinte millenariste si trovino anche fuori
dal mondo giudaico-cristiano. Gli Hare Khrisna, per esempio, non hanno
una concezione lineare del tempo, come la nostra; per loro ci sono
dei cicli che si susseguono. Ora però siamo al punto più
basso del cielo e i sintomi che fanno prevedere imminenti catastrofi
si fanno sempre più numerosi".
Come mai, allora, sembra che anche le "sette" preferiscano
non insistere troppo su questi temi? "Perché le sette
hanno avuto troppo successo. Oggi sono forti, si rivolgono sempre
meno agli emarginati e sempre di più alle classi medie. Di
conseguenza, i problemi organizzativi hanno preso il sopravvento.
Ma l'attesa della grande catastrofe rimane. Oggi viene espressa da
alcune correnti "verdi", soprattutto in Germania: e in Italia,
ad esempio in Piemonte, c'è la comunità di Daimonur,
nel Canavese, convinta che il mondo stia arrivando alla fine e che
la vita di comunità possa servire da rifugio. Per quanto riguarda
il mondo religioso, sono convinto che l'elemento apocalittico resti
latente. Basterà poco, una crisi, qualche catastrofe, e subito
sentiremo risuonare l'annuncio della fine imminente e dei tempi nuovi.
Questo motivo è riemerso anche nel mondo cattolico, per esempio
in quelli di Comunione e Liberazione, che pure appaiono così
attivi e ottimisti".
La catastrofe finale e l'apocalisse sono da secoli al centro delle
ricerche degli occultisti. L'interesse intorno a Michel de Nostredame,
il Nostradamus profeta provenzale nato nel 1503, va crescendo in modo
impressionante. Appaiono continuamente nuove pubblicazioni che offrono
la spiegazione, conclamata ogni volta "definitiva", delle
sue famose e oscure quartine. L'ultimo di questi interpreti, Ottavio
Cesare Ramotti, ha una caratteristica originale: fa di mestiere l'analista
programmatore, e si è dunque servito del computer per dare
la sua spiegazione esaustiva: "Si dice che le quartine, o centurie,
di Nostradamus sono ambigue e possono essere adattate a qualsiasi
circostanza. E' vero. Anzi, è stato vero fino ad oggi. In realtà
Nostradamus è stato sempre letto in disordine. lo ho trovato
la chiave per stabilire la sequenza cronologica esatta, in modo che
tutta la sua opera possa essere letta come un unico racconto. Sarebbe
troppo lungo spiegare come ci sono riuscito: basti dire che la vera
chiave è la figura dell'astrolabio, che Nostradamus, essendo
astronomo, conosceva perfettamente".
Ma c'è un problema. La gran maggioranza delle quartine si riferisce
ad avvenimenti già accaduti. E il futuro, il Duemila? "Anche
questo è vero. Dirò anzi che spesso Nostradamus è
prolisso, troppo dettagliato. Centinaia di quartine sulle seconda
guerra mondiale, ventiquattro quartine sulla guerra delle Falkland
("Nel più lontano Occidente inglese dove si reca dell'isola
la donna..."). Ora sto studiando quello che dice a proposito
dei nostri tempi. Il problema è che Nostradamus ha detto pochissime
cose sul periodo che va dal 1990 al Duemila. Comunque, è sicuro
che ci sarà una guerra terribile, una guerra atomica (lui usa
più volte la parola "atomique", che ai suoi tempi
era pochissimo nota). Ma non sarà la fine del mondo. Le profezie
arrivano fino al 2050. La fine del mondo verrà, ma molto più
tardi. E' tutto scritto. Sono partito nelle mie ricerche quando ho
letto su un giornale il racconto della visita del papa alla grotta
di Lourdes, nel 1983. Corrispondeva, parola per parola, a una quartina
che descriveva la visita del pontefice in una grotta dei Pirenei.
Stabilito questo punto fermo, è stato sufficiente mettere le
quartine nel computer".
Da un altro luogo legato a un'apparizione della Madonna, com'è
noto, da Fatima, sono venute altre previsioni di catastrofe finale.
Dice Sergio Quinzio, scrittore e autorevole studioso di problemi religiosi:
"Io sono un vecchio apocalittico. E non possiamo dimenticare
che il Cristianesimo, alle sue origini, era una setta apocalittica
giudaica. Mi pare difficile dimenticare queste origini".
I terrori alla fine di un cielo storico o cosmico sono dunque un fenomeno
ricorrente nella storia dell'umanità. Nessuno può meravigliarsi
se, allo scadere del secondo tormentato millennio di Cristo, riaffiorano
nella memoria collettiva dell'Occidente antiche paure. La paura è
una compagna della storia dell'uomo, e giustamente storici, psicanalisti,
antropologi ce lo hanno ricordato anche di recente. D'altra parte,
fenomeni come la minaccia dell'inquinamento planetario, la realtà
di una forza nucleare sempre più difficilmente manovrabile
dall'uomo, fanno sì che timori di apocalisse, di ecatombe universale
appaiano almeno teoricamente tutt'altro che ingiustificati.
Ma non si deve pensare che le cose, nei tempi antichi, andassero poi
tanto diversamente. Non c'erano gli spaventosi rischi che oggi sembrano
minacciarci. In cambio, l'uomo del passato non si sentiva affatto
sicuro. Pericoli mitici, innanzitutto. Gli antropologi ci hanno insegnato
che l'uomo tradizionale si sentiva continuamente assediato da paure,
si immaginava circondato da forze astrali o demoniache che lo tentavano
e che lo circuivano, che potevano in ogni modo danneggiarlo. E anche
i cataclismi naturali per l'uomo antico erano i segni di una Potenza
oscura, incombente, superiore e non animata da quella giustizia e
bontà che sono le doti abitualmente attribuite da noi moderni,
e cristiani, alla nostra idea di divinità.
Il mondo antico era punteggiato da momenti di crisi, nei quali ci
si ripeteva che l'universo stava invecchiando, e che in cielo e in
terra apparivano segni d'ogni genere, tutti garanti o per lo meno
minaccianti catastrofi, rovine, morte. Alla fine dell'era romana vi
fu persino chi mise in fila questi segni, li catalogò e li
studiò attentamente. I "monstra" non erano soltanto
"mostri" nel nostro senso del termine: creature abnormi,
terrificanti, misteriose. Erano soprattutto dei segni. "Monstrum
a monstrare": la cometa, la nascita del bambino o dell'animale
a due teste, l'inondazione, le notizie sull'invasione di popoli lontani
e dai costumi sconosciuti acquistavano tutte il significato di un
monito.
Qualcosa del genere accadde alla fine dell'Impero romano, così
come accadde nel corso del Cinquecento, in quel vasto sommovimento
di popoli, di culture, di istituzioni che portò alla Riforma
protestante. Anche allora pronostici, avvisi di sciagura, profezie,
diffusi e commentati a tutti i livelli della società, grazie
al diffondersi di una nuova tecnica di informazione: la stampa.
Ma quando noi pensiamo a un'età di "terrori", ci
rifacciamo invariabilmente al cosiddetto Anno Mille. E per la verità,
ci pensiamo sulla base di una vecchia leggenda romantica: quella secondo
la quale (Michelet se n'era fatto araldo, diffusore, in parte inventore)
alla fine dello scadere dell'ultimo anno del decimo secolo, dunque
del primo millennio dopo la nascita, secondo altri dopo la morte di
Cristo, la gente si sarebbe ammassata tremebonda attorno alle abbazie
e ai castelli e avrebbe atteso la Notte del giudizio: la Fine del
Mondo.
Non era, in fondo, una visione del tutto pessimista, al contrario
di quanto a noi parrebbe. In realtà il Giudizio Divino sarebbe
stato improntato alla prospettiva della discesa del Regno dei Cieli:
quella fine sarebbe stata anche un inizio glorioso, sia pure attraverso
la sofferenza. E i segni, alla fine di quel millennio, pare vi fossero:
invasioni barbariche, fame, incendi, rovine di antichi monumenti e
di intere città. I cronisti del tempo, esclusivamente monaci
o quasi, redigevano accurate liste di tali prodigi e concludevano,
appunto, che il mondo stava invecchiando ed era prossimo alla fine.
Noi però oggi ci rendiamo conto che tali pronostici, insieme
con tutti i fenomeni relativi, erano tipici di un po' tutto il Medio
Evo: anzi, potremmo dire di un po' tutti i tempi. E affiorano ogni
qualvolta una società entri in un periodo di crisi. Quelli
dell'Anno Mille non furono probabilmente superiori ai terrori di altri
secoli.
E' un fatto che a partire dall'XI secolo il panorama del nostro continente
cambia: miglioramento climatico, incremento demografico, fine dell'età
delle grandi invasioni barbariche, incremento di traffici, di viabilità,
di commerci, di cultura. Insomma, una vera e propria rinascita. Giosuè
Carducci, innamorato di quella rinascita medioevale, avrebbe a sua
volta descritto i terrori dell'Anno Mille in termini che per lunghi
decenni si sono tramandati nelle scuole e che hanno indelebilmente
segnato il nostro immaginario. Ma nessuna prova certa esiste che la
fine del X secolo e gli inizi dell'XI fossero età percorse
da paure e da speranze superiori a quelle di altri momenti.
In effetti, basta riflettere sulla difficoltà dell'uomo medioevale
a orientarsi nei parametri temporali per rendersi conto che è
improponibile pensare a una "notte delle paure" alla fine
del primo millennio. L'Europa occidentale era piena di calendari,
si può dire che ogni città calcolava l'inizio e la fine
dell'anno solare secondo tecniche sue proprie. L'idea che il giorno
iniziasse con la mezzanotte, che per noi abituati all'orologio è
ovvia, non lo era affatto nel Medio Evo, quando si riteneva invece
che il giorno cominciasse all'alba, secondo una vecchia tradizione
laica, oppure al tramonto, secondo la liturgia cristiana.
Quanto al computo relativo all'anno della nascita e della morte di
Cristo, esso era stato fissato fin dal VI secolo, ma con notevoli
errori sugli stessi dati tradizionali a disposizione nel tempo. Insomma,
una notte della paura alla fine del millennio è insituabile
alla luce delle tradizioni calendariali dei secoli X-XI. Nessun uomo
di quel tempo avrebbe potuto dire con precisione in che ora il millennio
stesse spirando.
Invece, tutti noi sapremo bene quale sarà il primo minuto del
prossimo millennio. Ma domandiamoci - il primo minuto del secondo
millennio da che cosa? Da quale evento? Dalla nascita di un bambino
ebreo, situata secondo il computo di un oscuro monaco cristiano dei
primi secoli dell'era volgare, che probabilmente sbagliò i
conti? Le nostre profonde certezze sono ancorate a questo viso lontano,
allo splendore di una stella della quale parlano testi ebraici, al
vagito di un Fanciullo in una grotta della Giudea. Ecco perché
noi, figli dell'oscuro Medio Evo, ci sentiamo assediati dalla Paura,
ma anche garantiti dalla Speranza.
LE "CRONACHE"
DI GLABRO
"Trascorsi mille anni, Satana sarà sciolto e uscirà
dal suo carcere". Così l'Apocalisse. Come in una strettoia,
cruna d'ago, foro di clessidra, la storia pare destinata ad estinguersi
attraversando quella strozzatura temporale. Poco prima del Mille,
molte sette proclamarono l'imminente ritorno di Cristo sulla terra.
La Chiesa, invece, citando San Paolo, dichiarò sconosciuta
la data della fine del mondo: "Il Signore coglierà gli
uomini di sorpresa come un ladro notturno". Più tardi,
la storiografia romantica diffonderà l'immagine di un popolo
atterrito dal millenario.
Intanto, c'è un duplice "millennium": la nascita
e la morte del Cristo. Inoltre, anche per la ristretta classe intellettuale,
il concetto di tempo era assai vago. Secondo Mare Bloch, a quell'epoca
non si pensava in base a una cronologia uniforme. Basti osservare
i criteri adottati: segni astronomici, anni di regni e pontificati,
cicli tratti dai decreti fiscali romani. Se il calendario di Dionigi
il Piccolo era già di per sé errato, in Spagna, per
motivi ignoti, l'era volgare cominciava dal 38 avanti Cristo. A ciò
si aggiunga il problema delle feste mobili e dell'inizio dell'anno,
dovuto alla condanna con cui la Chiesa bollava il rito pagano del
primo gennaio. I calcoli, fra l'altro, erano molto complessi: neanche
il genio matematico di Gauss riuscì, nell'Ottocento, a riprodurli
in un unico algoritmo. Tanto più strano è il fatto che,
per alcuni secoli, l'invenzione dell'orologio venne attribuita a Silvestro
II, papa intorno al millennio.
A questo tempo sconvolto corrispondeva uno spazio devastato. Terra
di foreste e micro-popoli, di credenze superstiziose, di feticismi,
l'Occidente del X secolo, ha osservato Georges Duby, uscì quasi
dalla storia, e certamente lasciò meno tracce del suo passato
che l'Africa centrale del XIX secolo. E' un pianeta spopolato, scosso
dalla miseria, e da violenza, carestie, malattie anche epidemiche.
In una società di contadini, sacerdoti e guerrieri, l'ambiente
letterario appare così colpito che l'uso della scrittura rischia
di scomparire. Mentre il disfacimento dell'Impero favorisce i paesi
periferici, mentre si affaccia un nuovo ceto medio, mentre monaci
e abbazie acquistano potere a scapito dei vescovi e delle cattedrali,
matura il passaggio da una religione liturgica a una d'azione, ricca
di pellegrinaggi e di crociate. In questo panorama di portenti e d'orrore
si collocano le voluminose Cronache dell'anno Mille di Rodolfo il
Glabro.
Pettegolo, nevrotico, psicopatico, questo monaco fu il migliore testimone
dell'epoca. Certo, nelle sue pagine lo studio del passato diventa
strumento di edificazione e salvezza: storiografia e teologia della
Redenzione si fondono. Se il visibile racchiude l'invisibile, ogni
fenomeno andrà letto come un segno divino, "poiché
per noi quasi ogni avvenimento ha senso figurato". Prodigi e
sortilegi sono espressioni di una mentalità analogica, simile
a quella del pensiero magico e selvaggio. Come ha spiegato Duby, le
reliquie, le specie eucaristiche, la persona del re, la presenza vivente
dei defunti e dei demoni, introducono nella trama quotidiana una particella
di sacro. Così, il mistero sgorga dal reale con meteoriti,
mostri, eclissi, comete, sullo sfondo di un'umanità "incline
fin dall'origine al male come un cane al vomito o una scrofa che si
lava sguazzando nel fango". Eppure, tanta crudezza cela una pietà
profonda, la stessa che si avverte davanti allo spettacolo animale
degli affamati: "Le loro voci si facevano esili al punto da somigliare
al lamento di uccelli moribondi".
Il latino di Rodolfo, anodino e verboso, non ha il raffinato, decomposto
gusto che Huysmans celebrò nel 1884 in A rebours, la bibbia
del decadentismo. L'eroe di quel famoso romanzo, il dandy Des Esseintes,
amava i secoli in cui la lingua dei Cesari, ormai putrefatta, "si
sfasciava perdendo le membra, colando sangue, conservando appena,
nella corruzione del suo corpo, alcune parti solide che i cristiani
distaccavano per marinarlo nella salamoia del loro nuovo linguaggio".
Al contrario, il fascino delle Cronache sta in un sentimento aurorale,
infantile, favolistico, proiettato nel futuro.
D'altra parte, il codice originale di questo testo rappresenta un
esempio rivoluzionario anche sotto il profilo tecnico-librario. Si
tratta infatti di uno tra i primi casi di partecipazione diretta.
In vari passi, abbandonando la pratica della dettatura, l'autore redasse
lo scritto di sua mano. Sin dalla stesura, dunque, quest'opera preannuncia
tempi nuovi, quasi una primavera nell'universo scampato alla minaccia:
"Pareva che la terra stessa, scrollandosi e liberandosi della
vecchiaia, si rivestisse di un candido manto di chiese".
IL DUEMILA.
E POI?
"Sarà completamente devastata la terra", dice Isaia,
"arrossirà la luna, impallidirà il sole".
Altri sono più precisi. Come Giovanni nella sua escatologia
minuziosa e compilatoria (sette angeli e sette sigilli, coppe, candelabri,
falci, bestie con sette teste o due corna, spade, statue, chiavi,
pozzi, e il nome computerizzato dell'Anticristo in cifre: seicento
sessantasei) che avrà grande fortuna nel Medio Evo e nel Rinascimento,
e che Nostradamus tenterà con un certo successo di imitare.
Gli apocalittici hanno, di solito, un forte senso delle immagini;
ma hanno anche un grande amore per le cose, per la loro immobile concretezza;
non tanto, come si sarebbe indotti a supporre, perché percepiscono
che nel mondo delle cose tutto è destinato a finire, ma per
la ragione opposta: perché il mantello di Cebete sopravviverà
al sarto che l'ha cucito, perché le cose "stanno"
con imperturbata fissità (così dovrebbero e vorrebbero
"stare" le cose dello spirito, diceva Montale: come pietre),
sopravvivono ai popoli e ai regni. Circondato da un mondo di oggetti
stabili e fedeli, l'apocalittico immagina come ipotesi estrema non
la propria fine, ma la fine di quella perennità. In altre parole,
l'apocalittico è un oggettivista; nessun serio fichtiano potrebbe
immaginare o pensare la fine dell'umanità e dei tempi.
Ma è, questo, solo un primo in fondo trascurabile aspetto dell'apocalittica
come genere letterario e stile di pensiero. La teoria è ricca
e complessa, e forse l'idea dell'eskaton è il nucleo generativo
di buona parte del sapere occidentale.
Il "mitologema" millenarista, come è stato recentemente
definito, ha origine per l'era cristiana con l'Apocalisse, che la
tradizione attribuì a San Giovanni, dove si insiste molto sulla
questione dei "mille anni" (" ... fino a quando mille
anni saranno consumati"). Le ragioni dell'Apocalisse erano in
fondo molto chiare, e storicamente circoscritte: si trattava, dal
punto di vista teologico e dottrinale, di spiegare la presenza del
male nel mondo nonostante la perfezione di Dio, di precisare con immagini
più vive, e con un abbozzo di filosofia della storia, la tesi
canonica (ma non per questo meno problematica) dell'ortodossia cristiana,
per cui il male è "permesso" da Dio per garantire
la libertà dell'uomo.
In base a questa tesi, era necessario supporre una fine dei tempi,
un giudizio finale, un'ultima discriminazione degli eletti e dei perduti.
Era inoltre necessario (ma qui Giovanni corrispondeva a un'urgenza
storica molto più drammatica) dare un senso al martirio, promuovere
l'attesa di una giustizia prossima e definitiva ("Fino a quando,
o Signore,.. tarderai a far giustizia del nostro sangue sparso dagli
abitanti della terra?").
Più tardi, nelle campagne desolate dell'Anno Mille, dove Rodolfo
il Glabro scontava i suoi peccati raccontando i prodigi e le calamità
del tempo, e dove il papamago Silvestro II, meglio noto come Gerberto
d'Aurillac, interrogava uno spirito maligno da lui imprigionato perché
lo consigliasse, o scrutava il cielo per trarne presagi, il millenarismo
fu una vera e grande paura che percorse l'intera Europa. Ma a quell'epoca
quasi tutto era paura, magia, perdizione. Passato l'Anno Mille, e
passato anche il 1033, millenario della Passione di Cristo, un "gioioso
ottimismo" pervase gli animi, sorsero chiese ovunque a ringraziare
Iddio e a celebrare il ritorno della speranza nel cuore degli uomini.
Lo stesso fenomeno si ripresentò dopo il 1260, data che Gioacchino
da Fiore aveva inspiegabilmente fissato per la fine dei tempi, spaventando
mezzo mondo cristiano: tale fu la delusione per quell'apocalisse mancata,
che Salimbene da Parma, gioacchinista convinto, divenne all'istante
un materialista rigoroso, decidendo di non credere più a nulla
che non gli fosse certificato dai suoi propri occhi. Poi vi fu la
congiunzione astrale del 1524 (sei dei sette corpi celesti riuniti
nella costellazione dei Pesci), annunciata e seguita da grandi piogge
e inondazioni, ma infine risolta in poco più che nulla; e da
ultimo intervenne Nostradamus, il quale molto prudentemente pose l'anno
fatidico in un'epoca inverificabile anche per noi: il 3797.
In seguito, il millenarismo si affievolì come idea religiosa,
ma sopravvive come utopia sociale, o escatologia rivoluzionaria, o
illusione tecnocratica. Oggi, tramontata anche l'apocalisse laica
e progressista dell'Ottocento (molti si sentono a questo proposito
nella condizione di Fra' Salimbene), pare non resti che il terrore
dell'eskaton nucleare o chimico: un'apocalisse senza giustizia e senza
riscatto.
Non va dimenticata, oltre tutto, una teoria apocalittica contemporanea,
quella prefigurata dagli ambientalisti. C'è un'idea "realistica"
della fine del mondo, che ci deriva dalla considerazione degli squilibri
cosmici creati dalle ansie produttive e consumistiche dell'umanità.
E non è, neanche questa, un'idea del tutto nuova: già
nel XII secolo una scrittrice apocalittica, Ildegarda di Bingen, pose
espressamente al centro delle proprie tesi escatologiche la questione
della natura: i sismi, i diluvi, le siccità - sosteneva - hanno
per causa l'uomo, la redenzione dell'umanità deve essere anche
redenzione della natura, resa crudele e imperfetta dalle costanti
profanazioni umane.
VERSO IL TERZO
MILLENNIO
Quando ha paura di finire, oppure prova fatica a ricominciare con
secoli nuovi, ogni millennio trova i suoi simboli e li fa parlare.
Quasi duemila anni fa, il mondo conosciuto, cioè dominato dai
Romani, era squassato da guerre e rivolte: la Giudea era un fuoco,
Gerusalemme era distrutta. A Patmos, Giovanni scrive l'Apocalisse
e annuncia la fine. Un angelo anticipa la scena per il grande oracolo
del cristianesimo: il cielo verrà arrotolato come i fogli di
un papiro, le stelle cadranno come fichi da un albero piegato dal
vento. La conclusione della storia si identifica con la distruzione
della natura per mezzo del fuoco. Sullo sfondo di questa storia empia,
in un panorama divenuto terso, si annuncia l'avvento del regno di
Dio, della nuova Gerusalemme.
Dieci secoli dopo arriva l'Anno Mille. La letteratura romantica e
approssimativa ci descriverà torme affamate e paurose, prese
alla gola da un'attesa vissuta mese dopo mese, giorno dopo giorno,
fino alla notte fra il 31 dicembre 1000 e il primo gennaio 1001. All'alba
del nuovo millennio, il mondo sarebbe esploso nel nulla. Così
ci narra la leggenda ricostruita più tardi. In verità,
l'Anno Mille non è mai esistito, troppo vaghe sono le testimonianze
perché si possano collocare in giorni e mesi le certezze di
avvenimenti, di gesti collettivi. La storiografia contemporanea ci
insegna che una atterrita condizione psicologica e religiosa durò
in realtà oltre mezzo secolo, dal 980, o lì intorno,
fino al 1040. Oggi possiamo chiamare Anno Mille questo periodo che
segna un cambiamento, in trepidante attesa.
L'Occidente del decimo secolo è una terra di foreste, di tribù,
di stregonerie, di pirati normanni e di armate saracene che arrivano,
portano morte, rapiscono donne e bambini, e partono via. Le città
come le ricostruisce George Duby, medievalista fra i maggiori, sono
argini di legno e terra che chiudono il palazzo del principe e dei
suoi guerrieri, la cattedrale e il borgo degli artigiani domestici.
Fuori degli argini, un popolo contadino, assillato dalle carestie,
vive con strumenti primitivi in lotta con la terra avara e con tanta
fame. Ma nel nocciolo della superstizione e della miseria c'è
una storia nuova, una storia possibile, la prima storia di una diversa
stagione dell'umanità. E' una storia ingenua che balbetta e
favoleggia. I racconti più autentici ci vengono da una letteratura
povera.
Poveri, asciutti sono i simboli nella rappresentazione di un altro
atteso "day after": un terremoto, una cometa dalla coda
sfolgorante che traccia nel cielo l'immagine di un serpente, la nascita
di un figlio deforme, l'un mostro", che i genitori affogano.
I monaci inquieti che scrivono a cavallo di due millenni non hanno
la magica suggestione di Giovanni. Ma certamente nelle loro orecchie
restano le parole terribili e profetiche dell'Apocalisse, l'annuncio
dell'antico serpente incatenato per mille anni: "Trascorsi i
mille anni, Satana sarà sciolto e uscirà dalla sua prigione
a sedurre le nazioni che sono ai quattro angoli delle terra per radunarle
a battaglia, numerose come la sabbia del mare ... ".
Altri mille anni sono quasi trascorsi. Mediocre simbolo del nostro
tempo che ai simboli preferisce le fotografie e le traduzioni simultanee
e le riproduzioni tecniche e gli archivi elettronici, un orologio
è stato caricato da un gruppo di scienziati intorno alla mezzanotte,
soltanto pochi minuti prima a rappresentare i nuovi pericoli, le nuove
nucleari paure della fine del mondo. A ogni cattiva notizia, a ogni
installazione di missili o esperimento atomico o chimico, gli orologiai
della nuova tecnologica apocalisse girano le lancette in avanti, si
avvicinano al punto-limite, fino a quando perviene una buona notizia,
un colloquiale passo verso intese e disarmi e riavvicinamenti, e gli
scienziati regalano qualche tempo di vita in più, tirano indietro
l'orologio di una manciata di minuti.
Cambiano i millenni, cambiano i simboli, cambiano i toni letterari
nella costanza di un pericolo e di una paura. Nel mondo governato
da Roma, poeti e visionari parlano la lingua immaginosa delle stelle,
hanno la misura delle costellazioni, ogni timore si inquadra dentro
uno zodiaco celeste, che tutto prevede, tutto contiene e tutto conterrà.
L'ultima aetas è pensata come un rovesciamento dei cieli, agli
astri sapienti adorati per millenni si sostituiscono nuovi astri,
il fuoco viene dal sole che governa l'opera quotidiana dell'uomo e
torna al sole dopo l'apocalisse, sotto un nuovo regno retto da una
nuova divinità. Fine e principio sono immaginati dentro una
civiltà percorsa da furori religiosi e sociali, da raffinatezze
mistiche e da entusiasmi eccessivi, dai rimorsi dei vincitori e dai
rancori dei vinti, tutti insieme ad attendere il crollo e poi la rinascita,
lontani e opposti fra loro eppure compresi tutti dentro un ritmo,
cristiani ed ebrei, zeloti, egizi, greci, romani, barbari già
acculturati. Il presagio di un passaggio di vita era allora presagio
di un passaggio di potere, da Roma all'Asia, dagli dei al Dio, in
una rottura dei tempi e degli equilibri.
Nel piccolo ruvido mondo feudale dell'Anno Mille, invece, l'orizzonte
è basso, bassa è la volta del cielo, la sapienza zodiacale
è divenuta una piccola superstizione, quando il sole si alza
dai Gemelli il pastore spinge il gregge verso pascoli nuovi, le dodici
figure dello zodiaco raccontano fiabe più rozze, annunciano
uno stralunato carnevale. E' una società divisa, una piccola
cerchia di letterati intorno al principe e una anonima folla che non
sa leggere né scrivere, né può vivere una dimensione
della vita libera dall'ossessione quotidiana del pane, del freddo,
delle malattie. Gerberto, papa dell'Anno Mille, scrive lettere che
citano Plinio, Cicerone, quel Cicerone che mille e più anni
prima aveva annunciato il "giorno in cui il mondo divamperà
nel fuoco", ma il cristiano popolo di Gerberto conosce soltanto
la barbarie franca, non l'oratoria romana.
Così, i simboli della fine del mondo sono, nel Medio Evo, semplici,
elementari: sopra tutti è la cometa, segno di un disordine
cosmico. E poi, con la cometa, altri preannunci della fine: meteoriti
che cascano dal cielo e incendiano i campi, eclissi tenebrose. Come
quella narrata da Sigeberto di Gembloux, per il giorno 29 giugno del
1033, giusto mille anni dopo la crocefissione di Gesù, quindi
in un momento che si poteva davvero identificare nel calendario cristiano
nell'Anno Mille: "Lo stesso anno, il millesimo della Passione
del Signore, il terzo giorno delle calende di luglio, un venerdì,
ventottesimo giorno della luna, si verificò un'eclisse o oscuramento
del sole, che durò dalla sesta ora di quel giorno fino all'ottava
e fu davvero terribile. Il sole prese un colore di zaffiro e portava
nella sua parte superiore l'immagine della luna al primo quarto. Gli
uomini, guardandosi fra loro, si vedevano pallidi come morti. Le cose
tutte sembravano color zafferano. Allora uno stupore e uno spavento
immenso pervasero il cuore degli uomini".
Sigeberto scriveva in latino, la gente non lo intendeva, "un'avidità
sfrontata si impadroniva dell'animo umano, nascevano saccheggi, incesti,
cieche cupidigie, furti, adulterii, ciascuno aveva orrore di confessare
ciò che pensava di se stesso".
Tra fame, paura del cielo e paura della terra, voglia di ventri pieni
e di peccato, e di paura del peccato, gli uomini dell'Anno Mille,
anzi dei molti anni mille del fondo del Medio Evo, affidavano il senso
della fine e del nuovo principio a stelle senza magia e senza fascino,
non al regale zodiaco figlio di Babilonia, ma agli astri arcigni della
superstizione barbara.
Le paure quasi all'alba del terzo millennio sono difficilmente definibili.
La nostra società dei mezzi di comunicazione di massa non ha
più un immaginario collettivo, né archetipi come li
pensava Carl Gustav Jung; ha perso un rapporto nativo con una simbologia
inscritta dentro i confini di una conoscenza e di una cultura comuni.
La stagione scientifico-razionale (borghese) prima, la stagione delle
telecomunicazioni in seguito hanno frantumato le grandi paure in tantissimi
piccoli timori, nella moda di varie paure e nella paura di varie mode
ideologiche, intellettuali e spettacolari. Le angosce sono quasi sempre
vissute come nevrosi individuali o di piccolo gruppo; al più,
di sette estremiste.
Nel tempo di Orazio, prima, o di Giovanni di Patmos, poi, o di Virgilio,
o di Tacito, o di Svetonio, gli scricchiolii di un mondo regnante
e gli annunci di un mondo nuovo ribelle erano tutti politici, o sociali,
o spirituali, o mistici, dentro il fondo delle coscienze. Ma nessuna
conoscenza scientifica, nessuna prova razionale poteva confortare
il presagio che le stelle sarebbero davvero cadute. Così anche
nel Medio Evo dell'Anno Mille le comete erano credute messaggere di
morte, ma in realtà se ne restavano ben alte nel cielo e nulla
legittimava la previsione di un impatto tra le stelle e la terra.
Adesso è la scienza, è la cronaca, è la tecnologia
ad offrire fotografiche previsioni, calcoli di probabilità,
statistiche di una possibile fine del mondo. Così la psicosi
del millennio esce dalla simbologia e dall'elaborazione fantastica,
per prendere l'andamento concreto di un grafico di una grande epidemia.
Di fronte alla prospettiva di una guerra nucleare, non si direbbe
quindi che possano farsi paragoni con gli altri due tramonti di millenni,
né per la partecipazione collettiva né per l'intensità
dell'attenzione.
Nelle grandi folle pacifiste di oggi non si coglie tanto la paura,
quanto la voglia forte di contrastare un fatalismo reciproco degli
Stati, che sembrerebbe lasciar scorrere su due correnti opposte i
grandi iceberg armati fino a farli scontrare: ieri, l'Est e l'Ovest;
oggi, l'Islam e l'Occidente. La visione del "day after"
provoca rabbia più che paura, determina un drastico rifiuto
per un infausto futuro.
Ma dov'è lo spazio per una apocalisse tecnologica, per un'invasione
dei robot? E' stato scritto che nel passaggio dall'utopia positiva
a quella negativa incide il timore della scienza, la paura quasi che
essa possa rendere l'uomo schiavo o semplicemente numero o ingranaggio;
ed è stato osservato poi come tutte e tre le principali utopie
negative di questo secolo abbiano uno sfondo scientifico o tecnico:
in Evgeni Zamjiatin sono la matematica e l'ingegneria, in Huxley è
la biologia, in Orwell è la tecnica della trasmissione, del
condizionamento e dell'indottrinamento. Ma gli anni trascorsi fra
quando sono stati scritti i loro romanzi e la realtà di oggi
ci hanno mostrato che i pericoli non sono nella scienza e nella tecnica,
ma nella coscienza; non nelle scoperte, ma nel modo di usarle; non
nelle macchine, ma negli uomini utilizzatori delle macchine; non nei
laboratori, ma nelle stanze del potere.
Altro è, sullo sfondo, il timore di una guerra chimica o nucleare.
Pensiamo agli "Ultimi giorni di Pompei", più di duemila
anni fa: quella gente, vicina al Vesuvio, viveva accanto alla fine
del suo mondo e non lo sapeva. Oggi avviene il contrario: si vive
guardando il vulcano muto in continua, trepida attesa che esso possa
risvegliarsi. Come è narrato in uno dei più grandi e
poco conosciuti romanzi dei nostri tempi, Sotto il vulcano, di Malcom
Lowry, scrittore di una forza poetica quasi irripetibile. Tanto Lowry,
nella sua vita bruciata, quanto ciascuno di noi, nella nostra quotidianità
di uomini e di numeri senza poesia, sappiamo bene di vivere sotto
il vulcano. L'idea che ci possa essere un "giorno dopo"
è soltanto la materializzazione di un simbolo, la materializzazione
di quel vulcano che è accanto a noi e di quel vulcano che è
dentro di noi. Anche quando brontola dalle viscere della terra, il
vulcano può continuare a dormire per un altro millennio. 0
almeno a non nuocere. Purché la volontà degli uomini
lo costringa a dormire.
DALLA BIBBIA
A HOLLYWOOD
Gioacchino muore nel 1202 e il suo annuncio della "Terza età",
la pienezza della "età dello Spirito", non soltanto
animò il movimento, di poco successivo, degli spirituali francescani,
ma aprì la via a tutte le moderne filosofie della storia. Riassumendo
gli antecedenti sui quali si è innescata la potente creatività
dell'abate medioevale, tracciando le vicende delle teologie cristiane
della storia fin dalle più lontane origini e le vicende dell'esegesi
dell'Apocalisse nel Cristianesimo latino, emerge che si era venuta
affermando un'interpretazione delle profezie apocalittiche senza più
tensione verso l'evento risolutivo, ma orientata in senso allegorico,
morale ed ecclesiastico: una tendenza che Gioacchino da Fiore capovolgerà,
ritornando genialmente alle origini.
Gioacchino attendeva una salvezza, sulla terra, dei giusti, premiati
da Dio dopo una breve ma terribilmente devastante tribolazione. Visse
sempre nella ferma convinzione che la fine fosse vicina: "Non
accadrà questo nei giorni dei nipoti o negli anni della vecchiaia
dei Nostri figli, ma nei vostri giorni pochi e cattivi".
La delusione delle ovunque serpeggianti speranze messianico-apocalittiche
medioevali non impedì a Lutero, all'alba del mondo moderno,
di fondare la sua teologia sull'imminenza del ritorno di Cristo e
del giudizio finale. L'insigne storico olandese Heiko A. Oberman,
in La riforma protestante da Lutero a Calvino, insiste sulla centralità
di questo elemento non solo nel pensiero di Lutero, ma nei successivi
sviluppi del movimento evangelico, che si avranno sia in Europa che
in America.
Lutero attendeva lo scatenarsi dell'apocalittica lotta finale. Nella
confusione degli ultimi tempi intendeva paradossalmente suscitare,
con la predicazione autentica e pura della parola di Dio, l'estrema
"profanazione satanica e l'asservimento del mondo. Lutero non
ha dubbi nel pensare che, eliminando l'apocalittica, la sua teologia
non risulti più comprensibile".
Altri studi recenti hanno dimostrato -seguendo per esempio le interpretazioni
della figura apocalittica dell'Anticristo nel Seicento e nel Settecento
inglese e la polemica contro il "Papa-Anticristo" nella
tradizione ortodossa russa fino a tempi a noi più vicini -
il perdurare di "categorie" che il predominio della "cultura
laica" ha, più ancora che respinto, ignorato.
Augusto Placanica, nel suo Segni dei tempi, si è addossato
un compito più ambizioso, quello di tracciare la storia del
"modello apocalittico nella tradizione occidentale". Placanica
compie una ricognizione ampia della presenza della visione apocalittica,
rintracciandone alcuni elementi anche nell'antichità classica
e mostrando come essa attraversi con caratteri di forte persistenza
tutta la nostra storia. L'insieme delle testimonianze raccolte e interpretate
dall'insigne storico italiano ha un peso notevole ed è difficilmente
contestabile. Dopo aver percorso e documentato molteplici e intersecati
itinerari, la sua conclusione è che "l'apocalittica resta
ancora tra noi. Pare che quell'antico paradigma non voglia morire".
Citiamo soltanto due fra i numerosi esempi contemporanei che Placanica
analizza: uno a livello dei "modelli segnico-catastrofici"
che resistono nella cultura "mediobassa"; e l'altro a livello
alto, nella polemica antilluminista dei filosofi Horkheimer e Adorno.
Il primo esempio. "Grazie all'occhio televisivo, l'apocalisse
è entrata in casa, colloquia con la famiglia, affascina i bambini.
Ecco scontri, incidenti, disgrazie, uragani e cicloni, catastrofi
naturali, epidemie e siccità, ma anche drammi di follia collettiva,
eccidi, guerre e guerriglie e connessi orrori, funesti assembramenti
di folle scatenate in piazze o in stadi, disastri ecologici e paventati
effetti planetari: cronaca o fiction, tutto sembra parlare in termini
ultimativi e cosmici, e nell'invenzione scenografica non c'è
più esagerazione che basti, e le tensioni vengono fatte rivivere
come conflagrazioni di mondi, ire di mostri innaturali, arrivi di
esseri viventi da mondi sconosciuti, aggressioni di entità
repellenti - topi, zombi, insetti, squali robot, e persino realtà-non-realtà,
masse vischiose e micidiali".
Il secondo esempio rileva "la natura apocalittico-catastrofica
del pensiero dei due grandi francofortesi". Nei teorici del pensiero
negativo, "la dimensione apocalittica consiste soprattutto nell'alta
drammaticità e complessità della denuncia, che mira
a svelare anche quelle illusorie apparenze di progresso che la comunità
sociale apprezza, crede definitive e gelosissimamente difende".
Horkheimer e Adorno vedono "il progresso come negazione di se
stesso, in quanto adducente non alla felicità, ma alla sostanziale
infelicità degli uomini".
DA DANTE A
ECO UN FUTURO IN NERO
Forse i libri di materia esoterica, settaria e millenaristica, si
dividono, come ha scritto Omar Calabrese, in "demenziali"
e "seri"; o forse no, (come classificare, per esempio, Il
pendolo di Foucault, che è certamente serio, ma se non contenesse
un'abbondante dose di follia sarebbe una minestra senza sale ... ).
Resta il fatto che i libri demenziali in materia sono assai più
divertenti di quelli seri, magari anche più pericolosi ed esplicitamente
infondati: ma per lo meno eccitanti. Che cosa deve leggere, dunque,
il millenarista demenziale, ma non credulone? I classici, innanzitutto:
l'Apocalisse di Giovanni, Nostradamus, la Divina Commedia. Più
vicina a noi l'opera omnia di René Guenon, e quella di Gurdjev.
Un po' dell'Evola della Rivolta contro il mondo moderno non dovrebbe
guastare.
Se però il millenarista vuol sentirsi dire le stesse cose in
forma letteraria più nobile, può ricorrere a Ceronetti
o a Cioran. Ma probabilmente si diverte di più a leggere Rajneesh
e la sua Bibbia di Bagwan, che è senz'altro più spiritoso
e meno iettatorio. Discretamente millenarista è anche Carlos
Castaneda, col suo infinito romanzo iniziatico a puntate Il potere
del silenzio. Da non trascurare René Daumal, Mircea Eliade,
Oswald Spengler ed Ernst Junger delle Scogliere di marmo. Millenaristi
a modo loro erano certamente Céline, Heidegger, Ezra Pound,
Carl Schmitt, i grandi intellettuali che proprio per questo atteggiamento
fondamentale hanno scelto di unirsi al campo di destra nel grande
scontro degli Anni Trenta. Diceva Sartre: i millenaristi hanno torto,
ma hanno un sacco di ragioni per avere torto. Giudichi il lettore.
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