Sempre
a causa della mia anagrafe, anch'io ho il mio "ventennio".
Ognuno dice di aver sempre mantenuto gli occhi aperti: per convinzione
anche nella contrapposizione, per costrizione, per la giovane età
nel pro e così via.
Ma pure in clima di "unanimismo", ognuno ha avuto anche allora
la propria storia, che quale sia stata offre spunti pure di orgoglio.
Orgoglio che frequentemente si coniuga con la coerenza, che è
valida solo se costante; con un continuo confronto con la propria coscienza
e la propria cultura mai contingente; con un modo di essere e di partecipazione
aperto all'autocritica, ma intimamente alieno da ogni smentita di se
stesso.
Molti giovani che allora avevano 12 anni sono entrati così nel
"ventennio". Questi miei tentativi di medaglioni, di "Incontri"
di lungo o breve momento, hanno a che fare con tante figure, talune
rilevanti, altre più o meno ignote oggi, ma indicative sempre
di un clima emblematico di un tempo, che in gran parte è stato
di guerre.
Il mio "ventennio" sta nella scuola media, nell'Università,
poi nella vita professionale e giornalistica, e perciò pure nelle
rimembranze di colleghi, di editori, di "gerarchi", nei volti
degli oppositori, cui toccò la sorte di non riuscire ad evitare
la marcia su Roma, ma, forti dopo di crescente partecipazione e consenso,
di sigillare la fine di un regime.
Ed ecco le rapide notazioni come solo la memoria le suggerisce. La storia
la scrive chi ne è capace ed io chiaramente non lo sono. Ma la
storia ha bisogno pure di chi in essa per il lungo trascorrere degli
anni, anche da anonimo, ha trovato posto.
Il Collegio
Romano
Scuola media, dunque, a Roma: in una Roma che non aveva ancora raggiunto
il milione di abitanti. Che aveva punti di riferimento per tutti centrali:
monumenti, piazze, strade, pure negozi. Se taluni di essi, fra strade
e negozi, sono anche scomparsi, hanno tuttora una loro memoria, che
purtroppo è vivente più in personali ricordi che non
in libri, nei quali gli anziani possano vedersi come in uno specchio
ed i giovani rinvenire motivi di riflessione.
La scuola media che ho frequentato si è caratterizzata - e
se merito c'è non è mio, ma di mio padre, che l'ha scelta
per darmi più spessore, ma io a questo riguardo non ho alcuna
esemplare pagella da rivendicare - per grandi nomi e tradizioni: il
Collegio Romano e cioè il Visconti, l'Istituto Massimo, il
Dante Alighieri.
Al "Visconti" ho concluso il ginnasio classico. Ricordo
la fama degli insegnanti, ma pure il mio modesto profitto: di un meridionale
sostanzialmente spaesato, con la pratica del "voi", che
il regime ha scoperto una quindicina di anni dopo.
C'era comunque un grosso insegnante di italiano, latino e greco, che
all'alunno distratto annunziava il suo "bravo zero", che
poi dimenticava di segnare sul registro.
Come pure c'era un illustre docente di matematica, la cui autorità
era evidenziata da numerosi ed importanti libri di testo e da una
fluente barba bianca. Sapeva di contare su di una ristrettissima cerchia
di alunni e gli altri li trascurava per interrogarli solo una volta
nel trimestre, per confermare solo un voto negativo. Fra questi c'ero
anch'io.
Due insegnanti, donne, una di Scienze naturali e l'altra di Francese.
La prima chiaramente piaceva a Giorgio Amendola, che è stato
mio compagno di classe e che allora era noto solo perché figlio
di Giovanni Amendola. La seconda si metteva le mani nei capelli allorché
mio padre le domandava notizie sul mio profitto e la condotta.
Giorgio Amendola non l'ho più rivisto né frequentato.
Allora partecipava alle manifestazioni del "partito del soldino"
- un soldino appunto infilato nell'asola della giacca -ed a quelle
della Camera del Lavoro: soprattutto correndo.
Di lui ricordo che era amico, e lo è rimasto per i decenni
successivi, del nipote di Battistini. Questi è stato anche
per lunghi anni mio amico. Dato che nella mia vita scolastica ho scelto
sempre gli ultimi banchi, mi ero posto alle sue spalle, perché
la loro ampiezza mi rendeva possibile appoggiarvi il libro sul quale
tranquillamente avrei potuto leggere la poesia che l'insegnante mi
domandava di "recitare". La pedagogia allora veniva fatta
anche così. Ma Battistini mi piaceva perché aveva musicato
il Te Deum a tempo di jazz, e siamo nel 1922! Molti anni dopo è
finito in un Commissariato di polizia, perché aveva dato fuoco
ad un materasso della pensione nella quale viveva e rispondendo alle
domande del commissario aveva dato fuoco anche alla sua scrivania
con la spiegazione riassuntiva: "perché la fiamma è
bella". Gabriele D'Annunzio avrebbe ingigantito questa frase.
Battistini, molti anni più tardi, nello spiegare perché
era divenuto redattore di un giornale comunista, mi disse che lo aveva
fatto solo per insegnare ai suoi nuovi colleghi come si dovesse indossare
una camicia di seta. E l'insegnamento lo faceva discendere dalla sua.
Quella di un ex ragazzo, come me, che sempre al Visconti disegnava
l'anziano nostro professore con tanti peli sulle gambe, in calzoncini
corti, con l'armamentario dell'alpinista.
Erano le prime contestazioni nella scuola, che circolavano con tanto
compiacimento da parte nostra. Allo zio di Battistini hanno dedicato
tante strade. Del nipote parla solo qualche insignificante superstite,
che però rivendica un tempo che c'è anche stato, ma
che nessuno ha pensato di enfatizzare.
La scuola una
volta esclusivamente per nobili
E veniamo al "Massimo", alle spalle di Piazza Esedra, oggi
forse Piazza della Repubblica. E' un palazzo che è stato sempre
imponente, anche quando per tanti anni è stato fatiscente,
nella lunga attesa di divenire alla fine un museo. Vi sono entrato
agli inizi dell'anno scolastico, che sul finire ha registrato - fatto
nazionale straordinario - il delitto Matteotti.
In questo Istituto, a differenza di quanto la mia memoria registra
per il Visconti, sono più vivi i ricordi concernenti gli insegnanti
che non quelli riguardanti i compagni, e ciò forse perché
nessuno di loro è stato poi emergente. Gli insegnanti erano
prevalentemente gesuiti, ma quelli laici dividevano con loro chiaramente
la cultura.
C'erano quattro padri, uno decisamente arcigno. Insegnava greco, nella
diffusa indifferenza degli alunni, ma non disdegnava di ammonire uno
dei più brutti della classe con l'invito a "non fare il
bel giovane". Dei suo greco non mi è rimasto niente.
C'erano pure due insegnanti gesuiti, uno di storia e l'altro di filosofia,
e di questi, a differenza del professore di greco, non ricordo il
nome, ma essi avevano capito che la prima virtù del docente
è quella di farsi volere bene.
E c'era il padre prefetto. Questo tipo di prefettura, che non immaginava
l'importanza che avrebbe avuto nella vita istituzionale del Paese,
esisteva anche nel convitti nazionali. Il padre prefetto doveva mantenere
una disciplina che naturalmente esistendo allora non dava fastidio.
Il ruolo di questo incarico comportava fra l'altro anche quello di
chiamare per nome nell'atrio di accesso i principi, alunni come noi,
che erano esonerati dal partecipare alle lezioni pomeridiane solo
perché contemporaneamente aveva luogo il derby: non quello
di calcio, ma quello dei cavalli. Ricordo, fra gli altri, il principe
Ruffo di Calabria, anche oggi ce ne sono diversi variamente dislocati,
ma quello che ricordo io aveva dei grossi occhialoni, evidentemente
più meritevoli di menzione per me dei titoli nobiliari.
Ed infine c'erano tre professori laici. Uno di italiano si chiamava,
non insolitamente anche allora, Napolitano. Forse era siciliano. Sapevo
di non piacergli, anche perché mostrava meraviglia di vedermi
affiancato nel banco ad un compagno di gran lunga più bravo
di me. Riferendo poi a mio padre sulle mie attitudini aveva detto
che ero dotato di scarsa fantasia. E questo non era certo un segno
positivo nella scuola. Forse lo è, per la mia professione di
giornalista, nella vita. D'altra parte, sia chi ce l'ha sia chi ne
è privo, la dose necessaria per vivere ce l'ha.
L'altro professore, questo di chimica (materia della quale non mi
è quasi mai importato granché), si chiamava Faure, non
era francese, ma ad un certo momento disse alla scolaresca disattenta
alle formule ed agli annunci di esperimenti che avevano la sorte di
non essere mai effettuati che l'esistenza umana, nella sopravvivenza
nell'aldilà, non avrebbe mai avuto fine. Senza fine! Altro
che i gratuiti perché, inutilmente compiacenti di certi titoli
di canzoni di oggi. Ed infine c'era il semplificatore professore di
matematica (mi piaceva e perciò ne ricordo il nome: si chiamava
Vitanzi). Aveva capito che io ero un alunno cronicamente riluttante
rispetto alla matematica: eppure per tutta la mia vita le cifre non
sono mai state al secondo posto, oltre tutto per la specificità
economica della mia professione giornalistica. Mi chiamava alla lavagna
quando non ne poteva fare a meno e conosceva la mia renitenza all'appello
ovviamente prevedibile. lo quindi non mi muovevo dal banco, e lui
si limitava a farmi capire con le mani che il mio voto sarebbe stato
zero. lo dal canto mio mi limitavo a dare segni della mia rassegnazione
ad un voto che sulla pagella si riduceva ad un tre. Le avversità
della vita. Il professore si chiamava Vitanzi, ma l'ho innanzi ai
miei occhi: quasi 70 anni dopo, perché tante cose senza cifre
ci dicevamo l'un l'altro.
Ma questo 1924 è stato pure l'anno del delitto Matteotti, che
lo ho vissuto.
Fra l'altro mio padre leggeva Il Mondo: un giornale che per me era
di casa ed io lo sbirciavo. Era diretto da Enrico Cianca, aveva come
ispiratore, opinionista come si dice adesso, Giovanni Amendola. Ma
questo delitto lo conoscevo anche perché i magistrati che conducevano
l'indagine frequentavano a via Cola di Rienzo a Roma la stessa edicola
di cui ero assiduo cliente per comperare il Becco Giallo.
La mia convinzione e conoscenza di allora mi fanno dire oggi che sono
stato un "quartallerista" e chi non conosce questo termine
deve sapere che esso significa convinzione della responsabilità
del regime in merito all'assassinio del deputato socialista.
Tre compagni di classe dopo mi imputarono di aver detto che Mussolini
ne era responsabile: un calabrese, poi avvocato, mi rispose che anche
lui era responsabile come Mussolini, un altro è divenuto ambasciatore
(e ne ricordo il nome, ma non lo cito, perché tante altre affermazioni
suscettibili di pentimento ha dovuto anche lui fare), ed un terzo
è stato Console generale a San Francisco.
Forse la conformità ai governi temporanei era la regola per
l'accesso a certe categorie, come lo era per quella diplomatica quella
di essere stato ufficiale di cavalleria. E perciò certe scelte
nulla avevano a che fare con le vocazioni. Vocazioni che per me hanno
riguardato quella giornalistica, che nella sua ispirazione per la
libertà non accetta altri condizionamenti che non siano quelli
della propria coscienza.
Scuola privata
di un tempo e Gentile era in agguato
L'ultimo tratto di trada, di questa strada, concerne il terzo liceo,
e pertanto il mio "Dante Alighieri": alle spalle del Tasso
di oggi. Era un istituto privato, fondato e diretto da un ex preside
di scuola pubblica ed aveva come insegnanti o validissimi e noti insegnanti
pubblici pensionati o giovanissimi che iniziavano la loro carriera
e qualcuno di essi è poi divenuto fra i maggiori esponenti
e studiosi della disciplina loro affidata. Ricordo fra tutti Enrico
Castelli, discepolo di Varisco, assurto pochi anni dopo a direttore
di cattedra e segretario generale della Società filosofica
nazionale. Il suo insegnamento era quanto mai selettivo, nella determinazione
degli autori oggetto del suo programma scolastico e nella metodica
espositiva ed intelligentemente sintetica. Anche gli altri insegnanti
avevano lo stesso metodo di insegnamento, ma lui l'aveva raffinato
anche di più, consentendomi con quanto così ho appreso
da lui di suscitare addirittura la particolare soddisfazione ed il
più che significativo riconoscimento di voto del mio esaminatore:
un professore ordinario dell'Università di Firenze. Questo
esame di maturità classica trascinò tutti gli altri,
insieme a quello di italiano. Per questo, da giornalista ante litteram,
avevo previsto il soggetto del tema scritto, San Francesco, in coincidenza
con la ricorrenza storica del 1926. Figuratevi come mi fossi preparato!
Era questo il primo anno di applicazione completa per tutto il triennio
della riforma Gentile: una cosa tremenda, come la definivano i miei
compagni di scuola più anziani, che avevano già tentato
inutilmente la prova.
La riforma Gentile! Lo scheletro non nell'armadio della scuola italiana
fino ai giorni nostri, nonostante la "Carta della Scuola"
di Bottai che riteneva di aver rivoluzionato il sistema ed invece
aveva modificato qualche contenuto solo con la forma. E fra queste
forme appunto volute da Bottai c'era anche il discutibile procedimento
di nomina dei Provveditori agli studi: uno dei quali lo divenne per
meriti fascisti e certamente non già perché preferiva
scrivere recenzione, con una esse dimenticata... Lo conoscevo perché
presentava senza economia di carta bollata domande di concorso pubblico
quale che ne fosse stata l'amministrazione.
I professori erano così. I compagni di classe tutti più
o meno malinconici, e le loro successive carriere ne hanno particolarmente
risentito. Forse di Gentile - ma io quando divenne presidente dell'Enciclopedia
Treccani lo conobbi personalmente anche sorridente - bisognerà
avere pure questo ricordo.
Infine alla
"Sapienza": quella vera
La "Sapienza" è stata l'altro mio sospirato traguardo:
un traguardo in vista del quale mi sono dato quella che a Roma si
chiama una "regolata". Uso questa parola popolaresca perché
giunge, quasi geneticamente, dal nostro io. Fra l'altro mio padre
esigeva, dico esigeva, che al preciso compimento dei miei 21 anni
avessi conseguito la laurea, precisamente in giurisprudenza, che secondo
lui apriva la strada a tutte le carriere di allora. Del resto a 21
anni lui aveva conseguito la stessa laurea a Napoli con Re Umberto
I, e prima di lui suo padre, però a 19 anni sotto i Borboni.
Secondo me la Sapienza - allora sede della Facoltà di giurisprudenza
e non di altre - sul finire degli anni '20 e nei primi inizi degli
anni '30 è stata l'espressione più alta della cattedratica
universitaria, con maestri che sono stati i fondatori delle discipline
che insegnavano.
I loro nomi giganteggiano. Le loro persone erano tutt'altro che esorbitanti,
riuscivano a combinare modestia e dignità. Ed erano insegnanti
e maestri di vita anche in questo. La società stessa li voleva
così e perciò li riconosceva come maestri. Purtroppo
i confronti di sopravvenienze condurrebbero solo a lunghi discorsi,
probabilmente anche inutili.
Ed ecco i medaglioni, suscitati da ricordi duri a morire: Giorgio
Del Vecchio per la filosofia del diritto, rettore per lunghi anni
dell'intera Università di Roma, maestro in una didattica che
implicava subito gli allievi e li aiutava, ma ne parlerò anche
dopo; Vittorio Scialoia, fondatore del diritto romano, rappresentante
anche dell'Italia alla Società della Nazioni; Pietro Bonfante,
diritto romano, che il suo maestro Scialoia diceva migliore di lui;
Cesare Vivante, fondatore del diritto commerciale, autore di Codici
di vari Paesi dell'America Latina; Guido de Ruggero, istituzioni di
diritto privato, autore di un testo divenuto quasi storico; Rodolfo
Benini, fondatore della statistica; Antonio Salandra, diritto amministrativo,
pure Capo del Governo; Vittorio Emanuele Orlando, diritto costituzionale
e Presidente del consiglio della Vittoria della guerra 15-18; Enrico
Ferri, diritto penale, celebre a quei tempi più per quanto
faceva fuori che non dietro la cattedra; Chiovanda, fondatore della
procedura civile; Tommaso Perassi, diritto internazionale e consulente
dei governi fino ai primi subentrati con la Liberazione. E tanti altri,
a livelli sempre alti, di liberi docenti o di assistenti.
Un elenco di nomi che inorgoglisce quanti li hanno avuti come maestri
e come educatori di modo di vita.
Probabilmente di loro e di quanto ci hanno insegnato siamo stati e
siamo più consapevoli nel decorrere degli anni che non nel
quadriennio del corso di laurea. Qualche cosa del genere forse ce
lo diceva quel bidello od uscire che nel corso del quadriennio ci
appellava con il titolo di avvocato e a laurea conseguita introduceva
il titolo di dottore. C'era certamente la mancia di mezzo, ma c'era
anche un'elementare saggezza.
E naturalmente ci sono anche i compagni di università da ricordare.
Fra questi pongo due fuori corso, per riconoscimento di anzianità
ed anche per loro successiva affermazione. Uno era Leone Cattani,
ministro nei primi governi De Gasperi, esponente del partito liberale,
ma mi sembra modesto impiegato dell'ICE, mentre era in attesa di una
laurea che per lui non doveva essere troppo a portata di mano. Solo
ispirata a reciproca curiosità era la frequentazione con lui,
dati i ristretti limiti di tempo che mi erano stati assegnati per
il conseguimento della laurea. Sulla stessa linea erano i nostri rapporti
con un altro fuori corso, Manlio Lupinacci, giornalista dopo, monarchico,
fra i tre o quattro italiani che hanno salutato Re Umberto II, il
re di Maggio, all'atto della partenza da Ciampino verso l'esilio.
E poi c'erano i compagni che valevano. Uno di questi era un ebreo,
laureato a 20 anni in diritto internazionale e qualche anno dopo già
docente in università statunitensi; e poi taluni futuri ambasciatori,
qualche grande avvocato, qualche grosso consulente di enti pubblici,
uno dei quali - mio indimenticabile amico - nelle festività
natalizie restituiva personalmente le bottiglie di vino ai mittenti.
Questi erano i modi di essere dei tentativi di "tangenti"
di allora, e per noi è stato facile intenderli e respingerli
sempre così. Difatti ci è stato insegnato anche questo.
Compagni, e questa volta anche ammirati, erano anche taluni che già
erano divenuti giornalisti, la professione di cui ero aspirante anch'io.
Vi era uno che poi è divenuto uno dei più grandi corrispondenti
dall'estero della radio prima e delle televisione poi: allora però
era capo ufficio stampa della federazione fascista di Roma. Vi era
poi un redattore de "Il Corriere della Sera", poi noto redattore
parlamentare dello stesso quotidiano. Vi era il vice capo dell'ufficio
romano del "Gazzettino", veneto anche lui, con il consueto
tono di voce dei veneti che li fa apparire incavolati, mentre semplicemente
parlano; un altro grosso giornalista poi, grande opinionista come
si dice adesso, e del quale parlerò in seguito. Allora però
doveva indossare il tight, perché facente parte dell'ufficio
del cerimoniale del Governatore di Roma, il melanconico principe Ludovico
Potenziani.
Erano questi compagni di università che avevano già
trovato posti e compensi. Altrettanto cercavo di fare io. E perciò
scoprii che mentre nel nostro Gruppo universitario vi erano sezioni
che si occupavano dei problemi della Società delle Nazioni,
dello sport, dell'aeronautica, con relative sedi negli uffici della
zona (Palazzo Carpegna, addirittura Palazzo Braschi), nessun organismo
riguardava il settore coloniale.
I giovani per
le colonie, quando ci sono state
Addirittura da matricola assunsi questa iniziativa: siamo agli inizi
del 1927. Allora l'interesse per questa realtà era suscitato
naturalmente dalle rivissute o rivivibili rimembranze storiche, con
accentuazioni per Crispi, per la riconquista della Tripolitania da
parte di Volpi di Misurata, per la recente nomina (dopo l'allontanamento
dal Viminale per il delitto Matteotti) a governatore della Tripolitania
del quadrumviro Emilio De Bono; per il ritrasferimento alle Colonie
di Luigi Federzoni, già giornalista con lo pseudonimo Giulio
de Frenzi, e dopo che era stato ministro dell'Interno: una sorta di
garantista dopo quanto era accaduto con il delitto Matteotti, inutile
tuttavia dopo in tale qualifica, perché era intervenuto il
discorso del 3 gennaio. E questa è una storia più che
nota, perché scandagliata da tutte le parti. Però chi
continua a studiare queste cose e chi è stato contemporaneo
di queste cose potrebbero attivare un dialogo più fitto, che
molto spesso non c'è.
La realtà colonialista di allora si esprimeva con un giornale
di origine nazionalista. L'Idea Coloniale, testata collegata al quotidiano
Idea Nazionale, che avevano come esponenti Enrico Corradini e Luigi
Federzoni, persone di cui dirò dopo; con militari che avevano
partecipato alle campagne d'Africa: qualcuno addirittura ad Adua;
con studiosi aderenti alla Società Geografica, che non esiste
più; con funzionari centrali e periferici dell'Amministrazione
coloniale. I giovani non c'entravano per niente. Ed io, più
nell'incoscienza che nella consapevolezza, ho avuto la ventura di
esserne iniziatore. Più tardi un autorevole direttore di un
sopravvenuto periodico, sostitutivo di tutti gli altri, Roberto Cantalupo,
già opinionista de "Il Corriere della Sera", poi
sottosegretario alle Colonie, poi Ambasciatore d'Italia al Cairo,
mi chiese di scrivergli un articolo sui giovani e le Colonie. lo risposi
con un articolo che però non piacque, perché dicevo
quanto bisognasse fare a questo fine e lui invece desiderava conoscere
il perché i giovani si interessassero delle Colonie.
Cosa si dovesse fare, dunque. Ed io ho cercato di fare la mia parte.
Mi rivolsi all'Idea Coloniale, che aveva creato anche l'organizzazione
degli Amici dell'Idea Coloniale. Vi era a capo un funzionario del
ministero delle Colonie, Nobili Massuero e come segretario generale
un giornalista, Guido Cortese, poi divenuto famoso perché protagonista
di una certa notte di San Bartolomeo, allorché il vicerè
dell'Africa Orientale Graziani subì il noto attentato e Cortese
ordinò le note rappresaglie.
Parlai perciò a Cortese, di cui dirò ancora più
innanzi, per proporgli la mia iniziativa, universitaria, ma lui mi
disse che non era ad una matricola che si potesse affidarne l'incarico.
Intrapresi perciò un'altra strada, e forse l'ho intravista
perché c'è l'ottimismo della volontà: una virtù
che ognuno deve inventare e volere per se stesso. Raccolsi pertanto
le firme di molti miei colleghi per sollecitare al GUF la costituzione
di una Sezione Coloniale, di cui ottenni la nomina a Delegato. Naturalmente
era indispensabile l'iscrizione al GUF, ottenendo pure il riconoscimento
della mia iscrizione all'Avanguardia Giovanile fascista di Melfì
che risaliva, nonostante i miei 13 anni di allora, al I° settembre
1922. Il mio nascente colonialismo insolito per quei tempi mi inserì
nella goliardia fascista di quei tempi che era tutt'altro che partitica,
men che mai squadrista e ideologizzata solo nei campi di interesse
culturale. Nella fattispecie, il colonialismo aveva a che fare con
le motivazioni nazionaliste, confluite polemicamente prima e poi in
parte non secondaria dottrinaria nel fascismo.
Nell'attuazione delle varie iniziative, il mio sostegno principale
fu il Rettore e poi il ministro delle Colonie, Federzoni, che si avvaleva
di un'ottima collaborazione burocratica ed anche di attivazione propagandistica.
Potei così promuovere il primo viaggio universitario in Tripolitana,
con 400 lire di quota su di una sconquassata nave di linea, fra i
cui passeggeri c'era Guglielmo Marconi, lo storico Gioacchino Volpi,
il presidente della Dante Alighieri, ecc.
Tripoli allora era dominata dal castello, da un abbozzo di lungomare
che poi - quando le Colonie divennero "province italiane"
- fu ampliato e modernizzato. C'era pure una piazza, denominata del
Pane, ed un intricato complesso di suks, con una discreta percentuale
di ebrei. C'erano le vestigia di Sabratha e di Leptis Magna, c'era
un governatore ed un segretario generale con tanto di divisa e tanto
di barbe, non fluenti in verità, ed una complessiva fisionomia
non nettamente definibile, perché l'Europa era vicina ed il
Sahara lontano, perché i confini fra zona realmente occupata
e zona ribelle erano quanto mai fragili. Lo stesso Garian pure con
i trogloditi era insicuro, al punto che un nostro ritardato rientro
a Tripoli provocò addirittura preoccupazioni e soccorsi militari.
Il sistema economico e civile si fondava non sulla concretezza immediata,
ma su poche iniziative che avevano a che fare con le prime opere pubbliche
e con un'agricoltura che ricercava avidamente l'acqua e tentava di
escogitare più avanzati e diffusi utilizzi dell'aratro a chiodi.
Un emblema che oltre 30 anni dopo, a San Francisco, un professore
dell'Università di Barkley mi disse riguardava ancora l'intera
agricoltura italiana. L'informazione su di noi, anche di professori,
non è stata mai un punto di forza per tanti osservatori stranieri.
E naturalmente con molti compagni, fra cui qualcuno scelse successivamente
anche la carriera coloniale con tanto di divisa e di caratteristiche
e funzioni che la rendevano un succedaneo della meno improbabile carriera
diplomatica.
Mi è occorso di realizzare tante iniziative: conferenze, lezioni,
viaggi, concorsi (fra cui uno sul "perché l'Italia doveva
essere Nazione coloniale"), ecc.
Fra le iniziative che però non andarono subito a buon fine
ci fu quella della creazione di un settimanale, dal titolo facilmente
inventato da me, L'Azione Coloniale, che ripeteva nominalmente il
titolo del volume del ministro delle Colonie Venti mesi di azione
coloniale.
E qui ci sono i piccoli medaglioni di ministri del tempo che dovemmo
incontrare. C'era oltre al nostro dante causa maggiore, Federzoni,
che pazientemente ci dava ascolto, dandoci pubblicazioni ministeriali
e prodigandoci consensi il cui punto massimo era il sorriso, il ministro
dell'istruzione, non ancora educazione nazionale, con sede a Piazza
della Minerva. Era il professore Fedele, benevolo nell'intenzione,
ma disinteressato nella ricerca delle possibili soluzioni e dell'erogazione
di aiuti. A parte le testimonianze lasciate da lui nella bibliografia
storiografica, mi sembra, un tratto caratteristico e strettamente
individuale era l'uso delle scarpe gialle sotto la redingote nera
d'obbligo. Gli stilisti non c'erano ancora, ma qualcuno senza saperlo
si sbizzarriva così. Lo stesso Mussolini, poi Starace, ecc.
lo hanno fatto per tutto il ventennio e forse una tematica fotografica
così realizzata non sarebbe inutile. Costume e costumi.
Altri personaggi del tempo erano un vice segretario generale del partito,
che di fronte alle nostre sollecitazioni ed impazienze ci ammoniva
con lo scritto: "cari amici, non mettete il partito di fronte
al fatto compiuto". Non ricordo se a quel tempo il Regime avesse
già creato il Tribunale Speciale, ma certi nuclei universitari
apparendo creativi erano appena tollerati. E così fu anche
per quattro di noi, con me Vittorio Gorresio, Marco Pompilio, Mario
Pigli, poi con curriculum che è stato di diverso spessore,
riflettendo ora modestia di risultati ora maggiore rilevanza, che
fummo sottoposti a solenne deplorazione (resa però subito inoffensiva
e non pubblicizzata) dalla Corte di disciplina del partito. Questa
era presieduta dal suo segretario nazionale, Giurati. Eravamo responsabili
di aver pubblicato lo stesso giorno quattro articoli, su quattro diversi
giornali, di netta critica all'azione dell'Istituto Coloniale fascista,
che era a sua volta presieduto dal senatore milanese Venino. D'altronde,
lo stesso Mussolini rispondendo ad una relazione di detto Istituto
aveva affermato che in essa si riscontravano zone di luce, ma anche
di ombra. E naturalmente noi con il nostro volontariato in detto istituto
ci attenemmo a queste ultime. Le gerarchie del tempo erano queste,
nella frequentazione di questa mia limitata orbita.
Al nostro esterno c'erano tante ispirazioni e scelte del tutto opposte.
Su quelle di segno conforme testimonianze e storia si sono largamente
pronunciate, ma altri approfondimenti vengono predisposti ed annunziati,
con riguardo alla profondità dei sondaggi sul preteso o per
alcuni effettivo "unanimismo" di quel periodo.
Della mia generazione il più rappresentativo nell'opposizione
è stato certamente Giorgio Amendola, ma nella mia ascendenza
non posso non ricordare Nitti, da cui nell'intero secolo la mia famiglia
mai è stata distante; il volto di Filippo Turati sugli scalini
di Montecitorio o nel caffè Guardabassi; la folta barba di
Modigliani, il deputato del "viva il Parlamento" al discorso
di Mussolini sul "bivacco"; gli occhi straordinariamente
neri e sprizzanti intelligenza di un Don Luigi Sturzo, con l'allora
passo rapido da me intravisto su Ponte Cavour, ed ancora Alberto Giovannini,
allora segretario generale del Partito liberale e, dopo la liberazione,
ministro. Si occupava anche lui allora di colonie ed ha scritto anche
una storia dell'Aventino. E poi ci sono gli antifascisti, miei professori,
tali rimasti, avendo dovuto rinunciare alla cattedra. E cito Orlando,
che però nel '35, all'epoca della "guerra d'Africa",
scrisse al capo del governo di essere a disposizione "per spirito
di servizio"; Umberto Ricci, docente di economia politica all'Università
di Roma, già verificatore di pesi e misure al mio paese (come
si chiamavano allora), che si trasferì all'Università
del Cairo per continuare ad essere quello che era, e cioè liberale,
ed altri ancora.
La penna sovrapposta
al Colosseo
Ma in questo periodo della mia vita ci sono anche giornalismo e giornalisti.
Un mio primo articolo rispondeva al tema richiestomi: "Che volevano
i giovani dalle Colonie". Doveva essere pubblicato, naturalmente
gratuitamente, su di una rivista la cui intestazione aveva a che fare
con l'Impero. Di questo allora non c'erano tracce, se non in un quotidiano
vistosamente di punta.
Successivamente cominciai ad offrire i miei articoli, senza compenso,
ad un giornale, che a distanza di anni ho sempre ritenuto di avanguardia
dal punto di vista redazionale ed editoriale. Il suo direttore era
Telesio Interlandi, e lo ricordo per questa identità, ripeto,
di formula più che di contenuti. Lo difendo così nella
mia memoria, come l'ho difeso in verità senza riscontro nemmeno
approssimativamente non negativo presso altri. E' stato agli inizi
un tipo di giornale certamente anticipatore per i tempi. Durante il
fascismo ha svolto funzioni di punta spesso anche con pretese culturali,
in talune fasi completamente da combattere e talvolta, almeno si dice,
lo stesso Mussolini non le condivideva, però se ne serviva.
Altro giornalista da me frequentato è stato Giorgio Pini, direttore
ai miei esordi di giornalista de Il Giornale di Genova e poi redattore
capo de Il Popolo d'Italia e sottosegretario all'Interno a Salò.
Di lui sono stato editorialista coloniale a Il Giornale di Genova.
La sua virtù più evidente per me, oltre ai libri che
ha scritto e prescindendo dai compiti che ha svolto, è stata
quella del sorriso. Qualcuno mi ha detto che era troppo poco, poi
si è ricordato che c'era pure stata contemporaneamente l'epoca
dei ganasciuti.
E due altri nomi, a conclusione di questa fine degli anni '20: Margherita
Sarfatti e pure il ras di Cremona, Roberto Farinacci.
Il mio primo articolo su di una rivista particolarmente importante
- perché il direttore, almeno formalmente, ne era Mussolini
ed anche perché compensava gli articoli: a me esordiente venivano
corrisposte 400 lire ad articolo - è stato su Gerarchia. La
dirigeva di fatto Margherita Sarfatti. L'ho conosciuta di persona
quando le richiesi una brevissima dichiarazione su quella che avrebbe
dovuto essere o era la letteratura coloniale. La dichiarazione doveva
essere pubblicata su di una pagina periodica de Il Tevere di cui ho
detto prima e che Interlandi, accettando la mia proposta di istituirla,
intitolò "Vita dell'Italia d'oltremare". Un oltremare
che faceva premio sul termine Colonie. La Sarfatti abitava allora
in via Nomentana, all'altezza di Villa Torlonia. Mi impressionò
il suo volto di stimolante intelligenza oltre che notoriamente bello.
Ma di lei ricordo l'immediatezza, l'estrema prontezza, il giornalismo
di impeto proprio perché prontamente mobilitava la sua penna.
Ed infine eccomi con il Farinacci, come l'ho visto io, essendo editorialista
sempre e soltanto coloniale del suo giornale, che come il suo direttore
poco piaceva a Mussolini.
L'ho visto tre volte. La prima nel grosso cortile del ministero delle
Finanze di allora, in via XX Settembre. Era su di un'auto con un deputato
di Bari, Re David, che mi conosceva perché mi interessavo della
Fiera del Levante. Egli deve avergli parlato di me, questo suo sconosciuto
collaboratore, cosicché la macchina fu fermata e con Farinacci
scambiammo le pur difficili, per me allora, parole d'occasione.
La seconda volta lo incontrai, per conoscerei meglio, all'Hotel Bristol
di Roma, e ricordo che gustava avidamente un aperitivo con tanto di
buccia di limone. Certamente abbiamo parlato, tanto più che
era presente pure il capo dell'ufficio romano del suo giornale: un
Rocco con barba nettamente nera, di vecchio giornalismo e "tormentone"
ai tempi del Becco Giallo, avente di mira il presidente della Camera,
onorevole Casertano. Questo giornalista, napoletano, di vecchio giornalismo,
si era evidentemente "accomodato" nella nuova veste.
La terza volta fu dinanzi all'Hotel Bristol - ora si chiama mi sembra
Bernini - ed era la vigilia di Natale o di Capodanno. Lo salutai.
Gli feci i soliti auguri e per completare il discorso gli chiesi dove
andasse. Mi rispose: vado in famiglia. Vado in una famiglia. Colsi
e ricordo la differenza delle due dizioni e forse le cronache di quei
tempi, confermate dopo, mi suggerivano qualcosa. Senza bisogno di
"spazzature", come si definiscono oggi, perché il
mio mestiere mi ha portato altrove e forse se "spazzature"
ho incontrato queste riguardano l'arbitrarietà di tante cifre
economiche, rispetto alle quali il mio mestiere mi ha condotto sempre
- e lo rivendico - ad essere sempre circospetto.
I miei anni '20 si sono conclusi con la laurea. Sono iniziati invece
gli anni '30 con la mia iscrizione all'Associazione della Stampa Romana
nel dicembre del 1930. Quarant'anni dopo mi è stata assegnata
una medaglia d'oro che me ne dà personale riconoscimento. L'ho
avuta insieme ad altri, fra cui Renato Angiolillo, fondatore de Il
Tempo.
Nel retro della medaglia è riprodotto un Colosseo al quale
è sovrapposta una penna d'oca. Il nostro emblema, pur nel tempo
della telematica: perché è quella penna che deve rimanere
sempre pulita.
Quanto dirò in seguito, nei prossimi medaglioni, confermerà
quanto mi sia cara e fedele quella penna.