Tracollo
Pil: - 0,50%
Tracollo agricolo: - 9,1%
Tracollo industriale: - 4%
Popolazione di nuova povertà: 26,4%
Indice sottostimato di disoccupazione: l9,8%
Investimenti: - 3,5%
Un Paese che abbia
realmente a cuore le proprie sorti compulsa il proprio stato di salute
a breve termine. Non con i sondaggi, che lasciano il tempo che trovano,
ma con la raccolta e l'analisi dei dati statistici, che consentono
radiografie ben più vicine alla realtà contingente.
Da noi accade, invece, che ad un'abbondanza di istituti di previsione
(Isco, Prometeia, Nomisma, Centri Studi di grandi imprese, ecc.) fa
riscontro la pachidermica lentezza dell'Istat, che mette a disposizione
i dati nazionali a distanze insopportabili. Così, disponiamo
nel 1995 dei rilevamenti riguardanti il 1992 sul 1991. E su questi
dobbiamo ragionare, cercando di cogliere eventuali trend diversi ed
evitando, in linea generale, di utilizzarli ai fini di inutili piagnistei:
i conti dobbiamo farli con lo stato delle cose, con le situazioni
oggettive, con i rimedi possibili. Diciamo questo, dopo aver ascoltato
in Senato l'intervento di un tale che, dall'alto del laticlavio, letteralmente
si esagitava contro quello che definiva il PDT, sigla ermetica, se
non fosse risultata nel valore della sua estensione dal complesso
del discorso. PDT significava nientemeno "pianto del terrone",
lamento del meridionale per l'abbandono da parte dello Stato, e via
di seguito. I dati, in quel momento, non erano ancora disponibili.
Una ragione di più, oggi, per dedicarglieli, in attesa che
costui migliori la sua cultura e la sua informazione, visto che sulla
sintassi che usava non abbiamo più speranza. E in sintesi quei
dati confermano che l'Italia si è ormai lasciata alle spalle
la recessione, ma il conto da pagare alla crisi si è rivelato
ben più pesante per le regioni meridionali, la cui economia,
a causa di una stagnazione strutturalmente più debole, ha sofferto
di un rallentamento più drastico, che non ha fatto altro che
allargare il fossato che divide il Nord dal Sud. Non a caso tra il
1992 e il 1991 il Prodotto interno lordo (Pil) nel Mezzogiorno ha
subito una flessione dello 0,5 per cento, mentre nelle regioni centrosettentrionali
si è registrato un incremento dell'1,2 per cento (+2 per cento
addirittura nelle regioni dell'area nord-orientale) che ha permesso
al bilancio nazionale di chiudere con un modesto miglioramento pari
allo 0,7 per cento. E' quanto si deduce, appunto, dai conti economici
regionali dell'Istat, che oltre a consentire un'analisi (sia pure
tardiva) dei persistenti divari territoriali che tuttora affliggono
il nostro Paese, sono destinati ad essere utilizzati nella ripartizione
delle risorse comunitarie a sostegno delle politiche di sviluppo.
L'analisi del bilancio '92 mette in evidenza la maggior "prontezza"
di risposta alla crisi economica delle regioni del Nord e del Centro
e la loro migliore tenuta di fronte ai colpi della recessione.
Nel "triangolo" nord-occidentale, ad esempio, Valle d'Aosta
(+2,7 per cento) e Liguria (+1,5 per cento) sono riuscite a conservare
ritmi di crescita quasi indenni dagli influssi della stagnazione,
mentre in Piemonte e in Lombardia si è verificata una sostanziale
stabilità. Si sono accentuate le difficoltà dell'industria
che erano già affiorate nel corso del 1991, con una flessione
generale dello 0,1 che raggiunge il 2,2 per cento nella metalmeccanica.
I servizi hanno marciato di buon passo (+1,2 per cento), ma comunque
meno speditamente del 1991 (+2,1 per cento). Al contrario, il valore
aggiunto dell'agricoltura è salito del 12,2 per cento. Ma questo
non riguarda il Sud. Allo stop del Pil ha fatto riscontro un evidente
contenimento della crescita dei consumi (+1 per cento) e soprattutto
una sensibile contrazione degli investimenti (-1,1 per cento nella
media nazionale).
L'area che ha conseguito i risultati migliori è ancora una
volta quella nord-orientale, con una crescita media del Pil pari al
2 per cento e con punte del 3,5 per cento nel Trentino-Alto Adige
e del 2,5 per cento nel Veneto. Soltanto il Friuli-Venezia Giulia
ha manifestato un aumento marginale (+0,2 per cento). Buono il consuntivo
dei vari settori, con un'espansione che oscilla dal 13,1 per cento
dell'agricoltura all'1,8 per cento dell'industria, dove sono stati
ottenuti notevoli recuperi di competitività. Per i servizi
l'incremento è del 2,4 per cento. La domanda tuttavia si è
rivelata eccessivamente sbilanciata dal lato dei consumi (+1,2 per
cento), mentre gli investimenti hanno accusato un calo del 4,8 per
cento.
Anche le regioni centrali si sono dimostrate capaci di parare abbastanza
bene i sintomi della crisi (+1,6 per cento) e in alcuni casi la crescita
è stata molto vivace, toccando il 2,7 per cento nel Lazio e
il 2,1 per cento nelle Marche. Fa eccezione la Toscana (-0,2 per cento).
A dar tono all'economia sono state soprattutto l'industria (+2,4 per
cento) e i servizi privati (+2,8 per cento), che hanno compensato
i vuoti dell'agricoltura (-1,2 per cento) e dell'edilizia (-0,2 per
cento). Modesto l'incremento dei servizi non destinabili alla vendita
(+0,7 per cento), largamente identificabili col settore statale (di
particolare rilievo nel Lazio). I consumi delle famiglie sono saliti
dell'1,8 per cento, e anche gli investimenti, a differenza di quanto
è accaduto nelle altre aree, sono aumentati dell'1,4 per cento.
Dove il 1992 si è rivelato particolarmente negativo è
stato nell'Italia meridionale, che ha accusato una diminuzione dello
0,5 per cento del Pil. La crisi ha riguardato tutte le regioni, ad
eccezione della Basilicata (+2,3 per cento) e della Sicilia (+1,5
per cento), risultando molto incisiva in Calabria (-1,9 per cento),
in Puglia (-1,6 per cento) e in Campania (-1,3 per cento). L'andamento
negativo dell'economia meridionale, sottolinea l'Istat, è dipeso
principalmente dalla forte caduta del valore aggiunto dell'agricoltura
(-9,1 per cento), in linea con la tipica alternanza biennale dei risultati
delle coltivazioni caratteristiche di quest'area. Ma anche l'industria
ha chiuso l'annata in profondo rosso (-4 per cento) e a poco è
valso il modesto sviluppo del terziario (+1,6 per cento). Pesante
si è rivelato anche il taglio subito dagli investimenti (-3,5
per cento). Nonostante questo, i consumi privati sono cresciuti dell'1,5
per cento.
I PIU' RICCHI?
VIVONO AL NORD
Al di là del Tevere, nella parte settentrionale, la ricchezza.
Al di qua del Tevere, nella parte meridionale, lo spettro di una recessione
che ha lasciato profonde rughe nell'economia, ha falcidiato le file
degli occupati e forse non ha esaurito del tutto la sua spinta. E'
ancora "deep South", profondo Sud. Ed è ancora la
solita Italia, spaccata a metà, i ricchi al Nord, i poveri
al Sud, quella che ci si presenta attraverso i dati statistici.
Ma l'Italia a due velocità emerge ancora più drammaticamente
dai dati raccolti dalla Commissione di indagine sulla povertà:
nel Bel Paese ci sono otto milioni e mezzo di poveri, con un reddito
inferiore alla metà di quello medio nazionale. Si tratta del
15 per cento degli italiani, che vive in condizioni miserevoli, ma
al Sud, ancora una volta, la percentuale sale e raggiunge il 26,4
per cento degli abitanti. La "carta del disagio economico"
è un bollettino di guerra: tre milioni e 96 mila famiglie vivono
in stato di povertà, 700 mila anziani possono contare appena
sulla pensione sociale (intorno alle 400 mila lire al mese), 298 mila
invalidi parziali stentatamente raccolgono un reddito fino a quattro
milioni (sono cifre riferite al dicembre '92). Per non parlare dei
307 mila invalidi totali, centomila ciechi e 15 mila sordomuti che
vivono con entrate inferiori ai 17 milioni di lire annui. La mappa
del disagio economico tiene conto anche dei 27 mila malati di mente
ricoverati negli ospedali psichiatrici, dei 104 mila 442 anziani raccolti
in comunità residenziali, dei 36 mila 369 anziani non autosufficienti
che usufruiscono dei servizi. Non tiene conto del gran numero di clochards,
di barboni che vagano nelle città grandi e piccole, che vivono
di solidarietà private, di carità e di Caritas; né
degli immigrati sottopagati, soprattutto quelli clandestini, che vivono
in condizioni di estrema miseria.
Il Sud sconta una duplice crisi: la prima, di lungo periodo, è
quella che ha colpito il settore agricolo, dove si è registrato
un vero e proprio tracollo, a dimostrazione che le regioni meridionali
sono le vittime eccellenti della politica comunitaria stabilita a
Bruxelles; a questa crisi strutturale, che ha coinvolto in pieno il
settore che ha visto tradizionalmente forte il Mezzogiorno, si è
sovrapposta quella della chiusura di numerose industrie e dei grandi
insediamenti, per non parlare della stagnazione dell'edilizia, bloccata
dalla fine degli interventi pubblici, che paga il coinvolgimento di
numerosi costruttori in Tangentopoli, come del resto è avvenuto
in tutta Italia. Per la prima volta, inoltre, l'espansione del commercio
e dei servizi non è stata sufficiente a compensare la caduta
a vite degli altri comparti produttivi.
Il saldo delle risorse e degli impieghi conferma sia la posizione
di esportatrice netta dell'area del Centro-Nord, sia quella di importatrice
netta dell'area meridionale. Nel 1992 si è accentuata la distanza
fra i due gruppi di regioni: il saldo negativo del Mezzogiorno è
passato da meno 53.061 miliardi nel '91 a meno 55.861 nel '92, con
una crescita del 5,3 per cento; mentre il saldo positivo del Centro-Nord,
di dimensioni già ridotte, pari a meno 11.067 miliardi '91,
è passato a meno 12.833 miliardi '92.
ALLARME ROSSO
Ma è poi sincera la sbandierata ossessione di creare nuovi
posti di lavoro nel Sud? E di aggredire i problemi che hanno storicamente
condizionato lo sviluppo del Mezzogiorno? Ora si vorrebbe accelerare,
si aprono i fascicoli sull'occupazione, sulle riforme, sulle condizioni
giovanili. Si creano task forces e teams. L'inglese sembra di rigore.
Preferiremmo l'italiano, e magari il vernacolo: a patto che si tratti
di cose serie. Sud e giovani, bell'accoppiata: dicono che saranno
al centro del rilancio: "Sono questi i due problemi più
gravi. Bisogna trovare rimedi specifici. I francesi, ad esempio, hanno
cinque tipi di ingresso nel mercato del lavoro. Occorre riattivare
gli investimenti, rilanciare i contratti di formazione lavoro, puntare
a una riduzione del costo del lavoro. Serve poi molto più part-time
(riecco l'inglese!)". In questo modo, si commenta, "si potrebbero
creare due mezzi posti invece di uno, consentendo a intere fasce di
popolazione di dividersi il lavoro. Non c'è infatti solo il
problema di creare lavoro nuovo, ma di redistribuire quello che c'è".
In altre parole, al posto di un lavoratore autosufficiente facciamo
due mezzi morti di fame! Solo mezzi, per carità!
E poi? E poi, i contratti di solidarietà, modello Volkswagen:
solidarietà pagata dagli stessi lavoratori e non dallo Stato,
valutando ovviamente caso per caso, come si fa in Francia. Che è
un'altra bella trovata, se si considera che i salari tedeschi e francesi
sono di gran lunga superiori a quelli italiani. Ma tant'è.
Capitolo specifico per il Sud e grandi studi per effettuare investimenti
nelle regioni meridionali: "Il problema di dirottare risorse
per investimenti nel Mezzogiorno è un capitolo che il Paese
deve cominciare a riscrivere, con un maggiore impegno da parte di
tutti".
E come? Sul fronte giovani, le intenzioni sono quelle di potenziare
la flessibilità del mercato del lavoro, coinvolgendo attivamente
sindacati e imprenditori: "Insieme a loro, si deve lanciare un
pacchetto giovani da attuare inizialmente in via sperimentale in alcune
aree del Sud". Modifica degli orari, agevolazioni alle imprese,
part-time, stage nelle aziende: misure che non gravino sulle casse
degli imprenditori, accompagnate da una riduzione dei contributi.
Gabbie salariali? No: "Vi può essere una percentuale di
salario legata contrattualmente al territorio; dunque, niente gabbie".
Se non è zuppa, è pan bagnato. E poi, la flessibilità
del mercato del lavoro: ma dov'è il mercato? Qualcuno lo ha
visto, al Sud?
MA E' ANCHE
COLPA DEL SUD
C'è una nuova conferma sull'incapacità di spesa da parte
delle regioni meridionali nel settore agricolo. E riguarda la mancata
utilizzazione dei fondi strutturali Cee. A parlare, senza tema di
smentite, sono ancora una volta le cifre: i finanziamenti comunitari
a favore dell'Italia per la filiera agro-alimentare per il periodo
1994-'99 sono 15 mila miliardi e 185 milioni di lire, di cui ben 10
mila miliardi e 237 milioni riservati alle regioni meridionali. Per
il solo capitolo dedicato al cosiddetto "Obiettivo Uno"
(8 mila e 271 miliardi di lire) le regioni del Sud hanno utilizzato
appena il 50 per cento rispetto a una media comunitaria di spendibilità
pari all'86,3 per cento.
Per evidenziare ulteriormente la paralisi delle nostre regioni è
sufficiente fare i raffronti con la capacità di spesa degli
altri Paesi comunitari. L'Irlanda, ad esempio, è molto efficiente,
dal momento che è riuscita ad impiegare il 94,7 per cento delle
somme attribuitele. Bravissime anche la Grecia con l'84,8 per cento,
la Spagna con il 90,2 per cento, la Francia con il 77,4 per cento.
Bocciato a tutto campo il Sud d'Italia, che sembra snobbare i finanziamenti
offerti da Bruxelles, utilizzati appena per la metà. E non
è che l'Italia abbia problemi di budget. Nelle casse della
nostra agricoltura ci sono disponibili per il periodo '94-'99 2.228
milioni di Ecu, una somma che diventa doppia grazie al cofinanziamento
statale. Ma la mancanza di programmazione, i lacci farraginosi della
burocrazia che soffocano le amministrazioni regionali, costringono
la stragrande maggioranza delle regioni del Sud a rimanere nel limbo
dell'approssimazione e del sottosviluppo. Prime nella classifica delle
aree agricole dalle grandi potenzialità eternamente in embrione,
la Calabria, la Campania, la Basilicata, tutte e tre afflitte dalla
stessa patologia: incapacità di spendere con efficacia e con
regolarità i soldi disponibili. Seguono a ruota le altre.
Tutti concordano sull'occasione irripetibile offerta dal programma
di intervento dei fondi strutturali dell'Ue. Lo si dice con estrema
chiarezza: "Non si tratta di una delle tante chances, ma del
treno dello sviluppo che condizionerà, se mal sfruttato, la
vita dei prossimi anni". Spendere i soldi disponibili diventa
allora una ragione di vera e propria sopravvivenza. Il flusso finanziario
di fonte comunitaria continua. Nel quadro di sostegno per lo sviluppo
e l'adeguamento strutturale delle regioni italiane, dopo avere approvato
il nuovo programma operativo multiregionale, ha destinato al Mezzogiorno
altri 678 miliardi e 258 milioni. Due, in particolare, sono i programmi:
il primo, denominato "Risorse agricole ed infrastrutture di supporto",
interverrà nei settori dei prodotti a largo consumo tipici
del Sud (ortaggi, vino, olio, cereali, frutta, ecc.); il secondo,
invece, definito "Servizi di sviluppo in agricoltura e divulgazione",
ha come obiettivo l'accelerazione dello sviluppo del settore primario
attraverso interventi nella ricerca, nella sperimentazione e nell'impiego
dei divulgatori, dell'informazione e della formazione. Meridionali
con progetti concreti, se ci siete, battete cassa!
SEGNALI. DI
FUMO!
Sei milioni (anzi, quasi sei milioni e mezzo) di poveri in Italia.
Ma la massima concentrazione è a Sud dove, fra l'altro, il
21,5 per cento dei bambini fino a 5 anni e il 24,4 per cento di quelli
tra 6 e 13 anni vivono in condizioni di povertà. Questo è
Sud. E' per via delle mafie, si dice. No. E' per via dello Stato,
del Parlamento, della burocrazia, dell'industria protetta del Nord,
della scelta del Mezzogiorno come area di mercato. E poi delle mafie.
Che sono generate, come effetto, dalle cause che già quell'effetto
contengono. Chi fa finta di non capire, è perché vuoi
perpetuare il sistema. Allora, una volta e per tutte, si frantumi
quest'Italia, in due o in tre: e ciascuno se ne vada per la sua via.
Sembra una presa di posizione estrema, e forse lo è. Ma sta
di fatto che non è consentito perpetuare una situazione di
disagio sociale ed economico, cioè di vero e proprio sottosviluppo,
senza che ci sia una sola prospettiva di decollo, un solo progetto
di futuro. Colpa della delinquenza? Certo, le mafie hanno un peso,
anch'esso insopportabile; ma una volta o l'altra si dovrà pur
discutere su chi, tra Sud e altri, ne ha maggior vessazione e maggior
profitto: insomma, a chi giova.
Ma le cifre dei delitti consumati nel 1994 non liberano la coscienza
di coloro i quali ci predicano che tutto il Sud delinque. Su due milioni
173 mila 477 delitti denunciati in Italia, nel Sud ne sono stati commessi
742.00; ma nel Nord ben 985 mila 816: 616.160 nel Nord-Ovest e 369.816
nel Nord-Est. A questi vanno aggiunti i 444.589 del Centro. Delinque
solo il Sud? Si ammazza solo a Sud? Si rapina solo a Sud? Si estorce
solo a Sud?
Per uscire definitivamente dalla precarietà in cui vivono ampi
settori del Paese - si dice e si scrive - c'è bisogno di stabilità.
E quale area è più precaria del Mezzogiorno, con il
suo esercito di disoccupati che assedia invano un'economia prostrata
fino all'impotenza? Su questo fronte della questione italiana, tutto
è rimasto immobile e immutato. In direzione del Sud si è
mosso soltanto qualche segnale di fumo, che non serve a rianimare
un orizzonte piatto e buio. Il fatto è che non ci si fida più
di nessuno, tanto meno di coloro i quali sembra abbiano riscoperto
il problema-Mezzogiorno, e che forse sono alla ricerca di nuovi alibi
per continuare a predare l'arca perduta del Sud. I sindacati hanno
festeggiato a Brindisi il primo maggio: per un qualche impegno a ricollocare
le regioni meridionali tra gli obiettivi primari della strategia delle
forze sociali, o non piuttosto per evitare l'incontro-scontro con
le tute blu del Nord alla vigilia della nuova legge sulle pensioni?
La Confindustria ha tenuto a Catania un convegno dedicato ai temi
e agli interrogativi che si legano alle ipotesi di sviluppo del Sud:
è stato un passo nella direzione dell'assunzione di responsabilità
per il futuro, o il tentativo di riedizione delle politiche d'intervento
al Sud che per tanta parte servirono a finanziare produzioni, commerci,
esportazioni e ristrutturazioni nel Nord? Si tratta di sfida alla
modernità, oppure di neo-assistenzialismo occulto? C'era, in
questo convegno, un convitato di pietra: il finanziamento, enfatizzato
all'inverosimile dai mass media, di 100 mila miliardi di lire in favore
del Sud. E ci risiamo col gioco dei bussolotti: quel finanziamento,
per quanto ingente, era già vecchio di un anno, e l'intera
somma era destinata a sanare situazioni pregresse, non era utilizzabile
per creare nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro. Un colossale
equivoco, una frettolosa supervalutazione, o non piuttosto un grande
imbroglio che può determinare un eccesso di aspettative a Mezzogiorno
e qualche gelido sospetto a Nord? Tant'è che un giornale del
Nord non ha saputo resistere alla tentazione di ricordare che molti
fondi destinati alle regioni meridionali sono stati a suo tempo intercettati
dalla mafia. Si potrebbe ribattere, come altrettanti, e forse di più,
sono stati intercettati dai tangentari del Centro-Nord. Ma il problema
è un altro: è la voglia, anche con l'aria di crisi che
tira, di condannare all'ergastolo economico il Sud, negandogli ogni
sostegno che pure gli spetta in fatto e in diritto.
La verità è che il Mezzogiorno è in coma profondo,
e le terapie parolaie e stregonesche non servono a bloccare il decorso
della malattia. Ci vorrebbe un progetto politico, che al momento non
si intravede. Dal che si deduce che potrà essere Sud per sempre,
Italia arretrata, Europa emarginata.