"Agli
albori del 2 luglio 1820, due sottotenenti, Morelli e Silvati, e 127
tra sergenti e soldati del reggimento "Reale Borbone Cavalleria"
disertarono dai quartieri di Nola, secondati dal prete Menichini e da
20 settari carbonari, volgendo tutti ad Avellino per unirsi ad altri
settari giorni innanzi sbanditi da Salerno e riparati colà dove
la setta era numerosa e potente. Vogliono le rivoluzioni una parola,
sebben falsa, lusingatrice degli universali interessi: perocché
le furie civili, mostrate nude, non troverebbero amatori o seguaci".
Così Pietro Colletta, nella sua Storia del Reame di Napoli, apre
il capitolo dedicato ai moti costituzionali nel Regno. Ma che cosa c'era
dietro il moto "preparato da pochi, voluto da tutti", e che
vedeva protagonisti ufficiali e preti uniti dalla comune fede carbonara,
che si proponeva di ottenere al popolo napoletano una Costituzione sul
modello della Spagna, e che altrettanto paradossalmente non aveva come
epicentro la capitale, ma la provincia?
Secondo lo storico Guido d'Agostino, alle spalle c'era il '99, "la
prima sventurata reazione borbonica, e quindi il decennio francese con
le speranze che aveva acceso e che erano state bruciate con la drammatica
fine del Murat" fucilato a Pizzo Calabro; ma c'era soprattutto
"il quinquennio immediatamente precedente lo scoppio di luglio,
vale a dire la seconda restaurazione borbonica che aveva dispiegato
attitudini e metodi assolutamente opposti a quanto avvenuto dopo la
caduta della Repubblica partenopea". Ciò non aveva impedito
tuttavia una netta divisione di campo tra i sostenitori della politica
cosiddetta dell'amalgama, fortemente caratterizzata dalla prospettiva
della continuità rispetto al decennio francese e all'esperienza
fatta sotto Murat, e quanti invece ritenevano ingiusto e pericoloso
offendere così i sentimenti dei legittimisti per cui preferivano
che si tenesse un atteggiamento molto meno condiscendente e "unitario",
soprattutto nei confronti dei carbonari contro cui occorreva invece
mobilitarsi, contrapponendo la setta opposta dei "calderari".
Se questo era il contenzioso a livello governativo, nel corpo sociale
le spaccature e le divisioni erano destinate ad approfondirsi per la
politica fiscale rimessa in auge dai Borbone, per la gravissima crisi
economica che attanagliava il paese e che divideva la borghesia commerciale
da quella fondiaria, la città dalla campagna, per il malcontento
che serpeggiava in vasti settori dell'esercito, e più ancora
per la sensazione, che si può dire universale, di essere ricaduti
in una situazione di stallo. Fatto sta che la pur grave insubordinazione
dei militari di stanza a Nola, in Irpinia, nell'arca salernitana, viene
inizialmente sottovalutata, sebbene non fossero mancati segnali e avvertimenti
inquietanti.
Nel giro di pochissimi giorni, il movimento si amplia e guadagna l'adesione
dei reggimenti mandati a sedare la rivolta e comandati dal generale
Guglielmo Pepe.
A questo punto, gli obiettivi politici sostenuti dai capi democratici
e radicali, ancora seguiti dalle masse contadine, vengono svuotati dalle
concessioni economiche cui il governo si lasciò andare, mentre
si fa strada impellente la richiesta di concessione della Costituzione.
Il 6 luglio Ferdinando deve promettere, suo malgrado, che entro una
settimana avrebbe promulgato la Costituzione, il cui fulcro istituzionale
sarebbe stato rappresentato da un Parlamento nazionale. E di fatto il
13 seguente l'intera famiglia reale giurava nella Cappella della reggia
il testo della Carta esemplato sull'analoga Costituzione spagnola del
1812.
Nei fatti, la simultanea rivolta separatista in Sicilia privava il Parlamento
dei deputati isolani, tra i quali erano risultati in maggioranza esponenti
del clero e dell'aristocrazia, mentre tra quelli continentali i nobili
costituivano una quota molto esigua. Malgrado la contrarietà
di Ferdinando, il Parlamento riusciva per qualche mese ad essere il
centro della vita politica del paese. Ma anche in questo caso la disunione
tra le forze, la disomogeneità degli intenti, l'incostanza e
la mancata tenuta dei capi, minano dall'interno una situazione cui darà
il colpo di grazia l'evolversi della situazione internazionale, e, alla
fine, l'intervento armato dell'Austria. Lo scontro tra Ferdinando e
il Parlamento alla vigilia del Congresso di Lubiana, a fine gennaio
1821, e l'esplosione della "questione contadina" annunciano
il tracollo della stagione costituzionale. I diritti della forza e della
proprietà, gli egoismi di classe e la sordità della Corona
concorrono nella reazione e nella repressione che si scatena puntualmente
e che culmina nell'impiccagione di Silvati e Morelli.
Moderati e democratici napoletani trassero dagli eventi due lezioni
distinte e contrapposte, ma si scontrarono nella circostanza l'asfittica
impostazione della borghesia agraria, l'esasperato regionalismo delle
prospettive politiche e istituzionali, la solitudine di un popolo che
ancora non sapeva o voleva guardare a quanto si preparava in altre parti
d'Italia. Ventisette anni più tardi si profila una nuova opportunità
per riprendere il filo delle rivendicazioni costituzionali. Sulla scia,
una volta di più, dell'insurrezione siciliana, ma adesso con
una più aperta comprensione della situazione isolana e anche
una maggiore consapevolezza della necessità di unire le forze,
i liberali napoletani guidati dal Bozzelli, nelle cui file tornano a
militare gli antichi costituzionali del 1820-'21, passano all'azione.
Di fronte a ciò, Ferdinando II, che pure aveva impresso al suo
regno un indirizzo marcatamente accentratore, peggiorando in questo
modo le già cattive condizioni delle province, concede dapprima
alcune riforme, ma poi si induce alla promessa di concessione della
Costituzione richiesta. A fine gennaio 1848 le tappe sembrano essere
rapidamente bruciate: protagonista assoluto, in questa fase, il Bozzelli,
ministro dell'Interno e delegato alla stesura della carta costituzionale
che, contro la proposta di un mero ripristino della Costituzione del
'20, spingeva per un testo che tenesse presente piuttosto il modello
francese del 1830. La Costituzione (89 articoli), la prima promulgata
in Italia nel fatidico 1848, nasce ufficialmente tra l'8 e il 9 febbraio.
Contrariamente alle tante aspettative, il potere del sovrano non ne
usciva veramente limitato, ad onta del Parlamento bicamerale che vi
era previsto, e per più di un verso la sostanza delle cose appariva
più arretrata rispetto alle stesse conquiste del '20-21.
Tra febbraio e marzo, altri importanti provvedimenti vedono la luce:
dalla legge elettorale alla riorganizzazione della Guardia Nazionale,
in un clima di perdurante insoddisfazione e di tensione per i fatti
di Sicilia e per la ventilata intenzione governativa di usare le maniere
forti nell'isola.
L'eccitazione della piazza cresce anzi tanto da determinare la cacciata
dei Gesuiti dal regno a furor di popolo, e a provocare un duro intervento
di polizia e misure repressive. Cadono nello stesso periodo le agitazioni
"sindacali" di alcune categorie operaie (edili, tipografi),
con conseguenti iniziative da parte del ministero (le "case di
lavoro").
E intanto la plebe vigila minacciosa: "Non avendo terre a dividere
meditava di assalire le case e saccheggiare, come aveva fatto nel 1799"
(Luigi Settembrini). A fine marzo, la notizia della ribellione del Lombardo-Veneto
suscita grande emozione e concitate manifestazioni popolari. La situazione
in Sicilia si fa sempre più pesante: il 13 aprile il Parlamento
isolano dichiara decaduta la monarchia borbonica! A Napoli, crisi di
governo ed elezioni per il Parlamento da cui esce una Camera moderata,
risultato favorito da una altissima astensione dalle urne. Per il 13
maggio è prevista la solenne apertura dell'assemblea in San Lorenzo,
sede degli antichi Parlamenti generali del Regno in età spagnola,
ma le cose si mettono male sin dall'inizio. Intoppi procedurali e disaccordo
sulla formula del giuramento costituzionale coprono la realtà
della non accettazione, da parte di Ferdinando, del governo costituzionale
e danno esca allo scoppio di incidenti.
Sul punto, le versioni sono incerte e contraddittorie, e se alcuni insistono
per interpretazioni che lasciano spazio all'elemento della casualità
e della cattiva sorte, per altri vi sarebbe stata la ricerca intenzionale
dello scontro e dunque le provocazioni montate ad arte. Tant'è,
tra il 14 e il 15 maggio la città si trasforma in una bolgia,
con scontri e barricate un po' dovunque, a partire dalla zona tra Santa
Brigida, San Ferdinando e Toledo, per spostarsi poi verso Porta Alba,
Piazza Dante (Mercatello) e Costantinopoli. Intervengono la truppa e,
soprattutto, i mercenari svizzeri: è praticamente un massacro
incontrollato e incontrollabile mentre bande di lazzari e di luciani
scorrazzano come furie, abbandonandosi al saccheggio e alla distruzione.
Il bilancio è pesantissimo: sette ore di scontri, decine e decine
di barricate, un migliaio di insorti, centinaia di morti e di feriti
tra le due parti e tra militari e civili, dodicimila militari in campo.
Le conseguenze politiche e quelle giudiziarie sono non meno pesanti,
con condanne, carceri ed esilii. Ne esce comunque distrutta la monarchia.
Infine gli eventi segnavano pure la crisi decisiva dei moderati e il
superamento delle angustie regionalistiche, anche se non riuscivano
a produrre il riavvicinamento tra la capitale e le province. L'anno
si concludeva con il nuovo Parlamento, nel quale sedeva il fior fiore
del liberalismo meridionale (Savarese, Pepe, Dragonetti, Imbriani, Spaventa,
Troyan, Poerio, Scialoia, ecc.), a fronte del quale si insediava un
governo "moderato e municipalista".
Una situazione nuovamente bloccata, da cui si usciva con nuovi disordini
e provocazioni poliziesche, nonché il rinvio sine die dell'effettivo
svolgimento dei lavori parlamentari. Il tutto, ormai, evidente annunzio
della crisi irreversibile e preludio del crollo finale della dinastia
e del Regno indipendente.
FESTE, FARINA
E ILLUMINISMO
"O Francesco sei piccino/ ma mi sembri tanto grante (licenza
poetica)/ che Golia, quel gran gigante,/ è pigmeo avanti a
te". Con la penna appena usata per firmare la condanna a morte
di un giacobino, il giudice Ferdinando Ingarrica, ispirato da una
musa scalcinata, scrisse la quartina celebrativa del fausto evento,
la nascita dell'ultimo re borbone. Quando Franceschiello compì
sei anni, l'eclettico magistrato, desideroso di contribuire all'educazione
del principino, prese a modello il De rerum natura e compose un didascalico
poemetto che cominciava così: "Stronomia e scienza amena/
che l'uom porta a misurare/ stelle, sol e il glob' lunare/ e a veder
chi è lassù". Non si pensi che il giudice Ingarrica
sia una maschera, un triste-grottesco Pulcinella che ha sostituito
il camice bianco con la toga. Fu un uomo in carne ed ossa.
La sua devozione al "Re lazzaro", Ferdinando II, gli procurò
la funzione di "Iudice della grande corte criminale". Un
potente del Regno. E un Regno che, accanto a poetastri del genere,
vedeva uomini di prim'ordine, anticipatori nei campi delle scienze
politiche, delle lettere, della scienza tecnica, degli ordinamenti
civili. Occorre rimettere la verità sulle sue gambe: al di
là di una tradizione storiografica spesso disattenta e faziosa,
restano accanto agli innegabili errori anche i segni tangibili di
un Regno progredito e colto.
E' un fatto che mentre l'Europa festeggiava il bicentenario della
presa della Bastiglia, a Caserta si celebravano le feroci plebi che
col cardinal Ruffo spazzarono la repubblica giacobina del '99 con
un bagno di sangue. Finirono sul patibolo ottomila intellettuali.
"Il Borbone strangolò la sua accademia", scrisse
Stendhal. Per mano del boia il reame perse quasi tutti i suoi uomini
migliori. Sulla città privata dei lumi calò una coltre
oscura, e la nottata non è ancora trascorsa. Vinse la cultura
lazzarona. Il fenomeno camorristico rappresenta il suo ultimo nato.
In nome della Vandea meridionale, l'ammiraglio Nelson pretese impiccagioni
di massa, mentre le "'ngiuriate", le pasquinate all'ombra
del Vesuvio alludevano a "Monzù Attone", al ministro
Acton, che non fu soltanto consigliere della consorte di Re Bomba.
Dice una strofetta dedicata a Ferdinando I: "Scètate,
Maistà, che è fatto iuorno / nun penzà cchiù
'a caccia e a li figliole / vide che là Monzù cu lla
Maestà! / Penza, ire ciuccio e mo' sì ciervo / Mena
'a mazza, si no sì re de cuorno".
Quali furono i rapporti tra Francia rivoluzionaria e Regno borbonico
di Napoli? E quali influenze ebbero le vicende aperte dal 1789 sulla
congiuntura politica e sociale, istituzionale e culturale, in atto
tra noi sul finire del XVIII secolo e fino agli inizi del secolo successivo?
Gli anni '80 del Settecento segnano per Napoli una ripresa alquanto
netta del dialogo tra i "riformatori" e la Corona, assorbito
il trauma dell'allontanamento di Carlo e della liquidazione del Tanucci.
Si riaccendono anzi significative battaglie sul terreno dell'antifiscalismo
e contro il regime feudale alle quali la stessa capitale e la classe
politica cittadina non restano estranee. Su tale contesto gli eventi
francesi hanno un effetto dirompente di contagio e di provocazione,
nel solco della diffusione del giacobinismo europeo sulle basi riformistiche
e illuministiche.
Il punto critico è alla metà circa degli anni '90, quando
la Rivoluzione ha ormai voltato o sta voltando pagina con la resa
dei conti interna (estate 1794) e lo scatenamento del fronte esterno.
Cospirazioni e moti antiassolutistici divampano in tutta Europa, in
Italia e anche a Napoli: le morti "giacobine" (De Deo, Vitaliani,
Galiani) rappresentano appunto il tributo pagato alla reazione borbonica
dalla "congiura" giacobina e massonica. La dinastia ha sfogato
l'enorme paura patita e castiga con durezza esemplare gli intellettuali
colpevoli di avere attentato all'ordine costituito e al legittimismo
monarchico.
In un secondo tempo, mentre in Francia i Termidoriani, stretti fra
giacobini e monarchici, varano la nuova Costituzione per un regime
repubblicano conservatore, offrendo varie opportunità all'astro
nascente di Napoleone, si realizza una serie diversa di ripercussioni
e di coinvolgimenti.
Il Regno napoletano, già sottomessosi a Napoleone e uscito
dalla coalizione antifrancese, vi rientra dopo la pace di Campoformio
per tentare, con gli alleati europei, la carta della soluzione di
forza contro l'imperialismo post-rivoluzionario. L'esito è
però disastroso per i Borbone, costretti dalla sconfitta della
coalizione ad abbandonare il trono e il paese, rifugiandosi a Palermo
e lasciando Napoli in balia di se stessa di fronte all'invasione francese.
Nasce la Repubblica Partenopea, proclamata con ardore al principio
del 1799, che segna oltre tutto il distacco definitivo della borghesia
avanzata e dell'intellettualità radicale dalla dinastia e dalla
Corona. Nel giudizio della storiografia napoletana più recente
"si inizia così l'effimera vita e il tragico esperimento
di una repubblica democratico-illuminista ristretta in effetti alla
sola capitale, e accompagnata da scoppi di anarchia nelle province
e da sanguinose contese, sociali più che politiche, nei singoli
centri.
Rivoluzione passiva, come ebbe a definirla Vincenzo Cuoco, opposta
a quella francese, in quanto non creata dal Paese, ma imposta dall'esterno.
Il nuovo regime aveva infatti come unico puntello l'esercito straniero
ed era legato alla volontà dei generali francesi, onde intralci
e rinvii a quel programma radicale di riforme economiche e sociali
che solo avrebbe potuto consentire [ ... ] di accostare al movimento
le forze popolari del Mezzogiorno".
Un inizio, è bene ricordare tuttavia, preceduto da una fase
molto tesa e violenta sostanziata dalla strenua resistenza del popolo
napoletano, prendendo "di contropiede" la capitale nel suo
insieme che avrebbe ancora una volta presunto di ergersi a soggetto
politico e a controparte di fronte al "cambio" di signoria.
L'armata francese è dunque costretta ad aprirsi il passo lottando
casa per casa, strada per strada, e tutto questo ha finito col pesare
non poco su tutti gli sviluppi successivi e sull'esito finale stesso
degli avvenimenti. In particolare, la classe dirigente repubblicana
locale è stata spinta all'acuta percezione di sé come
di una minoranza, assediata da una plebe energica e corriva. In ogni
caso il governo provvisorio della Repubblica, sostenuta dalla forza
militare francese, avvia con Pagano e Cirillo concitate riforme dell'assetto
istituzionale, in città e nel Paese. Le sei municipalità
indipendenti in cui è articolato il nuovo ordinamento della
capitale assumono le intitolazioni beneauguranti di Sannazaro, Montelibero,
Colle Giannone, Umanità, Sebeto e Masaniello. Si giunge persino
al punto della contrastata, problematica soppressione della feudalità,
tra non poche polemiche.
Ma in pochi mesi la situazione cambia profondamente, con la partenza
infine dei francesi. A ben vedere, da gennaio a maggio si erano avuti
generosi, e a volte ingenui tentativi di incidere veramente sui problemi,
antichi e più recenti, della città; di trasformare strutture
e istituzioni arcaiche, e di smantellarne i connessi poteri, corporativi
e refrattari a qualsiasi novità. Sul terreno delicato del rifornimento
annonario, ad esempio, ci si era scontrati con manovre di incetta
e accaparramento dei viveri, a fini speculativi, le quali avevano
frustrato ogni sforzo riformatore. Testimoni oculati come il De Nicola,
il quale annotava nel suo Diario quel che accadeva ogni giorno, non
mancavano di rilevare "il progressivo deterioramento della situazione
annonaria, il deteriorarsi di quella economica, e lo spettro della
disoccupazione che gravava su sempre più vaste categorie".
A peggiorare le cose, infine, l'avvicendamento tra la "colomba"
Championnet e il "falco" McDonald, tanto incapace quest'ultimo
di costruire un rapporto di fiducia, se non di simpatia, con i ceti
popolari, quanto volenteroso e interessato alla dimensione umana e
psicologica del contatto con l'ambiente locale, napoletano, si era
mostrato il primo.
Orchestrata dall'esterno dai fedeli filoborbonici e dai preoccupatissimi
partner europei del Regno, la reazione sanfedista si abbatte sulla
Repubblica minata all'interno, misconosciuta e fraintesa, odiata dagli
strati popolari e dalle masse contadine strumentalizzate dal cardinal
Ruffo. Di questi ha scritto il Colletta, definendolo "nato di
nobile ma tristo seme, scaltro per natura, ignorante di scienze o
lettere, scostumato in gioventù, lascivo in vecchiezza, povero
di casa, dissipatore, prese nei suoi verdi anni il ricco e facile
cammino delle prelature. Piacque al pontefice Pio VI, dal quale ebbe
impiego supremo nella Camera pontificia; ma per troppi e subiti guadagni
perduto ufficio e favore, tornò dovizioso in patria, lasciando
in Roma potenti amici, acquistati, come in città corretta,
co' doni e i blandimenti della fortuna. Dimandò al Re di Napoli
ed ottenne la intendenza della Casa reale di Caserta; indi, tornato
nelle grazie di Pio, fu cardinale, andò in Roma e là
restò fino al 1798, quando, per le rivoluzioni di Roma, prese
in Napoli ricovero e poco appresso in Palermo, seguendo il Re".
E quanto ai metodi e ai principi del suo agire una volta spedito in
Calabria, commenta ancora: "Fu accolto riverentemente dal clero
e da' notabili, e con pazza gioia dalla plebe. Divolgato l'arrivo,
e'l disegno, accorsero da' vicini paesi torme numerose di popolani,
guidate da gentiluomini e da preti e frati, che quando viddero andar
capo un porporato, non sdegnarono quella guerra disordinata e tumultuosa
[ ... ] e insieme con costoro numero grande di soldati fuggitivi e
congedati, e di malfattori che poco innanzi correvano da ladri le
campagne, e di malvagi usciti ne' tumulti dalle carceri, (i quali)
si offrirono guerrieri per il re". Al che il cardinale "convocò"
quanti poteva "vescovi, curati, altri chierici di grado, e antichi
magistrati del re, e militari e impiegati e cittadini potenti per
nome e ricchezza; ed esponendo i ricevuti carichi, la causa giusta
del trono, santa della religione, bandì che i cittadini fedeli
al re, devoti a Dio, dovessero unirsi a lui, portando al cappello
per insegna e riconoscimento la croce bianca e la coccarda rossa dei
Borboni; avrebbero, oltre i premi celesti, la esenzione delle tagli
fiscali per sei anni e i guadagni della guerra sopra i beni de' ribelli
da quel giorno medesimo incamerati alla finanza regia, e su le taglie
che sarebbero poste alle città o terre contrarie".
Il ritorno dei sovrani a Napoli, propiziato dal Nelson, si compie
sotto il segno della vendetta e del massacro: cadono i principali
ispiratori, animatori e responsabili della Repubblica e si decapita
così letteralmente un'intera classe dirigente che ha lasciato
intravedere, per una breve esaltante stagione, un destino diverso
ma possibile, un anticipo arduo di "Risorgimento". Facciamo
qualche nome fra i tanti.
Francesco Caracciolo, genio della marina napoletana e uomo di straordinario
carattere, impiccato all'antenna della fregata "Minerva"
e abbandonato insepolto in mare; due giorni dopo, però, nota
commosso il Cuoco, "il cadavere apparve galleggiante sotto il
legno di Nelson, sotto gli occhi del re, quasi per rinfacciargli il
suo delitto".
Domenico Cirillo, grande medico eppure "la medicina formava la
minor parte delle sue cognizioni e le sue cognizioni formavano la
minor parte del suo merito", amante del bene pubblico, rifiutò
la grazia "che gli sarebbe costata una viltà".
Francesco Conforti, riformatore acuto e intelligente, "era il
Giannone, il Sarpi della nostra età, ma aveva fatto più
di essi, istruendo dalla cattedra e formando, per così dire,
una gioventù nuova".
Francesco Mario Pagano, insigne giureconsulto di origine lucana, tra
i più tenaci assertori della Repubblica per la quale ebbe l'incarico
di compilare la Costituzione: giustiziato il 29 ottobre 1799.
Eleonora Pimentel Fonseca, di famiglia portoghese ma nata a Roma nel
1752, già apprezzata poetessa e non contraria ai Borbone, diventa
ardente repubblicana e ispiratrice dell'esperienza del Monitore napoletano,
il giornale che le costò la vita: giustiziata il 20 agosto,
il suo corpo "penzolante dal patibolo restò esposto per
un intero giorno alla vista e agli insulti del popolaccio" (Croce).
Vincenzo Russo, uno degli oratori più efficaci del tempo, trascinatore
impareggiabile e uomo di grande coraggio, come mostrò in carcere
e davanti al supplizio.
Il drammatico esito fu spartiacque decisivo nella storia moderna del
Sud d'Italia e propone ancora oggi riflessioni e analisi non sciolte
e comunque non eludibili. Il Regno che confinava a nord con l'acqua
santa e altrove con l'acqua salata, come orgogliosamente diceva Ferdinando
II, dopo il '99 alimentò il realismo spicciolo, il disimpegno,
anche il qualunquismo. La sua borghesia perdette la coscienza storica
e il senso della cosa pubblica. E forse non l'ha ancora del tutto
ritrovata, a due secoli di distanza, mutate e rimutate le istituzioni,
le leggi, le storie.
LA LEGGENDA
NERA DELL'ESERCITO
Nella febbre di celebrazioni garibaldine di alcuni anni fa, la battaglia
del Volturno non ebbe il posto che avrebbe meritato. Forse perché
si tratta di un problema tuttora non ben chiaro nei suoi effettivi
termini storici? In quella battaglia si decise, come si sa, nei primi
due o tre giorni di ottobre del 1860, il destino del Regno delle Due
Sicilie e della dinastia borbonica che vi regnava.
Garibaldi vinse; le prospettive di una immediata riconquista di Napoli,
abbandonata un mese prima, svanirono; l'unificazione italiana divenne
un fatto praticamente compiuto; i borbonici si dovettero ritirare
a Gaeta, tentando un'ultima resistenza, animata soltanto dalla speranza
di un intervento delle grandi potenze, che consentisse alla dinastia
napoletana di non scendere, o di non scendere del tutto, dal suo trono.
La sconfitta sul Volturno andò, così, nelle sue conseguenze,
ben oltre ciò che dal punto di vista militare aveva significato
sul campo.
Una tradizione consolidata a livello popolare, ma radicata anche negli
studi storici, ha fatto dell'esercito di Francischiello - ossia dell'esercito
napoletano che sotto l'ultimo sovrano borbonico combatté, appunto,
sul fiume - il simbolo di una inefficienza e di una inconsistenza
tutt'altro che soltanto militari. In quell'esercito, che si sarebbe
dissolto come nebbia al sole dinanzi all'impeto garibaldino, fu subito
simboleggiato il crollo di una dinastia e di un regime, che pure avevano
profonde radici a Napoli e che, dopo tutto, sostenevano, nel 1860,
la causa della più che sette volte secolare unità e
indipendenza del Mezzogiorno.
Le cose non stanno precisamente così. Nel crollo - che tale
di fatto fu - della finastia e del regime a poco più di un
anno dall'ascesa di Francesco II al trono, che era stato del suo avo
Carlo di Borbone come di Carlo V e di Alfonso d'Aragona e dei sovrani
angioini e normanno-svevi, se qualcosa resse nelle istituzioni e nelle
strutture del Regno, questo qualcosa fu proprio l'esercito. Nessuno
avrebbe potuto prevedere che esso resistesse così poco in Sicilia.
Meno che mai si sarebbe potuto prevedere che quella di Garibaldi da
Reggio a Napoli potesse essere una passeggiata militare. Ma l'esercito
borbonico, a dispetto di comandi poco sagaci e di una direzione politico-militare
assai incerta, combatté bene in Sicilia, quando combatté.
A Milazzo, nell'isola, come a Civitella del Tronto, sul continente,
dimostrò onore e valore superiori alle tante avverse circostanze.
Ma fu soprattutto al Volturno e nell'estrema difesa di Gaeta, quando
le cose erano (e non potevano non apparire) ormai più che perdute,
che l'esercito borbonico diede non solo la dimostrazione massima della
sua fedeltà e della sua consistenza, ma anche provò
di essere un organismo degno di rispetto anche dal punto di vista
tecnico-militare.
Da queste constatazioni, che dovrebbero essere più che elementari,
derivano almeno due considerazioni di sicuro interesse. La prima porta
a ribadire la natura squisitamente politica e morale della crisi che
portò alla caduta della dinastia borbonica napoletana e alla
fine dell'antico Regno meridionale. E' solo una crisi di tale natura
a poter spiegare il rapidissimo crollo borbonico in Sicilia.
Per l'isola un avvitamento di questo genere era, tuttavia, in qualche
modo prevedibile. La Sicilia si era già ribellata ai Borbone
due volte, nel 1820 e nel 1848, rivendicando lo scioglimento del suo
status dall'unità del Regno delle Due Sicilie, surrettiziamente
istituita all'atto della restaurazione borbonica nel 1815. Quest'unità,
infatti, era stata istituita anche per superare e chiudere la fase
costituzionale aperta nella stessa Sicilia e imposta ai Borbone nel
1812, anche sotto la pressione degli inglesi. Durante il decennio
napoleonico, dal 1806 al 1815, l'isola era rimasta a Ferdinando IV,
ma anche allora con renitenze e opposizioni non piccole. La concessione
della Costituzione nel '12 valse a vincerle, ma essa non rispondeva
né all'aspirazione della dinastia né al nuovo clima
dell'Europa post-napoleonica. Così, quando ne ebbe la possibilità,
Ferdinando, fino ad allora IV di Napoli e III di Sicilia, si trasformò
in I delle Due Sicilie e i due regni meridionali divennero uno. Non
vi fu, dopo di allora, nessun periodo veramente tranquillo del regime
borbonico in Sicilia e l'avversione della dinastia divenne anche avversione
profonda all'unione con Napoli. L'insurrezione del 1860 fu addirittura
un'insurrezione annunciata.
Per il Napoletano, invece, il crollo borbonico non era altrettanto
prevedibile. Che avvenisse ugualmente e fosse addirittura più
completo e rapido che in Sicilia, prova fino a qual punto anche sul
continente il governo borbonico fosse minato da motivi di crisi insuperabili,
conclusivi.
La seconda considerazione porta ad una valutazione più generosa
e più alta dell'impresa di Garibaldi. Sull'"Eroe dei due
mondi" la marcia da Calatafimi al Volturno viene proiettata,
nell'immagine più corrente, anche a livello storiografico,
come un 'avventura straordinaria, ma anche assai fortunata. Si tende
a ritenere che le difficoltà militari non fossero superiori,
anzi fossero decisamente inferiori a quelle politiche. Non solo si
è portati a ritenerlo più un capobanda, un condottiero
di squadre di volontari, un eroe popolare, un guerrigliero audace,
un combattente generoso e suggestivo che un vero e proprio uomo d'arme,
un vero e proprio generale. L'impresa dei Mille - si ha sempre l'aria
di insinuare - non sarebbe riuscita allo stesso modo, se egli avesse
avuto di fronte altri comandanti e altri soldati, anziché -appunto
- l'"esercito di Francischiello". Ma proprio il giudizio
da rivedere sull'esercito borbonico, al quale abbiamo accennato, dimostra
che molto del giudizio corrente su Garibaldi condottiero va riveduto
e che delle sue qualità va fatto, anche sotto questo aspetto,
un conto migliore. Non per scambiarlo con un Napoleone o con un von
Moltke, ma per rendergli ciò che gli è dovuto. L'esercito
con cui ebbe a che fare fino al Volturno merita maggiore rispetto.
L'azione di comando di Garibaldi nella battaglia sul fiume di Capua
diede a vedere molta accortezza tattica e un saggio uso delle riserve.
Più rispetto per i soldati borbonici vuol dire più rispetto
anche per il generale Garibaldi.
Naturalmente, il fatto che l'aspetto militare della crisi finale del
Regno delle Due Sicilie vada guardato con occhi diversi da quelli
che lo sintetizzano nella "leggenda nera", nel mito negativo
dell' "esercito di Francischiello" non fa che rendere ancora
più evidenti le implicazioni di questa diversa ottica. Come
ho già detto, quel che allora soprattutto crollò fu
la base politica stessa della monarchia borbonica. Ma la base politica
- ecco quel che si deve aggiungere - non significa soltanto struttura
amministrativa, comportamento dei "notabili" e della classe
dirigente, rapporti fra la Corona e i gruppi e le persone politicamente
più influenti, e di questi gruppi e persone fra di loro. Base
politica è soprattutto il senso etico-politico, la sostanza
intima della vita sociale e morale di un paese. La realtà borbonica
si rivelò, sotto questo aspetto, in quel fatale 1860, terribilmente
vuota nel suo interno, gravemente amputata nella sua dimensione e
consistenza di elemento razionale, quale era stata sentita e quale
di fatto era stata così a lungo. In ogni caso, chi si batté
al Volturno e a Gaeta fu meritevole dell'onore delle armi.
IL TEMPO DELLA
RAGIONE
L'esperienza borbonica a Napoli e nel Regno creò ed espresse
nella letteratura, nelle arti, negli studi storici, filosofici e giuridici,
nell'architettura, nella politica sociale, una civiltà della
ragione che di fatto anticipò di oltre mezzo secolo lo stesso
illuminismo francese.
Con Vico, Cuoco, Tanucci, Giannone, Galiani, Genovesi, Filangieri,
la civitas borbonica rispetto all'illuminismo transalpino si differenziò
profondamente per rigore scientifico e soprattutto per un maggiore
accostamento alla cosiddetta "rivoluzione delle idee", che
nel Regno delle Due Sicilie sposò sempre, a differenza di quello
che accadeva a Parigi, la lezione dell'umanesimo e del diritto.
L'intellighentzia napoletana ebbe nell'illuminata grande tradizione
di regno della dinastia dei Borbone l'espressione della continuazione
del pensiero dell'illuminismo greco fiorito nell'Italia meridionale.
Ma di questo lato positivo della civitas borbonica la storiografia,
più che la storia, disattenta e faziosa, ha sempre taciuto,
marcando invece gli innegabili errori dell'operato di una dinastia
e di uno Stato che fu, tutto sommato, tra i più belli, progrediti
e colti d'Europa.
Sui testi di storia, infatti, il periodo borbonico ancora oggi continua
ad essere censurato, mentre rimane lettera morta il ricordo di opere
importanti e anticipatrici di quell'epoca nel campo della politica
sanitaria (costruzione degli ospedali della Pace, di San Giacomo e
dei Poveri), di previdenza e di assistenza sociale (le cosiddette
case di maritaggio per la dote a fanciulle indigenti prossime a contrarre
matrimonio, l'ospizio dei Poveri voluto personalmente da Carlo III
per accogliere, assistere e curare i ceti meno abbienti del Regno,
le arciconfraternite, le scuole, gli asili nido e gli orfanotrofi).
Il fiore all'occhiello era la colonia industriale sulla collina di
San Leucio, a poca distanza da Caserta, voluta da Ferdinando IV, che
rappresentò il primo esperimento di una comunità-opificio
regolata da una sorta di statuto dei lavoratori con una serie di benefici
e garanzie occupazionali per la forza-lavoro impegnata nella lavorazione
della seta su telai. Una struttura modello, quella di San Leucio,
che insieme alla realizzazione della prima ferrovia Napoli-Portici
costituisce il flash-back più emblematico della civiltà
borbonica e della sua scelta di campo a favore della "rivoluzione
delle idee" e della "civiltà della Ragione".
Fra l'altro, pochi sanno che il 27 settembre 1818 salpava da Napoli
la prima nave a vapore del Mediterraneo: era la "Ferdinando I",
ed era diretta a Fiumicino-Roma, Livorno, Genova e Marsiglia. Inalberava
la bandiera bianca con al centro il giglio d'oro, stemma della Casa
Borbone. Era lunga circa 39 metri, larga più di sei, muoveva
con due ruote ai fianchi, aveva una forza di 50 cavalli per una velocità
di circa sei miglia l'ora, consumava poco più di diciotto quintali
di carbone nelle ventiquattr'ore, aveva una stazza lorda di 235 tonnellate,
ed era persino armata con due cannoni. All'epoca, una nave a vela
di questo tipo richiedeva un equipaggio di 60 uomini. La "Ferdinando
I" ne aveva solo venti, in buona parte addetti alle operazioni
di carico-scarico delle merci. A guidarla, ne bastavano due o tre.
Salutarono e descrissero il suo viaggio inaugurale la "Gazzetta
di Firenze", la "Gazzetta di Genova", e il "Moniteur
universel" di Marsiglia. Il Mediterraneo entrava nel futuro ancora
una volta partendo da Napoli.
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