§ MEDAGLIONI

VOLTI E NOMI DEL PRIMO DOPOGUERRA




Gennaro Pistolese



Sempre a causa della mia anagrafe, anch'io ho il mio "ventennio". Ognuno dice di aver sempre mantenuto gli occhi aperti: per convinzione anche nella contrapposizione, per costrizione, per la giovane età nel pro e così via.
Ma pure in clima di "unanimismo", ognuno ha avuto anche allora la propria storia, che quale sia stata offre spunti pure di orgoglio. Orgoglio che frequentemente si coniuga con la coerenza, che è valida solo se costante; con un continuo confronto con la propria coscienza e la propria cultura mai contingente; con un modo di essere e di partecipazione aperto all'autocritica, ma intimamente alieno da ogni smentita di se stesso.
Molti giovani che allora avevano 12 anni sono entrati così nel "ventennio". Questi miei tentativi di medaglioni, di "Incontri" di lungo o breve momento, hanno a che fare con tante figure, talune rilevanti, altre più o meno ignote oggi, ma indicative sempre di un clima emblematico di un tempo, che in gran parte è stato di guerre.
Il mio "ventennio" sta nella scuola media, nell'Università, poi nella vita professionale e giornalistica, e perciò pure nelle rimembranze di colleghi, di editori, di "gerarchi", nei volti degli oppositori, cui toccò la sorte di non riuscire ad evitare la marcia su Roma, ma, forti dopo di crescente partecipazione e consenso, di sigillare la fine di un regime.
Ed ecco le rapide notazioni come solo la memoria le suggerisce. La storia la scrive chi ne è capace ed io chiaramente non lo sono. Ma la storia ha bisogno pure di chi in essa per il lungo trascorrere degli anni, anche da anonimo, ha trovato posto.

Il Collegio Romano
Scuola media, dunque, a Roma: in una Roma che non aveva ancora raggiunto il milione di abitanti. Che aveva punti di riferimento per tutti centrali: monumenti, piazze, strade, pure negozi. Se taluni di essi, fra strade e negozi, sono anche scomparsi, hanno tuttora una loro memoria, che purtroppo è vivente più in personali ricordi che non in libri, nei quali gli anziani possano vedersi come in uno specchio ed i giovani rinvenire motivi di riflessione.
La scuola media che ho frequentato si è caratterizzata - e se merito c'è non è mio, ma di mio padre, che l'ha scelta per darmi più spessore, ma io a questo riguardo non ho alcuna esemplare pagella da rivendicare - per grandi nomi e tradizioni: il Collegio Romano e cioè il Visconti, l'Istituto Massimo, il Dante Alighieri.
Al "Visconti" ho concluso il ginnasio classico. Ricordo la fama degli insegnanti, ma pure il mio modesto profitto: di un meridionale sostanzialmente spaesato, con la pratica del "voi", che il regime ha scoperto una quindicina di anni dopo.
C'era comunque un grosso insegnante di italiano, latino e greco, che all'alunno distratto annunziava il suo "bravo zero", che poi dimenticava di segnare sul registro.
Come pure c'era un illustre docente di matematica, la cui autorità era evidenziata da numerosi ed importanti libri di testo e da una fluente barba bianca. Sapeva di contare su di una ristrettissima cerchia di alunni e gli altri li trascurava per interrogarli solo una volta nel trimestre, per confermare solo un voto negativo. Fra questi c'ero anch'io.
Due insegnanti, donne, una di Scienze naturali e l'altra di Francese. La prima chiaramente piaceva a Giorgio Amendola, che è stato mio compagno di classe e che allora era noto solo perché figlio di Giovanni Amendola. La seconda si metteva le mani nei capelli allorché mio padre le domandava notizie sul mio profitto e la condotta.
Giorgio Amendola non l'ho più rivisto né frequentato. Allora partecipava alle manifestazioni del "partito del soldino" - un soldino appunto infilato nell'asola della giacca -ed a quelle della Camera del Lavoro: soprattutto correndo.
Di lui ricordo che era amico, e lo è rimasto per i decenni successivi, del nipote di Battistini. Questi è stato anche per lunghi anni mio amico. Dato che nella mia vita scolastica ho scelto sempre gli ultimi banchi, mi ero posto alle sue spalle, perché la loro ampiezza mi rendeva possibile appoggiarvi il libro sul quale tranquillamente avrei potuto leggere la poesia che l'insegnante mi domandava di "recitare". La pedagogia allora veniva fatta anche così. Ma Battistini mi piaceva perché aveva musicato il Te Deum a tempo di jazz, e siamo nel 1922! Molti anni dopo è finito in un Commissariato di polizia, perché aveva dato fuoco ad un materasso della pensione nella quale viveva e rispondendo alle domande del commissario aveva dato fuoco anche alla sua scrivania con la spiegazione riassuntiva: "perché la fiamma è bella". Gabriele D'Annunzio avrebbe ingigantito questa frase.
Battistini, molti anni più tardi, nello spiegare perché era divenuto redattore di un giornale comunista, mi disse che lo aveva fatto solo per insegnare ai suoi nuovi colleghi come si dovesse indossare una camicia di seta. E l'insegnamento lo faceva discendere dalla sua. Quella di un ex ragazzo, come me, che sempre al Visconti disegnava l'anziano nostro professore con tanti peli sulle gambe, in calzoncini corti, con l'armamentario dell'alpinista.
Erano le prime contestazioni nella scuola, che circolavano con tanto compiacimento da parte nostra. Allo zio di Battistini hanno dedicato tante strade. Del nipote parla solo qualche insignificante superstite, che però rivendica un tempo che c'è anche stato, ma che nessuno ha pensato di enfatizzare.

La scuola una volta esclusivamente per nobili
E veniamo al "Massimo", alle spalle di Piazza Esedra, oggi forse Piazza della Repubblica. E' un palazzo che è stato sempre imponente, anche quando per tanti anni è stato fatiscente, nella lunga attesa di divenire alla fine un museo. Vi sono entrato agli inizi dell'anno scolastico, che sul finire ha registrato - fatto nazionale straordinario - il delitto Matteotti.
In questo Istituto, a differenza di quanto la mia memoria registra per il Visconti, sono più vivi i ricordi concernenti gli insegnanti che non quelli riguardanti i compagni, e ciò forse perché nessuno di loro è stato poi emergente. Gli insegnanti erano prevalentemente gesuiti, ma quelli laici dividevano con loro chiaramente la cultura.
C'erano quattro padri, uno decisamente arcigno. Insegnava greco, nella diffusa indifferenza degli alunni, ma non disdegnava di ammonire uno dei più brutti della classe con l'invito a "non fare il bel giovane". Dei suo greco non mi è rimasto niente.
C'erano pure due insegnanti gesuiti, uno di storia e l'altro di filosofia, e di questi, a differenza del professore di greco, non ricordo il nome, ma essi avevano capito che la prima virtù del docente è quella di farsi volere bene.
E c'era il padre prefetto. Questo tipo di prefettura, che non immaginava l'importanza che avrebbe avuto nella vita istituzionale del Paese, esisteva anche nel convitti nazionali. Il padre prefetto doveva mantenere una disciplina che naturalmente esistendo allora non dava fastidio.
Il ruolo di questo incarico comportava fra l'altro anche quello di chiamare per nome nell'atrio di accesso i principi, alunni come noi, che erano esonerati dal partecipare alle lezioni pomeridiane solo perché contemporaneamente aveva luogo il derby: non quello di calcio, ma quello dei cavalli. Ricordo, fra gli altri, il principe Ruffo di Calabria, anche oggi ce ne sono diversi variamente dislocati, ma quello che ricordo io aveva dei grossi occhialoni, evidentemente più meritevoli di menzione per me dei titoli nobiliari.
Ed infine c'erano tre professori laici. Uno di italiano si chiamava, non insolitamente anche allora, Napolitano. Forse era siciliano. Sapevo di non piacergli, anche perché mostrava meraviglia di vedermi affiancato nel banco ad un compagno di gran lunga più bravo di me. Riferendo poi a mio padre sulle mie attitudini aveva detto che ero dotato di scarsa fantasia. E questo non era certo un segno positivo nella scuola. Forse lo è, per la mia professione di giornalista, nella vita. D'altra parte, sia chi ce l'ha sia chi ne è privo, la dose necessaria per vivere ce l'ha.
L'altro professore, questo di chimica (materia della quale non mi è quasi mai importato granché), si chiamava Faure, non era francese, ma ad un certo momento disse alla scolaresca disattenta alle formule ed agli annunci di esperimenti che avevano la sorte di non essere mai effettuati che l'esistenza umana, nella sopravvivenza nell'aldilà, non avrebbe mai avuto fine. Senza fine! Altro che i gratuiti perché, inutilmente compiacenti di certi titoli di canzoni di oggi. Ed infine c'era il semplificatore professore di matematica (mi piaceva e perciò ne ricordo il nome: si chiamava Vitanzi). Aveva capito che io ero un alunno cronicamente riluttante rispetto alla matematica: eppure per tutta la mia vita le cifre non sono mai state al secondo posto, oltre tutto per la specificità economica della mia professione giornalistica. Mi chiamava alla lavagna quando non ne poteva fare a meno e conosceva la mia renitenza all'appello ovviamente prevedibile. lo quindi non mi muovevo dal banco, e lui si limitava a farmi capire con le mani che il mio voto sarebbe stato zero. lo dal canto mio mi limitavo a dare segni della mia rassegnazione ad un voto che sulla pagella si riduceva ad un tre. Le avversità della vita. Il professore si chiamava Vitanzi, ma l'ho innanzi ai miei occhi: quasi 70 anni dopo, perché tante cose senza cifre ci dicevamo l'un l'altro.
Ma questo 1924 è stato pure l'anno del delitto Matteotti, che lo ho vissuto.
Fra l'altro mio padre leggeva Il Mondo: un giornale che per me era di casa ed io lo sbirciavo. Era diretto da Enrico Cianca, aveva come ispiratore, opinionista come si dice adesso, Giovanni Amendola. Ma questo delitto lo conoscevo anche perché i magistrati che conducevano l'indagine frequentavano a via Cola di Rienzo a Roma la stessa edicola di cui ero assiduo cliente per comperare il Becco Giallo.
La mia convinzione e conoscenza di allora mi fanno dire oggi che sono stato un "quartallerista" e chi non conosce questo termine deve sapere che esso significa convinzione della responsabilità del regime in merito all'assassinio del deputato socialista.
Tre compagni di classe dopo mi imputarono di aver detto che Mussolini ne era responsabile: un calabrese, poi avvocato, mi rispose che anche lui era responsabile come Mussolini, un altro è divenuto ambasciatore (e ne ricordo il nome, ma non lo cito, perché tante altre affermazioni suscettibili di pentimento ha dovuto anche lui fare), ed un terzo è stato Console generale a San Francisco.
Forse la conformità ai governi temporanei era la regola per l'accesso a certe categorie, come lo era per quella diplomatica quella di essere stato ufficiale di cavalleria. E perciò certe scelte nulla avevano a che fare con le vocazioni. Vocazioni che per me hanno riguardato quella giornalistica, che nella sua ispirazione per la libertà non accetta altri condizionamenti che non siano quelli della propria coscienza.

Scuola privata di un tempo e Gentile era in agguato
L'ultimo tratto di trada, di questa strada, concerne il terzo liceo, e pertanto il mio "Dante Alighieri": alle spalle del Tasso di oggi. Era un istituto privato, fondato e diretto da un ex preside di scuola pubblica ed aveva come insegnanti o validissimi e noti insegnanti pubblici pensionati o giovanissimi che iniziavano la loro carriera e qualcuno di essi è poi divenuto fra i maggiori esponenti e studiosi della disciplina loro affidata. Ricordo fra tutti Enrico Castelli, discepolo di Varisco, assurto pochi anni dopo a direttore di cattedra e segretario generale della Società filosofica nazionale. Il suo insegnamento era quanto mai selettivo, nella determinazione degli autori oggetto del suo programma scolastico e nella metodica espositiva ed intelligentemente sintetica. Anche gli altri insegnanti avevano lo stesso metodo di insegnamento, ma lui l'aveva raffinato anche di più, consentendomi con quanto così ho appreso da lui di suscitare addirittura la particolare soddisfazione ed il più che significativo riconoscimento di voto del mio esaminatore: un professore ordinario dell'Università di Firenze. Questo esame di maturità classica trascinò tutti gli altri, insieme a quello di italiano. Per questo, da giornalista ante litteram, avevo previsto il soggetto del tema scritto, San Francesco, in coincidenza con la ricorrenza storica del 1926. Figuratevi come mi fossi preparato! Era questo il primo anno di applicazione completa per tutto il triennio della riforma Gentile: una cosa tremenda, come la definivano i miei compagni di scuola più anziani, che avevano già tentato inutilmente la prova.
La riforma Gentile! Lo scheletro non nell'armadio della scuola italiana fino ai giorni nostri, nonostante la "Carta della Scuola" di Bottai che riteneva di aver rivoluzionato il sistema ed invece aveva modificato qualche contenuto solo con la forma. E fra queste forme appunto volute da Bottai c'era anche il discutibile procedimento di nomina dei Provveditori agli studi: uno dei quali lo divenne per meriti fascisti e certamente non già perché preferiva scrivere recenzione, con una esse dimenticata... Lo conoscevo perché presentava senza economia di carta bollata domande di concorso pubblico quale che ne fosse stata l'amministrazione.
I professori erano così. I compagni di classe tutti più o meno malinconici, e le loro successive carriere ne hanno particolarmente risentito. Forse di Gentile - ma io quando divenne presidente dell'Enciclopedia Treccani lo conobbi personalmente anche sorridente - bisognerà avere pure questo ricordo.

Infine alla "Sapienza": quella vera
La "Sapienza" è stata l'altro mio sospirato traguardo: un traguardo in vista del quale mi sono dato quella che a Roma si chiama una "regolata". Uso questa parola popolaresca perché giunge, quasi geneticamente, dal nostro io. Fra l'altro mio padre esigeva, dico esigeva, che al preciso compimento dei miei 21 anni avessi conseguito la laurea, precisamente in giurisprudenza, che secondo lui apriva la strada a tutte le carriere di allora. Del resto a 21 anni lui aveva conseguito la stessa laurea a Napoli con Re Umberto I, e prima di lui suo padre, però a 19 anni sotto i Borboni.
Secondo me la Sapienza - allora sede della Facoltà di giurisprudenza e non di altre - sul finire degli anni '20 e nei primi inizi degli anni '30 è stata l'espressione più alta della cattedratica universitaria, con maestri che sono stati i fondatori delle discipline che insegnavano.
I loro nomi giganteggiano. Le loro persone erano tutt'altro che esorbitanti, riuscivano a combinare modestia e dignità. Ed erano insegnanti e maestri di vita anche in questo. La società stessa li voleva così e perciò li riconosceva come maestri. Purtroppo i confronti di sopravvenienze condurrebbero solo a lunghi discorsi, probabilmente anche inutili.
Ed ecco i medaglioni, suscitati da ricordi duri a morire: Giorgio Del Vecchio per la filosofia del diritto, rettore per lunghi anni dell'intera Università di Roma, maestro in una didattica che implicava subito gli allievi e li aiutava, ma ne parlerò anche dopo; Vittorio Scialoia, fondatore del diritto romano, rappresentante anche dell'Italia alla Società della Nazioni; Pietro Bonfante, diritto romano, che il suo maestro Scialoia diceva migliore di lui; Cesare Vivante, fondatore del diritto commerciale, autore di Codici di vari Paesi dell'America Latina; Guido de Ruggero, istituzioni di diritto privato, autore di un testo divenuto quasi storico; Rodolfo Benini, fondatore della statistica; Antonio Salandra, diritto amministrativo, pure Capo del Governo; Vittorio Emanuele Orlando, diritto costituzionale e Presidente del consiglio della Vittoria della guerra 15-18; Enrico Ferri, diritto penale, celebre a quei tempi più per quanto faceva fuori che non dietro la cattedra; Chiovanda, fondatore della procedura civile; Tommaso Perassi, diritto internazionale e consulente dei governi fino ai primi subentrati con la Liberazione. E tanti altri, a livelli sempre alti, di liberi docenti o di assistenti.
Un elenco di nomi che inorgoglisce quanti li hanno avuti come maestri e come educatori di modo di vita.
Probabilmente di loro e di quanto ci hanno insegnato siamo stati e siamo più consapevoli nel decorrere degli anni che non nel quadriennio del corso di laurea. Qualche cosa del genere forse ce lo diceva quel bidello od uscire che nel corso del quadriennio ci appellava con il titolo di avvocato e a laurea conseguita introduceva il titolo di dottore. C'era certamente la mancia di mezzo, ma c'era anche un'elementare saggezza.
E naturalmente ci sono anche i compagni di università da ricordare. Fra questi pongo due fuori corso, per riconoscimento di anzianità ed anche per loro successiva affermazione. Uno era Leone Cattani, ministro nei primi governi De Gasperi, esponente del partito liberale, ma mi sembra modesto impiegato dell'ICE, mentre era in attesa di una laurea che per lui non doveva essere troppo a portata di mano. Solo ispirata a reciproca curiosità era la frequentazione con lui, dati i ristretti limiti di tempo che mi erano stati assegnati per il conseguimento della laurea. Sulla stessa linea erano i nostri rapporti con un altro fuori corso, Manlio Lupinacci, giornalista dopo, monarchico, fra i tre o quattro italiani che hanno salutato Re Umberto II, il re di Maggio, all'atto della partenza da Ciampino verso l'esilio.
E poi c'erano i compagni che valevano. Uno di questi era un ebreo, laureato a 20 anni in diritto internazionale e qualche anno dopo già docente in università statunitensi; e poi taluni futuri ambasciatori, qualche grande avvocato, qualche grosso consulente di enti pubblici, uno dei quali - mio indimenticabile amico - nelle festività natalizie restituiva personalmente le bottiglie di vino ai mittenti. Questi erano i modi di essere dei tentativi di "tangenti" di allora, e per noi è stato facile intenderli e respingerli sempre così. Difatti ci è stato insegnato anche questo.
Compagni, e questa volta anche ammirati, erano anche taluni che già erano divenuti giornalisti, la professione di cui ero aspirante anch'io. Vi era uno che poi è divenuto uno dei più grandi corrispondenti dall'estero della radio prima e delle televisione poi: allora però era capo ufficio stampa della federazione fascista di Roma. Vi era poi un redattore de "Il Corriere della Sera", poi noto redattore parlamentare dello stesso quotidiano. Vi era il vice capo dell'ufficio romano del "Gazzettino", veneto anche lui, con il consueto tono di voce dei veneti che li fa apparire incavolati, mentre semplicemente parlano; un altro grosso giornalista poi, grande opinionista come si dice adesso, e del quale parlerò in seguito. Allora però doveva indossare il tight, perché facente parte dell'ufficio del cerimoniale del Governatore di Roma, il melanconico principe Ludovico Potenziani.
Erano questi compagni di università che avevano già trovato posti e compensi. Altrettanto cercavo di fare io. E perciò scoprii che mentre nel nostro Gruppo universitario vi erano sezioni che si occupavano dei problemi della Società delle Nazioni, dello sport, dell'aeronautica, con relative sedi negli uffici della zona (Palazzo Carpegna, addirittura Palazzo Braschi), nessun organismo riguardava il settore coloniale.

I giovani per le colonie, quando ci sono state
Addirittura da matricola assunsi questa iniziativa: siamo agli inizi del 1927. Allora l'interesse per questa realtà era suscitato naturalmente dalle rivissute o rivivibili rimembranze storiche, con accentuazioni per Crispi, per la riconquista della Tripolitania da parte di Volpi di Misurata, per la recente nomina (dopo l'allontanamento dal Viminale per il delitto Matteotti) a governatore della Tripolitania del quadrumviro Emilio De Bono; per il ritrasferimento alle Colonie di Luigi Federzoni, già giornalista con lo pseudonimo Giulio de Frenzi, e dopo che era stato ministro dell'Interno: una sorta di garantista dopo quanto era accaduto con il delitto Matteotti, inutile tuttavia dopo in tale qualifica, perché era intervenuto il discorso del 3 gennaio. E questa è una storia più che nota, perché scandagliata da tutte le parti. Però chi continua a studiare queste cose e chi è stato contemporaneo di queste cose potrebbero attivare un dialogo più fitto, che molto spesso non c'è.
La realtà colonialista di allora si esprimeva con un giornale di origine nazionalista. L'Idea Coloniale, testata collegata al quotidiano Idea Nazionale, che avevano come esponenti Enrico Corradini e Luigi Federzoni, persone di cui dirò dopo; con militari che avevano partecipato alle campagne d'Africa: qualcuno addirittura ad Adua; con studiosi aderenti alla Società Geografica, che non esiste più; con funzionari centrali e periferici dell'Amministrazione coloniale. I giovani non c'entravano per niente. Ed io, più nell'incoscienza che nella consapevolezza, ho avuto la ventura di esserne iniziatore. Più tardi un autorevole direttore di un sopravvenuto periodico, sostitutivo di tutti gli altri, Roberto Cantalupo, già opinionista de "Il Corriere della Sera", poi sottosegretario alle Colonie, poi Ambasciatore d'Italia al Cairo, mi chiese di scrivergli un articolo sui giovani e le Colonie. lo risposi con un articolo che però non piacque, perché dicevo quanto bisognasse fare a questo fine e lui invece desiderava conoscere il perché i giovani si interessassero delle Colonie.
Cosa si dovesse fare, dunque. Ed io ho cercato di fare la mia parte. Mi rivolsi all'Idea Coloniale, che aveva creato anche l'organizzazione degli Amici dell'Idea Coloniale. Vi era a capo un funzionario del ministero delle Colonie, Nobili Massuero e come segretario generale un giornalista, Guido Cortese, poi divenuto famoso perché protagonista di una certa notte di San Bartolomeo, allorché il vicerè dell'Africa Orientale Graziani subì il noto attentato e Cortese ordinò le note rappresaglie.
Parlai perciò a Cortese, di cui dirò ancora più innanzi, per proporgli la mia iniziativa, universitaria, ma lui mi disse che non era ad una matricola che si potesse affidarne l'incarico.
Intrapresi perciò un'altra strada, e forse l'ho intravista perché c'è l'ottimismo della volontà: una virtù che ognuno deve inventare e volere per se stesso. Raccolsi pertanto le firme di molti miei colleghi per sollecitare al GUF la costituzione di una Sezione Coloniale, di cui ottenni la nomina a Delegato. Naturalmente era indispensabile l'iscrizione al GUF, ottenendo pure il riconoscimento della mia iscrizione all'Avanguardia Giovanile fascista di Melfì che risaliva, nonostante i miei 13 anni di allora, al I° settembre 1922. Il mio nascente colonialismo insolito per quei tempi mi inserì nella goliardia fascista di quei tempi che era tutt'altro che partitica, men che mai squadrista e ideologizzata solo nei campi di interesse culturale. Nella fattispecie, il colonialismo aveva a che fare con le motivazioni nazionaliste, confluite polemicamente prima e poi in parte non secondaria dottrinaria nel fascismo.
Nell'attuazione delle varie iniziative, il mio sostegno principale fu il Rettore e poi il ministro delle Colonie, Federzoni, che si avvaleva di un'ottima collaborazione burocratica ed anche di attivazione propagandistica. Potei così promuovere il primo viaggio universitario in Tripolitana, con 400 lire di quota su di una sconquassata nave di linea, fra i cui passeggeri c'era Guglielmo Marconi, lo storico Gioacchino Volpi, il presidente della Dante Alighieri, ecc.
Tripoli allora era dominata dal castello, da un abbozzo di lungomare che poi - quando le Colonie divennero "province italiane" - fu ampliato e modernizzato. C'era pure una piazza, denominata del Pane, ed un intricato complesso di suks, con una discreta percentuale di ebrei. C'erano le vestigia di Sabratha e di Leptis Magna, c'era un governatore ed un segretario generale con tanto di divisa e tanto di barbe, non fluenti in verità, ed una complessiva fisionomia non nettamente definibile, perché l'Europa era vicina ed il Sahara lontano, perché i confini fra zona realmente occupata e zona ribelle erano quanto mai fragili. Lo stesso Garian pure con i trogloditi era insicuro, al punto che un nostro ritardato rientro a Tripoli provocò addirittura preoccupazioni e soccorsi militari.
Il sistema economico e civile si fondava non sulla concretezza immediata, ma su poche iniziative che avevano a che fare con le prime opere pubbliche e con un'agricoltura che ricercava avidamente l'acqua e tentava di escogitare più avanzati e diffusi utilizzi dell'aratro a chiodi. Un emblema che oltre 30 anni dopo, a San Francisco, un professore dell'Università di Barkley mi disse riguardava ancora l'intera agricoltura italiana. L'informazione su di noi, anche di professori, non è stata mai un punto di forza per tanti osservatori stranieri. E naturalmente con molti compagni, fra cui qualcuno scelse successivamente anche la carriera coloniale con tanto di divisa e di caratteristiche e funzioni che la rendevano un succedaneo della meno improbabile carriera diplomatica.
Mi è occorso di realizzare tante iniziative: conferenze, lezioni, viaggi, concorsi (fra cui uno sul "perché l'Italia doveva essere Nazione coloniale"), ecc.
Fra le iniziative che però non andarono subito a buon fine ci fu quella della creazione di un settimanale, dal titolo facilmente inventato da me, L'Azione Coloniale, che ripeteva nominalmente il titolo del volume del ministro delle Colonie Venti mesi di azione coloniale.
E qui ci sono i piccoli medaglioni di ministri del tempo che dovemmo incontrare. C'era oltre al nostro dante causa maggiore, Federzoni, che pazientemente ci dava ascolto, dandoci pubblicazioni ministeriali e prodigandoci consensi il cui punto massimo era il sorriso, il ministro dell'istruzione, non ancora educazione nazionale, con sede a Piazza della Minerva. Era il professore Fedele, benevolo nell'intenzione, ma disinteressato nella ricerca delle possibili soluzioni e dell'erogazione di aiuti. A parte le testimonianze lasciate da lui nella bibliografia storiografica, mi sembra, un tratto caratteristico e strettamente individuale era l'uso delle scarpe gialle sotto la redingote nera d'obbligo. Gli stilisti non c'erano ancora, ma qualcuno senza saperlo si sbizzarriva così. Lo stesso Mussolini, poi Starace, ecc. lo hanno fatto per tutto il ventennio e forse una tematica fotografica così realizzata non sarebbe inutile. Costume e costumi.
Altri personaggi del tempo erano un vice segretario generale del partito, che di fronte alle nostre sollecitazioni ed impazienze ci ammoniva con lo scritto: "cari amici, non mettete il partito di fronte al fatto compiuto". Non ricordo se a quel tempo il Regime avesse già creato il Tribunale Speciale, ma certi nuclei universitari apparendo creativi erano appena tollerati. E così fu anche per quattro di noi, con me Vittorio Gorresio, Marco Pompilio, Mario Pigli, poi con curriculum che è stato di diverso spessore, riflettendo ora modestia di risultati ora maggiore rilevanza, che fummo sottoposti a solenne deplorazione (resa però subito inoffensiva e non pubblicizzata) dalla Corte di disciplina del partito. Questa era presieduta dal suo segretario nazionale, Giurati. Eravamo responsabili di aver pubblicato lo stesso giorno quattro articoli, su quattro diversi giornali, di netta critica all'azione dell'Istituto Coloniale fascista, che era a sua volta presieduto dal senatore milanese Venino. D'altronde, lo stesso Mussolini rispondendo ad una relazione di detto Istituto aveva affermato che in essa si riscontravano zone di luce, ma anche di ombra. E naturalmente noi con il nostro volontariato in detto istituto ci attenemmo a queste ultime. Le gerarchie del tempo erano queste, nella frequentazione di questa mia limitata orbita.
Al nostro esterno c'erano tante ispirazioni e scelte del tutto opposte. Su quelle di segno conforme testimonianze e storia si sono largamente pronunciate, ma altri approfondimenti vengono predisposti ed annunziati, con riguardo alla profondità dei sondaggi sul preteso o per alcuni effettivo "unanimismo" di quel periodo.
Della mia generazione il più rappresentativo nell'opposizione è stato certamente Giorgio Amendola, ma nella mia ascendenza non posso non ricordare Nitti, da cui nell'intero secolo la mia famiglia mai è stata distante; il volto di Filippo Turati sugli scalini di Montecitorio o nel caffè Guardabassi; la folta barba di Modigliani, il deputato del "viva il Parlamento" al discorso di Mussolini sul "bivacco"; gli occhi straordinariamente neri e sprizzanti intelligenza di un Don Luigi Sturzo, con l'allora passo rapido da me intravisto su Ponte Cavour, ed ancora Alberto Giovannini, allora segretario generale del Partito liberale e, dopo la liberazione, ministro. Si occupava anche lui allora di colonie ed ha scritto anche una storia dell'Aventino. E poi ci sono gli antifascisti, miei professori, tali rimasti, avendo dovuto rinunciare alla cattedra. E cito Orlando, che però nel '35, all'epoca della "guerra d'Africa", scrisse al capo del governo di essere a disposizione "per spirito di servizio"; Umberto Ricci, docente di economia politica all'Università di Roma, già verificatore di pesi e misure al mio paese (come si chiamavano allora), che si trasferì all'Università del Cairo per continuare ad essere quello che era, e cioè liberale, ed altri ancora.

La penna sovrapposta al Colosseo
Ma in questo periodo della mia vita ci sono anche giornalismo e giornalisti. Un mio primo articolo rispondeva al tema richiestomi: "Che volevano i giovani dalle Colonie". Doveva essere pubblicato, naturalmente gratuitamente, su di una rivista la cui intestazione aveva a che fare con l'Impero. Di questo allora non c'erano tracce, se non in un quotidiano vistosamente di punta.
Successivamente cominciai ad offrire i miei articoli, senza compenso, ad un giornale, che a distanza di anni ho sempre ritenuto di avanguardia dal punto di vista redazionale ed editoriale. Il suo direttore era Telesio Interlandi, e lo ricordo per questa identità, ripeto, di formula più che di contenuti. Lo difendo così nella mia memoria, come l'ho difeso in verità senza riscontro nemmeno approssimativamente non negativo presso altri. E' stato agli inizi un tipo di giornale certamente anticipatore per i tempi. Durante il fascismo ha svolto funzioni di punta spesso anche con pretese culturali, in talune fasi completamente da combattere e talvolta, almeno si dice, lo stesso Mussolini non le condivideva, però se ne serviva. Altro giornalista da me frequentato è stato Giorgio Pini, direttore ai miei esordi di giornalista de Il Giornale di Genova e poi redattore capo de Il Popolo d'Italia e sottosegretario all'Interno a Salò. Di lui sono stato editorialista coloniale a Il Giornale di Genova. La sua virtù più evidente per me, oltre ai libri che ha scritto e prescindendo dai compiti che ha svolto, è stata quella del sorriso. Qualcuno mi ha detto che era troppo poco, poi si è ricordato che c'era pure stata contemporaneamente l'epoca dei ganasciuti.
E due altri nomi, a conclusione di questa fine degli anni '20: Margherita Sarfatti e pure il ras di Cremona, Roberto Farinacci.
Il mio primo articolo su di una rivista particolarmente importante - perché il direttore, almeno formalmente, ne era Mussolini ed anche perché compensava gli articoli: a me esordiente venivano corrisposte 400 lire ad articolo - è stato su Gerarchia. La dirigeva di fatto Margherita Sarfatti. L'ho conosciuta di persona quando le richiesi una brevissima dichiarazione su quella che avrebbe dovuto essere o era la letteratura coloniale. La dichiarazione doveva essere pubblicata su di una pagina periodica de Il Tevere di cui ho detto prima e che Interlandi, accettando la mia proposta di istituirla, intitolò "Vita dell'Italia d'oltremare". Un oltremare che faceva premio sul termine Colonie. La Sarfatti abitava allora in via Nomentana, all'altezza di Villa Torlonia. Mi impressionò il suo volto di stimolante intelligenza oltre che notoriamente bello. Ma di lei ricordo l'immediatezza, l'estrema prontezza, il giornalismo di impeto proprio perché prontamente mobilitava la sua penna.
Ed infine eccomi con il Farinacci, come l'ho visto io, essendo editorialista sempre e soltanto coloniale del suo giornale, che come il suo direttore poco piaceva a Mussolini.
L'ho visto tre volte. La prima nel grosso cortile del ministero delle Finanze di allora, in via XX Settembre. Era su di un'auto con un deputato di Bari, Re David, che mi conosceva perché mi interessavo della Fiera del Levante. Egli deve avergli parlato di me, questo suo sconosciuto collaboratore, cosicché la macchina fu fermata e con Farinacci scambiammo le pur difficili, per me allora, parole d'occasione.
La seconda volta lo incontrai, per conoscerei meglio, all'Hotel Bristol di Roma, e ricordo che gustava avidamente un aperitivo con tanto di buccia di limone. Certamente abbiamo parlato, tanto più che era presente pure il capo dell'ufficio romano del suo giornale: un Rocco con barba nettamente nera, di vecchio giornalismo e "tormentone" ai tempi del Becco Giallo, avente di mira il presidente della Camera, onorevole Casertano. Questo giornalista, napoletano, di vecchio giornalismo, si era evidentemente "accomodato" nella nuova veste.
La terza volta fu dinanzi all'Hotel Bristol - ora si chiama mi sembra Bernini - ed era la vigilia di Natale o di Capodanno. Lo salutai. Gli feci i soliti auguri e per completare il discorso gli chiesi dove andasse. Mi rispose: vado in famiglia. Vado in una famiglia. Colsi e ricordo la differenza delle due dizioni e forse le cronache di quei tempi, confermate dopo, mi suggerivano qualcosa. Senza bisogno di "spazzature", come si definiscono oggi, perché il mio mestiere mi ha portato altrove e forse se "spazzature" ho incontrato queste riguardano l'arbitrarietà di tante cifre economiche, rispetto alle quali il mio mestiere mi ha condotto sempre - e lo rivendico - ad essere sempre circospetto.
I miei anni '20 si sono conclusi con la laurea. Sono iniziati invece gli anni '30 con la mia iscrizione all'Associazione della Stampa Romana nel dicembre del 1930. Quarant'anni dopo mi è stata assegnata una medaglia d'oro che me ne dà personale riconoscimento. L'ho avuta insieme ad altri, fra cui Renato Angiolillo, fondatore de Il Tempo.
Nel retro della medaglia è riprodotto un Colosseo al quale è sovrapposta una penna d'oca. Il nostro emblema, pur nel tempo della telematica: perché è quella penna che deve rimanere sempre pulita.
Quanto dirò in seguito, nei prossimi medaglioni, confermerà quanto mi sia cara e fedele quella penna.


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