Il nome era forse
già conosciuto dagli storici del IV secolo. Megàle Ellàs,
Grande Grecia. Sembra che all'inizio fosse limitata alla zona centrale
della costa ionica con le città di Locri, Crotone, Sibari e
Siri e che, in seguito, si sia estesa a nord fino a Taranto e a sud
fino a Reggio; ancora dopo la denominazione abbracciò le coste
del Tirreno fino a raggiungere Cuma. Pochissimi sono gli autori che
includono in Megàle Ellàs anche la Sicilia greca: quasi
tutti separano le due aree. Grande Grecia è solo il Sud continentale.

Più arduo è spiegare come sia sorto il nome e che cosa
volesse realmente indicare nel confronto con la Grecia propriamente
detta: non certo una maggiore estensione della sua superficie e tanto
meno il riconoscimento di una superiorità politica; forse fu
l'opulenza, fu la ricchezza rapidamente acquisita dalle poleis a generare
il concetto di Magna Grecia; o, forse, fu la fioritura delle correnti
filosofiche nate qui con la Scuola Eleatica e soprattutto con Pitagora.
Eppure è dagli stessi storici greci che ci è pervenuto
il nome di italioti, ad indicare i cittadini di origine greca della
Magna Grecia.
La colonizzazione ellenica nel Sud d'Italia ebbe inizio nell'VIII
secolo a.C., continuò nel VII e nel VI e riprese nel V con
la fondazione di Turio. Oltre alla creazione di città ad opera
di greci provenienti direttamente dalla madrepatria e dalle colonie
greche dell'Asia Minore, le nuove comunità fondarono a loro
volta altre città, loro colonie, nella Magna Grecia. Le ragioni
che spinsero i popoli greci alla colonizzazione furono molteplici,
e in fondo simili a quelle che spinsero tante genti alle migrazioni
e alle conquiste di regioni lontane dalle loro patrie: densità
di popolazione nelle terre d'origine, necessità di trovare
sbocchi commerciali alla produzione, rivolgimenti politici, spirito
d'avventura, scoperta di luoghi nuovi, altre ancora, di volta in volta,
caso per caso. Ciò produsse il fenomeno della migrazione greca
verso l'Italia. In Grecia, poi, di frequente quelle ragioni erano
simulate o giustificate dalla volontà misteriosa dell'Oracolo,
che non di rado indicava anche il luogo da raggiungere e colonizzare.
Esiste una cronologia tradizionale che pretende di fissare le date
precise di fondazione delle singole città, ma la critica storica
confuta e spesso smentisce tali pretese. Così ad esempio per
la città di Cuma la tradizione - come ci viene riferita da
Eusebio nella sua Cronaca - fissa nel 1051 a.C. la sua data di fondazione
e la descrive come la più antica città della Magna Grecia.
Ebbene, questa data è respinta dagli storici moderni ed è
generalmente posticipata di circa tre secoli, e attualmente si tende
a ritenere che per l'ordine cronologico di fondazione delle città
della Magna Grecia si debbano mettere in primo luogo le poleis nate
sulle rive dello Ionio, poi alcune della Sicilia Orientale e dello
Stretto di Messina, infine quelle della Magna Grecia fondate direttamente
da coloni greci sulle rive del Tirreno. Altre date fissate nella cronologia
tradizionale sono da considerarsi relativamente precise.

Come le date, anche le circostanze reali che determinarono le fondazioni
restano avvolte in misteriosi veli di miti e leggende. In realtà,
non sappiamo molto bene come siano andate le cose. Le fondazioni,
innanzitutto, si distinsero in pubbliche e private. Le prime sono
quelle avvenute per decisione della città-madre, del suo popolo
e dei suoi legislatori: sono il derivato di situazioni sociali, politiche,
economiche particolari che inducono i cittadini a cercare una soluzione
nella creazione di una colonia. Le seconde, invece, sono quelle derivate
da iniziative di singoli cittadini i quali, in genere per ragioni
politiche, sono spinti ad abbandonare la madre-patria. Spesso un capo
spedizione (ecista) veniva nominato per condurre l'impresa. Anche
le figure degli ecisti sono avvolte nei veli dei miti religiosi, fantastici.
Non di rado diventano simbolo della città e oggetto di culto.
Abbiamo così, ad esempio, per Taranto, la figura di Falanto,
mitica nel suo insieme, ma forse con qualche corrispondenza storica;
per Sibari è nominato Is di Elide; per Crotone, il gobbo Miscello.
Ma compartecipano anche gli abitanti del pantheon religioso, da Ercole
ad Ulisse, ad Enea, a Oreste, a Filottete, ad Epeo. Non poche sono
le figure omeriche (Diomede, ad esempio, che si rifugia nelle Tremiti
o, appunto, Diomedee).
Le vicende della Magna Grecia dell'VIII, del VII e in parte del VI
secolo, anche quelle storicamente accertate, sono conosciute attraverso
fonti spesso contrastanti. In linea di massima, però, possiamo
dire con sufficiente approssimazione che le fondazioni di Cuma, Reggio,
Crotone, Sibari, Metaponto e Taranto sono da collocarsi nel corso
dell'VIII secolo; quelle di Caulonia, Locri e Siri, nel VII; e quelle
di Ipponio, Lao, Medma, Posidonia (Paestum), Pixus (Bussento), Terina,
Dicearchia (Puteoli, Pozzuoli), Velia, Metauro, Neapoli, nel VI. Ma
già per il V secolo le notizie pervenuteci ci consentono di
fissare con maggior precisione le fondazioni di Eraclea, Turio e Sibari
sul Traente dopo la metà di quel secolo.
Occorre dire che, almeno per alcune poleis, la primitiva fondazione
non risultò efficace, e in seguito le città vennero
riedificate: ciò vale, ad esempio, per Metaponto e Neapoli.
Così pure è importante rilevare che molte poleis sorsero
su preesistenti abitati indigeni, e in questi casi non di fondazione
occorrerebbe parlare, ma più correttamente di colonizzazione.
I greci, comunque, portarono nelle colonie le istituzioni e i miti
e culti della madrepatria, alla quale ricorsero spesso per aiuti militari
e per sviluppo di commerci. Si ebbero dunque poleis di stirpe achea,
dorica, ionica, e via dicendo, e più di quanto non si pensi
le differenze d'origine portarono nella penisola le stesse rivalità
della Grecia. Talora i gruppi di colonizzatori erano di provenienza
mista, oppure si sovrapponevano in tempi successivi. A Neapoli, alla
primitiva colonizzazione calcidese-cumana si aggiunsero in seguito
quella dei Rhodii e infine quella degli Ateniesi.
Schematicamente, possiamo riassumere in questo modo le principali
correnti migratorie:
- i dorici, cioè gli spartani, a Taranto e poi ad Eraclea;
- gli achei, della provincia di Acaia, a Sibari, Crotone e Metaponto;
- i calcidesi, insieme con gli eretri, provenienti dall'isola di Eubea,
a Reggio, a Cuma, a Neapoli;
- i locresi, provenienti dalle Locridi, a Locri Epizefiri;
- i focesi, provenienti da Alalia in Corsica, a Velia (Elea);
- i samii, a Dicearchia; - i colofoni, a Siri;
- gli ateniesi, ultimi arrivati, insieme con genti di tutta la Grecia
(i panelleni) a Turio e a Neapoli (colonizzazione).
Samii, rhodii e tessali, insieme con altre genti, si innestarono in
tono minore alle colonizzazioni principali.
Non avvenne mai che il rapporto fra colonie e madrepatria fosse di
sudditanza o presupponesse stretti legami politici. Le poleis furono
fin dall'inizio città-stati perfettamente indipendenti. In
altri termini, il concetto di colonia, nel mondo greco, era assolutamente
diverso da quello moderno. Soltanto per le sub-colonie derivate dalle
metropoli della Magna Grecia - ossia per Laos, Posidonia e Scidro
rispetto a Sibari; Ipponio, Medina e Metauro rispetto a Locri; Eraclea
rispetto a Taranto; Temesa e Terina rispetto a Crotone; e altre minori
- si può parlare di sudditanza coloniale, o per lo meno di
"protettorato" in senso moderno; ma anche questa condizione
fu molto limitata nel tempo e negli effetti: presto queste città
assunsero una particolare indipendenza dalle poleis fondatrici, e
in qualche caso entrarono in conflitto con esse.

I confini di Magna
Grecia sono ordinariamente fissati da Cuma a Taranto. Ma non si deve
ritenere strettamente circoscritto il fenomeno della colonizzazione
greca nella penisola italica: si ha notizia di altri centri più
a nord di Cuma, nel nord dell'Apulia e anche oltre questa regione,
lungo la costa adriatica. Ma queste località non ebbero né
vita lunga né una storia ben definita: presto furono sommerse
dalle popolazioni autoctone, dagli etruschi e dai sanniti sul versante
tirrenico, dagli japigi-messapi e dai dauni su quello adriatico. Prima
della colonizzazione, la penisola italica era abitata da popolazioni
di varie stirpi. Al nord, nella Campania, erano gli ausoni, od opici,
o aurunci, (nomi che per taluni storici indicano popolazioni diverse,
per altri invece si tratterebbe della stessa gente); più a
sud gli enotri, poi gli itali, i siculi, i coni, infine gli japigi-messapi.
Erano popolazioni con un alto grado di civiltà, con organizzazione
commerciale notevole, riunite in città, alcune delle quali
costituirono nuclei originari delle poleis. Esse avevano subito in
parte l'influenza dei fenici, forse anche dei cretesi, attraverso
relazioni dirette e traffici marittimi; l'incontro con i greci avvenne
in una fase successiva, generalmente attraverso i fondaci. Si trattò
di contatti pacifici. Solo in un secondo tempo gli japigi-messapi
opposero una resistenza accanita e in un certo senso efficace, dal
momento che Taranto non poté allargare che modestamente territorio
e influenza nell'area: unica sua colonia dedotta fu Callipolis. Tarantini
e siracusani, sotto Dionisio, furono in grado di stabilire pochi fondaci
e alcune "fattorie commerciali" qua e là, piuttosto
che autentiche colonie. Sembra che anche a Locri i greci abbiano incontrato
resistenza. In ogni caso, questi contrasti non ebbero proiezioni nei
tempi storici, almeno fino al V secolo, quando la reazione italica
si manifestò dapprima con i sanniti, e in seguito con i lucani
e i bruzii.
Il fiorire del commercio tra la Grecia e le popolazioni settentrionali
dell'Italia (etruschi, latini, sanniti, ecc.) fu assicurato dalle
colonie greche soprattutto dalle metropoli della costa ionica. Le
navi cariche di merci attraversavano lo Stretto di Messina, ove la
navigazione era difficoltosa, insidiata dai pirati tirreni e soggetta
alla buona o cattiva volontà di Reggio e di Zancle (Messina).
Di conseguenza, col tempo le poleis ritennero conveniente attraversare
l'Appennino, collegandosi con le altre colonie utilizzando in parte
città indigene. Le vie carovaniere lungo le quali si svolsero
i più fitti commerci utilizzarono le valli, evitando le zone
alte e impervie, avvalendosi delle strozzature (gli istmi) che caratterizzavano
la configurazione geografica soprattutto della penisola calabra. Nacquero
le vie istmiche, come quella percorsa dal commercio sibaritico che,
a nord della Sila, collegava il golfo di Sant'Eufemia con la piana
di Sibari, con le sub-colonie di Lao e di Scidro, e che attraversava
il Passo di Campotenese, percorreva la valle dell'Esaro e scendeva
per Scidro verso Belvedere Marittimo. Un'altra via istmica, più
breve, univa Locri con la sua colonia di Matauro, nel golfo di Gioia,
e poi con Medma e Hipponio.
Abbiamo detto che i limiti geografici della Magna Grecia propriamente
detta sono compresi tra Cuma e Taranto. All'interno, una determinazione
esatta è estremamente difficile, perché variabile e
nei tempi e da una regione all'altra. In sintesi, si può affermare
che l'effettivo territorio della Magna Grecia era limitato alle coste,
alle piane e alle valli aperte, mentre le aree altocollinari e appenniniche
rimasero dominio delle popolazioni italiche, spesso accessibili alla
civiltà greca, ma anche, a partire dal V, ma soprattutto nel
IV e nel III secolo, fiere avversarie dei colonizzatori.
La suddetta limitazione non esclude che in altre parti dell'Italia
continentale siano approdati i greci e vi abbiano fondato colonie
e fondaci; soprattutto nell'Apulia vi fu terreno di penetrazione da
tempi remoti: le leggende riguardanti la fondazione delle principali
città della Daunia, della Peucezia, in parte della Japigia
hanno chiari riferimenti con la mitologia greca, e sicuramente attivi
scambi commerciali e di cultura furono stabiliti in varie epoche e
rimasero quasi costantemente intensi. In ogni modo, non si può
parlare di vera e propria colonizzazione: l'intera regione, esclusa
Taranto, e le stesse singole città ebbero sempre carattere
misto, speciale, eccentrico rispetto alla vera e propria Magna Grecia.
Anche le colonizzazioni dei Dionisi, padre e figlio, furono soprattutto
creazioni a scopo commerciale e strategico e non giunsero mai ad avere
importanza politica autonoma.
L'arca di Cuma è isolata dal resto della Magna Grecia in quanto
i greci, a nord di Posidonia (Paestum) e fino al golfo di Napoli,
non fissarono colonie importanti, e se anche qualche traccia e qualche
ricordo si trovano, per esempio, nella penisola sorrentina (tempio
di Athena a Punta Campanella), tuttavia nessuna località ebbe
importanza politica e storica nell'ambito della Magna Grecia. I limiti
della regione cumana non sono ben delineati dal corsi dei fiumi, come
per lo più avviene per i territori di altre poleis: l'area
si può considerare compresa fra il lago Patria e il Vesuvio.
In essa sono inclusi le città di Cuma, Dicearchia (Pozzuoli)
e Neapoli (Palepoli o Partenope), i laghi di Averno, i Campi Flegrei
e Miseno. Nella stessa regione vanno comprese le isole adiacenti,
soprattutto Pitaecusa (Ischia), che fu la prima sede dei calcidesi
fondatori di Cuma.
Procedendo verso sud, segue una regione nella quale prevaleva il dominio
etrusco. Essa comprende la base del Vesuvio con Ercolano, Pompei e
Stabia, la penisola sorrentina con le città di Equae (Vico
Equense) e Surrentum, il cui Capo Ateneo (Punta Campanella) è
l'estremo limite del "Cratere", com'era chiamato il golfo
di Napoli. Dal Capo Ateneo ha inizio il "Sinus Posidoniate"
(oggi golfo di Salerno) con le città di Salernum, Eburi e Marcina
(Vietri), fino al fiume Silaro. Sotto il dominio etrusco era anche
tutta l'area interna della Campania, con le città di Volturnum
(Capua), di Nola e di Abella.
Col fiume Silaro (il Sele), ha inizio il territorio sicuramente greco
di Posidonia, con il tempio di Hera Argiva (Heraion) presso la foce
del fiume e, qualche chilometro più a sud, la città
stessa che ci ha lasciato le più importanti vestigia di Magna
Grecia.
Come confine meridionale del territorio posidoniate si considera il
fiume Solofrone, oltre il quale ha inizio il Cilento, regione montuosa
compresa fra i golfi di Salerno e di Policastro. La Punta Licosa e
l'isoletta omonima separano il Sinus posidoniate dal Sinus Veliense
e ricordano la sirena Leucosia. In fondo al Veliense, presso la foce
del fiume Alete (oggi Alente), era la polis di Velia o Elea, della
quale rimangono rovine interessanti e suggestive. Il suo territorio
rappresenta una sorta di isola indipendente, mentre tutto il litorale
del Sele fino al fiume Lao, e anche oltre, fino al fiume Savuto, era
sotto l'influenza di Sibari.
Il Capo Palinuro separa il Veliense dal sinus di Lao, oggi golfo di
Policastro. Palinuro e la vicina Molpe erano località di origine
greca, probabilmente sibaritica: la prima ricorda il nocchiero di
Ulisse il quale, secondo la tradizione, trovò qui morte e sepoltura
in un tumulo; Molpe, invece, ricorda l'omonima sirena, un'altra delle
tante suicide per la delusione sofferta a causa dell'indifferenza
del laerziade.

Ancora verso sud,
alla foce del fiume Bussento, nei pressi dell'odierna Policastro,
era la città di Pixus, che i romani ribattezzarono col nome
di Buxentum. In fondo al golfo oggi c'è Sapri, ove alcuni ritengono
che ci fosse la fortezza di Scidro, colonia sibaritica; altri però
indicano come più probabile ipotesi che tale località
sia da porsi molto più a sud. La cittadina di Blanda era invece
fra la fiumara di Castrocucco e la Fiumarella, sulla strada per Tortora.
Ci sono tracce di mura e di edifici e una necropoli. Colonne e resti
marmorei provenienti da Blanda sono rintracciabili in una chiesa di
Tortora. La città di Blanda, di origine lucana, ebbe rinomanza
solo in epoca romana.
Alla foce del fiume Lao, in una località non ancora conosciuta,
era la città omonima, colonia di Sibari, e, proseguendo lungo
la statale numero 18, nelle vicinanze delle rovine medioevali di Cirella
Vecchia, era la cittadella di Cerillae, forse anch'essa colonia di
Sibari, considerata confine settentrionale del Bruzio.
Più a sud, fino al fiume Savuto (l'antico Sabato) non si trovano
località di origine greca, se si toglie il paese di Amantea
che forse corrisponde all'antica Clampezia, più nota in epoca
romana e medioevale.
Col Savuto ha inizio il territorio di influenza crotonese, con le
città di Temesa e di Terina, non ancora riportate alla luce,
perché non localizzate con precisione. Tra il Savuto e la piana
di Sant'Eufemia è l'antico Sinus Lametius, contornato dalla
grande piana alluvionale attraversata da un'intricata rete di torrenti
e di fiumiciattoli, il più importante dei quali è l'Amato
o Lamato (il classico Lametus). Con questo fiume e col corso dell'Angitola,
nel versante meridionale, ha inizio la zona d'influenza locrese con
le città di Hipponio (Vibo Valentia), Medma (Rosarno) e infine
Matauro (Gioia Tauro). La statale numero 18 tocca le tre località
discostandosi dal mare, ma l'intero promontorio Taurianum, con il
Capo Vaticano, compreso fra il golfo di sant'Eufemia e quello di Gioia,
è regione di ricordi mitici e di ritrovamenti archeologici.
Lungo la costa, presso Tropea, doveva essere il porto di Ercole ricordato
da Plinio e, più all'interno, è l'importante necropoli
sicula di Torre Gallo, scoperta dall'Orsi nel 1922.
Presso Matauro sfocia il fiume Petrace (l'antico Metauro), che segnava
il confine fra il territorio locrese e quello reggino. Tra Gioia e
Palmi doveva trovarsi il porto di Oreste, anche questo ricordato da
Plinio; Ercole e Oreste sono gli eroi della maggior parte delle leggende
che riguardano questi luoghi. Più a sud, a guardia dell'imboccatura
dello Stretto di Messina, sta la rupe di Scilla che Anassilao di Reggio
fece fortificare quale postazione strategica per la difesa contro
le incursioni dei pirati etruschi. Sulla punta della penisola, sul
luogo della città moderna, sorgeva Rhegio, col suo territorio
stretto sotto l'Aspromonte e limitato sui due mari dal territorio
nemico di Locri.
Come confine ionico tra Rhegio e Locri è citato dagli autori
il fiume Halex, che verrebbe identificato con l'odierna fiumara di
Melito o con la contigua fiumara di Amendolea. All'interno, sul luogo
in cui sorge l'abitato di Condofuri, vi sarebbe stata la cittadina
di Peripolio, piccola e poco nota colonia locrese.
Il capo Spartivento è il promontorio Herculeum. Infine, Locri,
le cui rovine iniziano sulla statale ionica a tre-quattro chilometri
dall'odierna Locri Marina e si inoltrano verso l'interno. Più
a nord, il torrente Torbido è per lo più ritenuto corrispondente
al fiume Sagra, dove si sarebbe svolta la celebre battaglia fra Locri
e Crotone nel VI secolo; questo corso d'acqua costituiva il confine
fra il territorio locrese e quello di Caulonia.
Rientriamo così nella regione che era sotto l'influenza di
Crotone. Caulonia era situata intorno alla collina di Capo Stilo (faro),
l'antico promontorio Cocynto: i resti delle mura della città
sono visibili all'interno e la base del tempio di Apollo Catarsio
è sulla spiaggia. Più a nord, il vallone Galliporo corrisponde
forse al classico Elleporo, ove avvenne la battaglia vinta da Dionisio
I contro la Lega italiota.

Da capo Stilo
la costa prende una direzione nord, contornando il golfo di Squillace,
il Sinus Scyllaceus, dalla omonima città greca che si ritiene
fosse nel luogo stesso dell'odierna Squillace. Tra questo golfo e
quello tirrenico è compresa la parte più stretta della
penisola calabra, che era percorsa dalla più corta via istmica,
utilizzata dalle correnti commerciali Ionio-Tirreno. Attraverso quest'area,
secondo Strabone, Dionisio avrebbe stretto un vallo di difesa contro
le invasioni lucane. Nello Scyllaceus, oltre al ricordato Elleporo,
sfociano i fiumi Cecino, Crotalo, Semiro, Aroca e Targina che oggi
sono chiamati rispettivamente Ancimale, Corace, Simeri, Crocchio e
Tacina: quest'ultimo costituiva forse il confine fra il territorio
di Caulonia e quello di Crotone.
Oltre ancora, il gruppo dei promontori japigi (capo Le Castella, capo
Rizzuto e capo Limiti): qui termina l'arco del golfo di Squillace,
cui segue il promontorio Lacinio (capo Colonna) che conserva i pochi
resti del santuario di Hera Lacinia.
Crotone, la grande e potente metropoli greca, era sicuramente situata
nello stesso luogo dell'attuale città, alla foce del fiume
Esaro, ma nessuna traccia è giunta ai giorni nostri. Il suo
territorio, prima del 510 a. C., era forse limitato a nord dal grande
fiume Neto, poiché la regione seguente, con le città
di Petelia, Crimisa e Macalla, era probabilmente sotto il dominio
di Sibari, ma con la distruzione di questa città il territorio
sotto il controllo di Crotone si estese fino a comprendere tutta la
Sibaritide. Le tre città suddette erano unite da un'unica leggenda
che le diceva fondate ad opera di Filottete e tutto il territorio
dal Neto fino a Punta Alice (promontorio Crimiso) era ricordato come
il teatro delle ultime gesta di questo arciere capo dei tessali. Petelia
sarebbe stata al posto dell'odierna Strongoli, per quanto eruditi
locali la vorrebbero situata più a sud, a Petilia Policastro;
Crimisa invece al posto di Cirò, con i resti del tempio di
Apollo a Punta Alice. Di Macalla non si hanno notizie precise.
Col promontorio Crimiso si apre il vasto golfo di Taranto, ultimo
Sinus della Magna Grecia propriamente detta.
Col fiume Ilia (odierno Fiumenicà) aveva inizio il territorio
di Sibari (Sibaritide) e il fiume Traente (oggi Trionto) è
ricordato per la battaglia del 510 tra Crotone e Sibari e per la città
di Sibari detta "sul Traente" fondata intorno al 440 a.C.
dai discendenti dei sibariti superstiti. A Castiglione di Paludi,
tra Rossano e Cropalati, sono emerse rovine che fanno supporre si
tratti di Sibari sul Traente.
La strada ionica numero 106, dalla stazione di Rossano prosegue per
Corigliano, mantenendosi sul crinale collinoso, ma un altro ramo della
stessa strada si mantiene parallelo più a valle, e le due arterie
si uniscono nuovamente nell'attuale città di Sibari: la prima
passa vicino ai luoghi ove sorgevano la grande Sibari e Turio (questa
città fu erede della prima), attraversando i fiumi Crati e
Coscile (l'antico Sibaris); la seconda strada, invece, più
vicina al litorale, attraversa il Crati già confluito al Coscile,
nei pressi del luogo in cui sono state ritrovate le rovine della romana
Copia; e si tratta degli unici resti archeologicamente classificabili
in una regione una volta ricca di centri storici. E non va dimenticato,
a questo punto, che l'ampia valle del Crati (piana di Sibari) era
intensamente coltivata e costituiva la maggior fonte di ricchezza
per la città.
A nord del Crati, la strada ionica corre parallelamente alla ferrovia
lungo il litorale fino alla piana formata dalla foce del fiume Siris
(oggi Sinni); e sulla sinistra di questo corso d'acqua sorgeva infatti
la città di Siri, ricca per la fertilità del suo territorio
(la Sirtide), compreso fra il Siris e l'Akiron o Acirius (oggi Agri).
Nulla si è trovato che ricordi la Siri del VII e del VI secolo,
città importante e opulenta, ma di vita breve. Nel suo territorio
sorse nel V secolo la città di Eraclea, colonia tarantina,
che era situata nel luogo del paese oggi chiamato Policoro. Dopo la
sua distruzione, pare che Siri sia risorta come porto di Eraclea.
Una strada che parte da Policoro e sale verso l'interno porta all'antica
chiesa di Santa Maria, ex cattedrale di Anglona, cittadina medioevale,
oggi scomparsa, che sorgeva su una collina. Un tempo, proprio da questa
collina dominava la città greca di Pandosia, di origine italica,
che non va confusa con l'omonima città bruzia che si trovava
invece nell'alta valle del Crati.
Dopo avere attraversato l'Agri, la strada ionica supera il fiume Cavone
(l'Acalandro dei greci), poi il Basento (antico Casuento), ed entra
nella regione metapontina. La città di Metaponto era più
verso la spiaggia e i resti che oggi si possono ammirare (il tempio
di Apollo Liceo, il teatro, la necropoli e un breve tratto di mura)
sono sulla destra della strada, nei pressi della stazione ferroviaria.
Il celebre tempio delle Tavole Palatine era oltre il recinto della
città, e le sue rovine emergono suggestive sul lato sinistro
della strada, nelle vicinanze del ponte sul Bradano. E lì è
sorto un interessante museo.
Col fiume Bradano si entra nella regione tarantina. L'antica città
greca occupava lo stesso posto dell'attuale; era, cioè, nella
penisoletta compresa fra i mari Piccolo e Grande, con l'acropoli dislocata
sulla sommità del colle che dominava all'estremità della
penisola stessa. E poi il quartiere vecchio della città ha
preso il posto di quell'acropoli. Ovviamente, il canale navigabile
che oggi separa la città vecchia da quella nuova, ai tempi
della Taranto greca non esisteva (fu aperto infatti nel 1490) e la
comunicazione fra i due mari era resa possibile solo attraverso il
canale naturale che separa la punta della penisola dalla terraferma.
Il mar Piccolo costituiva il vero porto naturale di Taranto ed era
prezioso ricovero per le flotte mercantili e militari.
Qui terminava la Magna Grecia, poiché a un'ulteriore espansione
in Puglia, come già detto, gli japigi-messapi opposero sempre
una strenua resistenza. Unica colonia tarantina, Callipolis (Gallipoli),
di scarsa importanza o di vita breve, se non ci è pervenuta
alcuna notizia.
Per il resto, si trattò di approdi, di fondaci, di strisce
di territorio utilizzate esclusivamente a fini commerciali con le
popolazioni locali.
Dalla seconda metà dell'VIII secolo a tutto il VII si susseguono
le colonizzazioni e subcolonizzazioni. Ma dall'intero periodo non
possiamo conoscere che quel che ci viene tramandato dalla letteratura
classica, e cioè un misto di fantasia poetica e narrativa,
di leggende, di memorie mitologiche, da cui l'opera critica paziente
degli studiosi, con l'ausilio dei ritrovamenti archeologici può
ricavare un quadro limitato alle fondazioni e alle condizioni generali
di civiltà, senza molti dettagli su avvenimenti storici precisi.
E' solo col VI secolo che si cominciano a distinguere vicende ben
differenziate, per quanto ancora circonfuse da leggende. La storia
del VI secolo è caratterizzata infatti dalle guerre che le
poleis combatterono fra di loro, antagoniste per motivi commerciali
o politici. La prima guerra fu quella condotta dalle tre città
achee, Sibari, Metaponto e Crotone, contro la ionica Siri; il conflitto
si concluse con la distruzione di Siri e con la spartizione della
Sirtide fra Metaponto e Sibari. Seguì, forse vero la metà
del secolo, la guerra fra Crotone e Locri. Delle due, Crotone era
senza dubbio la più forte, più ricca e meglio armata;
ma Locri, grazie al valore dei suoi soldati e dei suoi capi, ebbe
la meglio e ne uscì notevolmente rinvigorita. La dura sconfitta
segnò per Crotone una fase di stagnazione, dalla quale venne
fuori anche grazie alla predicazione pitagorica: la città si
riprese molto bene, al punto di essere presto in grado di affrontare
la guerra contro Sibari.
Questo conflitto ebbe origine da divergenze politiche, oltre che da
ambizioni di possesso territoriale. Infatti, mentre a Crotone vigeva
un regime aristocratico permeato dalle severe concezioni filosofiche
(e in parte esoteriche) di Pitagora, a Sibari la straordinaria ricchezza
e una certa mollezza di costumi avevano portato a un regime demagogico
e infine alla tirannide. La guerra, rapida e violenta, si concluse
con la vittoria dei crotoniati e con la distruzione, almeno parziale,
di Sibari. Le conseguenze di quell'immane scontro furono fondamentali
per Crotone che, giunta al pieno possesso del ricchissimo territorio
sibaritico, acquistò enorme prestigio e potenza. Dopo questo
periodo di guerre interne, alla fine del VI secolo iniziarono le relazioni
e i rapporti della Magna Grecia con le nazioni confinanti. Forse,
crescendo la potenza delle poleis, esse cominciarono ad urtare gli
interessi di popoli vicini. Il confinante di maggior rilievo era naturalmente
a nord: il popolo etrusco il quale, dall'inizio del secolo, era padrone
di Capua e premeva contro il territorio cumano per estendere il proprio
dominio sull'intera regione campana. Cuma, sul finire del secolo,
si oppose validamente, e con Aristodemo il Malaco passò energicamente
all'offensiva. Ma la definitiva caduta del potere etrusco nell'area
si ebbe soltanto nel V secolo, con l'intervento siracusano.
Come a Cuma, limite nord-occidentale della Magna Grecia, così
al confine opposto, cioè a Taranto, i Greci dovettero combattere
contro le popolazioni autoctone, e particolarmente contro gli japigi-messapi.
Questa lotta pare abbia avuto inizio verso la fine del VI secolo,
mentre la sua fase culminante si ebbe nella battaglia del 471 in cui
le forze alleate di Taranto e di Rhegio subirono una grave sconfitta.
Solo in seguito Taranto ebbe la sua rivincita, ma la penetrazione
tarantina in Apulia non fu mai completa né vasta.
La storia del V secolo è molto più ricca di vicende
ed è nota con maggior precisione. Alla caduta della potenza
etrusca in Campania fece seguito l'invasione dei sanniti, i quali,
conquistata Capua nella seconda metà del secolo, ben presto
riuscirono anche ad infiltrarsi nel territorio di Magna Grecia assoggettando
e addirittura assorbendo alla loro civiltà alcuni grandi centri.

Come conseguenza dell'avanzata dei sanniti in Campania, si ebbe la
comparsa delle genti lucane, che tanta parte ebbero nella storia della
Magna Grecia. Questa stirpe è considerata come derivata da
tribù sannitiche staccatesi dal ceppo originario; non è
ben chiara l'origine del loro nome e neppure lo sono le cause di quella
separazione. Verso la fine del V secolo, tutta la costa tirrenica,
fino al fiume Lao, cadde in potere dei lucani.
Quanto alle vicende delle singole poleis nel V secolo, tra esse emergono
soprattutto Rhegio e Crotone. La prima ebbe una fase di forte sviluppo
all'inizio del secolo, al punto che contrastò la potenza di
Siracusa, alleandosi con i cartaginesi; e fu così la prima
volta che Cartagine, una delle maggiori potenze del Mediterraneo,
entrò in contatto con la Magna Grecia. Ma il tentativo ambizioso
di Rhegio fallì e la sua politica egemonica dovette ripiegare.
Anche Crotone ebbe una fase di potenza e ricchezza, ma, verso la metà
del secolo, a causa della rivolta antipitagorica, attraversò
una crisi interna che diede inizio alla sua decadenza. Tanto a Rhegio
che a Crotone, come del resto in quasi tutte le altre poleis, i governi
si esprimevano in direzione democratica; anche il regime di Archita
a Taranto era permeato da spirito democratico, e la città,
sotto quell'illuminato governo, sviluppò straordinariamente
commercio e ricchezza.
Nella seconda metà del V secolo ci sono ancora nuove fondazioni:
Turio, Sibari sul Traente, Eraclea; ma esse non sono che la conseguenza
dell'incerta situazione in cui quella zona ionica si trovava fin dalla
scomparsa di Siri e di Sibari. Tuttavia, le nuove città svolgeranno
un ruolo non indifferente. All'inizio del IV secolo un nuovo pericolo
esterno, forse il più grave, minacciava la Magna Grecia: le
mire espansionistiche di Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa.
La prima e più diretta rivale era, naturalmente, Rhegio: questa
florida città fu in breve quasi del tutto distrutta; anche
se dopo risorse, non svolse mai più un ruolo di primo piano
sulla scena politica. Le altre poleis compresero quale pericolo rappresentava
Dionisio, allora si unirono contro di lui nella Lega italiota. E fu,
questo, uno dei rarissimi casi in cui, di fronte a un pericolo comune,
le poleis dimostrarono spirito di unità.
La Lega venne battuta, ma ottenne ugualmente un risultato: Dionisio,
quasi in segno di rispetto, tenne verso le città vinte un comportamento
eccezionalmente benevolo, comunque ben diverso da quello dimostrato
nel caso di Rhegio. Ciò gli accattivò la simpatia degli
italioti, che si sottomisero alla potenza siracusana. In questo modo,
però, si spense l'unica possibilità di un'unificazione
"nazionale" a cui evidentemente lo stesso spirito greco
non era portato. Sulla metà del secolo, in Calabria e Lucania
si affermava la minacciosa potenza di un popolo nuovo: i bruzii. Sorti
dalla fusione fra tribù lucane e discendenti delle popolazioni
originarie della Calabria, al principio del IV secolo si erano staccati
dal ceppo lucano vero e proprio, si erano resi indipendenti e avevano
fondato una confederazione molto attiva e battagliera. Loro sede pare
fosse la Sila, ove conducevano una vita rude e selvaggia e dalla quale
scendevano per razzie dapprima solo brigantesche, e in seguito per
vere e proprie spedizioni militari che fecero cadere in loro possesso
molte città di Magna Grecia.
L'avanzata delle forze bruzie e lucane subì arresti e arretramenti
grazie all'arrivo di condottieri stranieri, chiamati in Italia dai
tarantini: prima Archidamo, re di Sparta; poi Alessandro il Molosso,
re dell'Epiro, che intraprese con successo un'azione a vasto raggio.
Ma fu storia di breve durata: ambedue i condottieri trovarono la morte
nel corso delle loro imprese, e la situazione tornò ad essere
quella di prima. Alla fine del secolo si aggiunse alla serie degli
aiuti stranieri chiamati dalla potenza finanziaria di Taranto quello
di Cleonimo, principe di Sparta, che sembrò ottenere per un
poco maggior successo, arrestando l'avanzata lucana.
Ma ormai nella storia del IV secolo si rivelava il declino della potenza
e dell'indipendenza della Magna Grecia: da un lato prevalevano le
popolazioni di discendenza sannitica e autoctona, con la loro pressione
inesorabile e con la loro indole guerresca; dall'altro, la prepotente
ingerenza siracusana tendeva a mettere le poleis una contro l'altra.
E anzi, la causa prima del declino fu proprio il disaccordo, e furono
le gelosie fra le varie città. A questo punto si affacciò
sulla scena della storia Roma, di fronte alla quale sia la Magna Grecia
che i suoi nemici erano destinati a sparire. Già nel IV secolo
i romani prevalsero nelle accanite guerre contro i sanniti: la sconfitta
di questo popolo garantì all'Urbe la penetrazione e la conquista
dell'Italia meridionale.
Dall'inizio del III secolo le poleis cessarono di essere protagoniste
delle vicende storiche: ne furono soltanto trascinate. Unici attori,
ancora per un decennio, furono i siracusani, con Agatocle; poi ebbero
il sopravvento i romani, che presidiarono varie città, finché
nel 281 ebbe inizio la lotta fra Roma e Taranto, unica potenza greca
superstite, con Pirro epirota grande protagonista: dopo la caduta
di Taranto (272) e fino all'arrivo di Annibale (seconda guerra punica),
le poleis vissero all'ombra della potenza romana, che non fu gravosa
e permise di conservare alcune istituzioni locali e anche una certa
autonomia amministrativa. Durante la prima guerra punica (264-241)
la principale sede di operazione fu la Sicilia. La Magna Grecia fu
logicamente la base strategica per la condotta del conflitto per il
passaggio delle truppe e per i rifornimenti. Importantissima fu poi
la collaborazione navale che le poleis offrirono a Roma: solo così
si può spiegare la rapida e miracolosa formazione della flotta
romana vittoriosa a Milazzo, ad Ecnomo e alle isole Egadi. In effetti,
i romani erano stati fino a quel momento digiuni d'ogni esperienza
marinara ed è giusto ritenere che solo grazie all'aiuto delle
poleis giunsero a sconfiggere celebri navigatori come i cartaginesi.
Curioso è il fatto che, sempre nella prima guerra punica, fosse
un altro greco, Santippe di Sparta, ad insegnare invece ai cartaginesi
l'arte della guerra terrestre e a portarli alla vittoria contro Attilio
Regolo.
Dopo la sconfitta di Canne (216), quasi tutte le città magnogreche
caddero sotto il dominio cartaginese. Metaponto fu addirittura per
un certo tempo il quartier generale di Annibale. Alcune poleis erano
state sottomesse con la forza, come Petelia; altre avevano accolto
spontaneamente il gran cartaginese, e subirono per questo la dura
vendetta romana al momento della riconquista. Nel 202 la terribile
battaglia di Zama segnò il tramonto di Annibale e la fine della
seconda guerra punica, allora il processo di romanizzazione della
Magna Grecia ebbe libero sviluppo.
Quasi tutte le poleis ebbero la qualifica di confederate, alcune in
condizioni di maggior privilegio. Conservarono una certa autonomia
e alcuni caratteri culturali e tradizionali greci, ma non ebbero politica
indipendente. Tranne che per Napoli e Pozzuoli, tutte ebbero una drammatica
decadenza economica. Poi venne la vera colonizzazione romana, della
quale fu iniziatore Scipione. Alcune colonie vennero impiantate con
nuove fondazioni. Altre furono stanziate nelle città stesse,
magari con nome mutato. In un primo tempo furono colonie a carattere
militare, poi se ne accentuò il carattere agricolo; e in seguito,
a poco a poco, dell'intera Magna Grecia non rimase che il ricordo
delle glorie trascorse, e sopravvisse l'influenza della cultura greca,
che Roma assimilò rapidamente.
GIACIMENTI
D'ITALIA
Sono numerose le Italie dei beni culturali, come tante sono le diversità
legate alla geografia, alla storia, alle etnie già presenti
e attive culturalmente prima della Pax Augustea. Tante Italie stratificate
nel tempo, dall'VIII secolo a.C. ai giorni nostri. Caso unico al mondo,
abbiamo mantenuto una fioritura di espressioni artistiche straordinaria
per quantità e per qualità. Non c'è un "secolo
d'oro" nella nostra storia. Abbiamo tanti secoli aurei e argentei,
li abbiamo avuti in ogni epoca.
Le cifre italiane in materia di giacimenti artistici sono imponenti.
Oggi sappiamo di possedere 3.300 musei (fino a pochi anni fa ne conoscevamo
meno di 2.000), fra statali, civici, diocesani, vicariali, parrocchiali,
comunitari, privati; centinaia di aree archeologiche; almeno 30.000
chiese di grande importanza; un migliaio di centri storici ritenuti
"di eccezionale valore storico-artistico" fra i 20.000 esistenti
in Italia; 40.000 fra rocche, castelli e torri; 5.000 ville e dimore
storiche, con 3.000 giardini anch'essi classificati storici; centinaia
di biblioteche antiche e preziose, da quelle statali delle capitali
di ex Stati sovrani a quelle civiche, a quelle religiose, e migliaia
e migliaia di archivi, a partire dalle parrocchie (attualmente 25.000,
dopo forti concentrazioni) e dai comuni che sono intorno ad 8.000,
alcuni con imponenti raccolte documentarie, come l'Archivio Capitolino.
Schierata la forza, davvero imponente, dei beni culturali, va subito
detto che essa si dispone in modo diverso da nord a sud. I musei italiani
sono divisi in 700 statali, 1.500 civici, mentre gli altri sono religiosi,
comunitari, privati. Ebbene, vi sono grandi città come Brescia
che non hanno un solo museo statale, ma che in compenso presentano
una galassia di raccolte civiche straordinarie. La stragrande maggioranza
dei 1.500 musei civici è concentrata fra il Centro e il Nord.
Nella stessa Roma appartengono al Comune, fra gli altri, i formidabili
musei Capitolini e quell'Antiquarium i cui 50.000 pezzi sulla vita
quotidiana nell'Urbs sono tuttora chiusi nelle casse, ormai da mezzo
secolo. Per non parlare di Venezia, dove sono comunali il Palazzo
Ducale e il Museo Correr; o Milano, dove la parte civica comincia,
nientemeno, dal Museo del Castello Sforzesco.
Nel Sud, la mappa dei musei cambia in modo radicale. Più debole
la tradizione comunale. Preponderanti, quindi, lo Stato e la Chiesa,
insieme con i privati. Qui i musei civici si contano sulle dita, mentre
le raccolte statali sono le più importanti e riguardano soprattutto
l'archeologia. Tale è la ricchezza di reperti archeologici
nel Sud della penisola, che giustamente si suol dire che se un greco
vuol vedere che cosa sia un vaso attico deve necessariamente recarsi
nel nostro Mezzogiorno.
Per quanto riguarda le pinacoteche, pochissime nel nostro Paese, va
detta una cosa per lo più ignorata: la stragrande maggioranza
di tele, di quadri, di affreschi è collocata all'interno di
edifici religiosi. Se ciò è vero al 70-75 per cento
in tutta Italia, è verissimo addirittura al 90-95 per cento
nel Sud e nelle Isole.
Secondo una stima recente, i complessi monastici sono circa 1.500,
di cui oltre la metà nel Centro-Sud; i musei diocesani sono
85, quelli parrocchiali 140, un centinaio quelli di comunità
religiose, mentre ordini e congregazioni ne registrano 55. Al 1990
(ultimi dati disponibili), i musei ecclesiastici aperti e in allestimento
erano circa 500, due per diocesi. Complessivamente, le chiese italiane
sono 95.000, di cui 1.300 di proprietà statale (comprese tutte
le principali chiese e basiliche romane), le biblioteche 3.100 e gli
archivi almeno 25.000 parrocchiali più altri 3.000 fra diocesi,
seminari, monasteri, e via di seguito, tutti essenziali per la memoria
storica del nostro Paese. Non si parla purtroppo quasi mai di biblioteche
e di archivi, il cui stato, siano essi civili o religiosi, statali
o privati, è spesso allarmante. Eppure, lì è
sedimentata la storia delle nostre comunità, lì sono
stratificati documenti irripetibili.
La stessa indagine non è riuscita a stimare quanti siano, per
esempio, gli organi musicali antichi e artistici. Vale la testimonianza
diretta di uno dei maggiori esperti, il bolognese Oscar Mischiati,
il quale da solo negli ultimi trent'anni ne ha visitati e censiti
un migliaio, dal superbo "Serassi" di Tirano, nell'Alta
Valtellina, all'organo non meno maestoso di Cefalù.