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§
VENTESIMO SECOLO
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IL RITORNO DELLA GRANDE GERMANIA |
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Hans
Sibenthal, Paul Voralberg
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Nel
bene e nel male, solo quel che è "più forte"
si afferma e vince: non c'è vittoria di debolezza che non sia
causata da una superiorità, in forza non calcolabile, della debolezza.
Da qualche tempo vediamo delle debolezze fare arretrare la forza, incalzarla,
scoprendone l'inferiorità. Dove risieda effettivamente la forza
vera è oscuro. Due Germanie, due forze, una forza.
Sta nascendo una nuova forza continentale. Ci sarà, sul continente europeo, "quella" forza, e sarà, necessariamente, una forza "autonoma" e dotata di un potere di attrazione indescrivibile. Non ci saranno sicuramente (salvo pentimenti di Dio) né occupazioni di territori né guerre tipo Quattordici o Trentanove, né mai più avventure demenziali fino alla Volga e al Caucaso. La spada di Sigfrido resterà rinfoderata nei magazzini teatrali. Tuttavia la forza non è tale se non si espande, se non contagia e non domina. Il crollo del simulacro d'impero danubiano con capitale illusoria Mosca condurrà i deboli che hanno ritrovato la sovranità piena entro le loro frontiere del Quarantacinque, a gravitare attorno all'effettiva (latente, ancora, o dissimulata) forza tedesca, limature di ferro a contatto con l'irresistibile magnete. Questo è già manifesto. Ma anche l'Europa del Nord, e anche quella del Sud, avranno la stessa sensazione di risucchio verso quel centro continentale che non è soltanto una montagna di marchi, ma qualcosa di molto più forte, di non misurabile con gli strumenti ciechi del calcolo. Soltanto la Francia, potendo mettere in campo una non minore potenza culturale, resterà al riparo, ma non del tutto, perché gli effetti di questi cataclismi di civiltà sono sempre impensati. Certo. Questa grande (e persino tremenda) forza è destinata ad espandersi, a dominare, ad improntare eventi di profondità che annulleranno ogni utopia di ugualitarismo paneuropeo (come se vita e destino umano fossero quei due cretini che il cretinismo degli ottimisti seguita a credere siano; come se tutto fosse facile dal momento che i cretini lo vogliono! Così scrive Ceronetti), attingendo l'energia necessaria a delle riserve "culturali" fatte di sconvolte ma non perdute radici di germanesimo cristiano, di potenza editoriale e linguistica, di apparecchi che funzionano, di pensiero critico, teologico e filosofico in grado di riempire delle ansie e dei vuoti dove più abbondano. Il fallimento, così moderno, dell'imperialismo sovietico è un fallimento intellettuale e culturale: non ha nutrito i popoli che ha assoggettato di nessun tipo di pane, ma il pane in cui ha fallito di più è quello che il vero Paternoster chiama "soprasostanziale". La fame di questo pane è la grande fame dei popoli europei dell'Est e dell'Ovest. Qualcuno deve placarla, è chiamato a questo. Ci sono stati tre momenti della Germania, tra il 1870 e il 1945: il quarto è uno sconosciuto che dal momento della riunificazione la storia del mondo si è trovato in casa, indefinibile e silenzioso. Nel secolo che muore, il momento tedesco del Quattordici fu nel segno di una malattia generale che Musil ha definito molto bene come "fuga dalla pace",: tutta la luce latina fu sperperata per abbattere quella nera mole che la schiacciava. Il momento del Trentanove fu nel segno del crimine puro senza attenuanti: farlo rientrare, una fatica incredibile. L'incalzante quarto e ultimo momento della Germania trova tutti, tedeschi per primi, poco desiderosi di vederlo arrivare, eppure consapevoli che stia venendo. Potrebbe essere nel segno di una verità a lungo attesa e, in questo, combaciare miracolosamente con la ritrovata Russia. Ma per ora, tra tanti discorsi che lo riguardano, quel personaggio da poco entrato non si è ancora deciso a parlare molto. Il fatto è che nella pancia della realtà non fenomenica in cui inciampiamo non è facile avvertire i movimenti fetali del pensiero. Ed è una dura prova percepirli. Visioni, infatti, come in uno specchio ora lucido ora opaco ne passano nello scrittore-pensatore svevo Ernst Jünger, che da attore e da contemplativo ha vissuto la Grande Guerra e la guerra criminale e all'età di un secolo (è nato nel 1895) sta assistendo al Quarto Momento della Germania, banalmente chiamato "riunificazione". Nel Quattordici il Reich era una patria, contro altre patrie. Nel Trentanove era una macchina infernale, un mattatoio senza vere frontiere. Nel Novanta, mentre infuriavano dappertutto guerre civili per compensare la privazione di patria, né l'una né l'altra delle due Germanie, né quel che ne è risultato in seguito, si è potuta dire una patria in senso nazionale. Le piccole patrie in cerca di identità e insieme di riparo tra il ferro di cavallo calamitante germanico l'hanno sentita - la continueranno a sentire - come forza spirituale agglomerante di tipo "medioevale". Il profilo dell'aquila della visione dantesca, che riemerge come un misterioso Timavo nell'incompresa dedica a Guglielmo II dei Canti orfici di Campana, può essere in questo suk visionario rievocato. Un bel momento di passione collettiva sono stati gli abbracci lungo il Muro crollato, ma di un altro abbraccio, che introduce nel quadro il fondo boscico degli inferni e dei giudizi finali, si deve parlare. Due Germanie, o dieci, o una, faranno sempre una sola grande foresta, punteggiata di ghirlande di lumini di geografia emotiva. Ma viva, o moribonda? Dalla Loira ai monti Tatra la foresta germanica è la membratura vitale dell'Europa continentale, la via delle acque, una congiunzione spirituale di evi, di linguaggi e di destini. "Pro aris et focis", là si è combattuto e tante volte l'Uomo del calvario è stato ricrocifisso nell'uomo, e là il popolo degli elfi e delle fate è uscito dall'invisibile al richiamo del corno dei fratelli Grimm. In tante vite che forse viviamo, almeno una volta siamo stati ospiti o abitatori di foreste germaniche: ma lo saremo ancora? E con quale spirito, eventualmente, vi torneremo? Umanizzazione tecnico-industriale e legge del profitto senza legge sono due grandi assassini sempre più freneticamente attivi: dalle concentrazioni industriali e automobilistiche, dai mari inondati di nafta salgono le condensazioni che, in ricadute acide, investono gli alberi, impregnano il terreno e le radici, toccano con dita stregate le falde, e quel che rimane di foresta germanica tra le radure desertiche definite con tempestiva idiozia "aree urbane" (e meglio, perché è più vago, "urbanizzate") è in condizione preagonica o di avanzata se non terminale agonia. Se le foreste dell'Est e dell'Ovest si mettessero in marcia per abbracciarsi sulla linea dell'Elba sarebbero due immense processioni di flagellanti medievali che espongono piaghe turpi, deformazioni e bubboni osceni, ma col pudore di un grande, di un disperato silenzio. Immaginiamo l'abbraccio di queste caricature biologiche a cui abbiamo impresso le nostre stigmate e restiamo anche noi silenziosi. Pensando alla foresta che si congeda dal continente, eviteremo di fare chiacchericci di sola politica o economia o strategia. Se dimentichiamo la peste, usciamo dal pensiero. Dunque: è da un giornale tedesco che abbiamo tratto e fatto nostra la parola adeguata: necroeconomia. La campana a morto che suona per tutta la grande foresta centroeuropea suona per tutti. Eppure là, al centro dell'Europa, un Grande Reich Verde ci starebbe proprio bene. Non proprio in mano ai Grünen, che sono eccessivamente disarmisti e pacifisti, mentre uno Stato europeo verde dev'essere un gendarme bene armato: ai fumi e agli scarichi si fa la guerra, ai boschi si monta la guardia, ai disboscatori si spara a vista. Ultima frontiera mobile, ultima New Frontier. Divisi i proletari, dovrebbero unirsi gli alberi offesi di tutto il mondo. Per ricordare che in mezzo a loro nacquero la civiltà, l'arte, le lettere. La cultura. In un certo senso, la Germania una commuove. Le ragioni sono sostanzialmente due: una generazionale, l'altra politica. Nella vita della generazione matura (diciamo dell'età media di cinquant'anni) è cambiato tutto, in virtù degli effetti che la tecnologia ha avuto sul costume, sul sociale, sull'etica, ma non è successo niente. Non c'è stato alcun avvenimento pubblico e collettivo di autentico rilievo. Per mezzo secolo l'Europa è rimasta immobilizzata nei blocchi. E i pochi, drammatici sussulti, come la rivolta ungherese o l'invasione della Cecoslovacchia, sono stati fatti dolorosi che ci vedevano del tutto impotenti. La riunificazione tedesca è stata il primo avvenimento di portata realmente storica, epocale, cui ci è stato dato di assistere. Poi c'è un'altra cosa. L'esistenza di questa generazione era trascorsa all'ombra degli esiti della seconda guerra mondiale, cioè di un avvenimento cui non aveva partecipato, ma che l'aveva pesantemente condizionata. La sua vita pubblica era stata continuamente solcata da leit-motiv come l'antifascismo, il fascismo, il nazismo, il filoamericanismo, il comunismo, l'anticomunismo, che sono stati importanti, fondamentali per le generazioni che l'avevano preceduta, ma che erano molto meno per essa. La riunificazione tedesca ha sancito invece la fine della seconda guerra mondiale, cioè di un periodo storico che era stato generato non da essa, ma da chi l'aveva messa al mondo. Finalmente, dunque, si è liberata del padre, dei padri. Poi, la ragione più propriamente politica. La riunificazione tedesca e il potere del marco significano il ritorno dell'Europa sulla scena del mondo. Perché la sconfitta tedesca fu la sconfitta del nazismo, ma fu anche la sconfitta dell'Europa, relegata a un ruolo subalterno rispetto ai due veri e soli vincitori: gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. La rinascita della Germania, cioè di una parte così importante del Vecchio Continente, è anche la rinascita dell'Europa finalmente affrancata da Yalta e dallo stritolante abbraccio del bi-imperialismo russo-americano. Ci sono, in giro, preoccupazioni e timori, comprensibili forse di più per quelle generazioni che vissero l'epoca piena del nazismo. E la potenza del marco rientra in queste preoccupazioni, chissà perché, visto che non è frutto di aggressioni militari, ma di un'oculatissima politica del lavoro, del risparmio, della produzione industriale e del commercio internazionale. Fra l'altro, va ricordato che la Germania è l'unica grande potenza a non possedere la bomba atomica, mentre ce l'hanno, per esempio, Israele, il Sudafrica e persino la Libia, oltre al Brasile e all'India, che potenze proprie non sono. E in ogni caso (paura dell'antisemitismo compresa) è tempo di finirla di ridurre strumentalmente l'intera storia tedesca ai tredici anni della follia hitleriana. La Germania è anche altro. Tedesco è l'intero pensiero filosofico europeo degli ultimi due secoli: da Kant a Hegel; da Fichte a Schelling, da Feuerbach a Marx, da Schopenauer a Nietzsche, da Husserl a Weber, da Heidegger a Horkheimer, da Adorno a Marcuse. Anche una grande cultura come quella francese è stata, in questi due secoli, in qualche misura subalterna a quella tedesca, e sua tributaria. Tedesco è parte determinante del pensiero scientifico europeo del Novecento, a cominciare da Einstein. Tedesca, anche se non solo tedesca, è la grande musica. Basterebbe, da sola, la Nona di Beethoven. Ma ci sono stati anche Bach, Haendel, Haydn, Schubert, Mendelssohn, Schuman, Wagner, Strauss, Brahms, Mahler, per finire con Hartman e Stockausen, sempre che si voglia considerare estraneo alla cultura tedesca Mozart. Più realistica, dunque, è l'altra preoccupazione, e cioè che la Germania torni ad avere una posizione di assoluta egemonia in Europa. E' senza dubbio fatale che essa riprenda il ruolo che, per posizione geografica, cultura, storia, consistenza, le compete. La leadership tedesca è condizione necessaria per un'Europa veramente libera e unita, molto diversa da quella della vecchia (e contraddittoria) Cee. Bisognerà vedere piuttosto come la nuova Germania interpreterà questa sua leadership. Se essa si appiattirà sul modello del capitalismo sfrenato, senza leggi né regole, dunque sostanzialmente "violento"; se, cioè, coglierà riunificazione e leadership solo come un'occasione, dopo i necessari assestamenti interni, per rafforzare ulteriormente la propria egemonia economica (e politica) sull'Europa, e non solo sull'Europa. Allora, non cambierà molto. Vorrà dire semplicemente che al dollaro avremo sostituito il marco. Oppure se vorrà allargare con intelligenza la visione del sogno di Naumann, che per primo parlò di "Mitteleuropa", intendendola da Amburgo fino a Baghdad, passando per la Bulgaria e la Turchia; e rivolgendo lo sguardo anche ad Ovest, fino all'Iberia, ma in nome di un'Europa totale e assolutamente libera, federata semmai, con lingue, culture, identità insomma, intangibili. Un'Europa delle Europe può essere una frontiera. Un'Europa tedesca o tedeschizzata riporterebbe indietro gli orologi della storia.
"Storie di
ordinaria follia", le definiscono dalle parti di Wall Street
guardando le linee impazzite dei grafici che, giorno dopo giorno,
mostrano gli strappi cardiaci, le risalite, le ricadute delle monete.
E' come dire: nessuno ha più in pugno la situazione. Neppure
l'esclusivo club dei banchieri centrali, che fino a qualche tempo
fa aveva il compito e l'orgoglio di tenere sotto controllo il corso
dei cambi, di opporsi e respingere gli assalti degli speculatori con
l'artiglieria di enormi riserve in valuta, e in una parola di governare
il destino di dollaro e marco, di lira e di yen, di franco e di sterlina.
Un commentatore riferisce che ha avuto molto successo, anche perché
ambientata in un asilo psichiatrico, la scenetta apparsa tempo fa
in una trasmissione televisiva americana che tentava di spiegare ai
cittadini statunitensi che cosa realmente stesse succedendo ai loro
greenback, ai verdoni, cioè ai dollari, nel confronto con la
moneta giapponese e soprattutto con il Deutschemark. "Si riproponeva,
come in un gioco di bambini un po' svitati, lo scenario dell'ultimo
conflitto mondiale. Alan Greenspan, chairman della Federal Reserve,
un po' Paperone e un po' capitano dei marines, subiva l'assalto dei
due nemici coalizzati nell'asse anti-dollaro e armati fino ai denti:
Hans Tietmayer, il governatore-Führer della Bundesbank, con tanto
di calzoncini di cuoio e Mercedes, e il suo alleato dagli occhi a
mandorla, capo della Bank of Japan, pronto all'occorrenza anche all'estremo
sacrificio dei kamikaze. Sfondo d'attualità: la conquista planetaria
dei mercati, la supremazia di una razza superiore di monete. Naturalmente,
alla fine, trionfo comunque assicurato per John Wayne, ma questo era
lasciato alla puntata successiva". Una cosa è certa: crisi,
paura e panico hanno costretto i governatori a venire allo scoperto
e a finire sui giornali e sugli schermi televisivi. Ed è noto
che essi tutto amano, tranne che la notorietà. Fino a poco
tempo fa le loro stesse persone erano circonfuse di una sorta di sacralità.
Ora i sacerdoti delle monete compaiono e sembrano impotenti, o quanto
meno tesissimi. George Soros, il finanziere internazionale che è
probabilmente uno dei protagonisti dei terremoti che hanno scosso
i mercati mondiali, ha scritto un libro in cui li colloca, come tenebrosi
stregoni, nei laboratori della "Alchimia della finanza",
al riparo da occhi troppo curiosi. Soros ripercorre tutti gli sconvolgimenti
di questi ultimi anni e ne imputa le cause proprio alla sopravvivenza
anacronistica di tante banche centrali, ciascuna guidata da un solo
personaggio, in non pochi casi autoritario. Una specie di casta, quella
dei governatori, che non sarebbe al passo con i tempi. Sarà
proprio così? Sta di fatto che Soros, noto per le sue operazioni
sui mercati come per quelle a carattere filantropico, giunge a proporre
una Banca centrale internazionale, governata in maniera collegiale,
l'unica che considera "moderna".
In questi tempi
di turbolenza dei mercati valutari, con la lira e altre valute che
pagano prezzi pesanti, si fanno insistenti tre domande circa il quadro
monetario internazionale: Il dollaro
debole. La volatilità
nei cambi. Interventi
delle Banche centrali.
Quella del marco
è la storia di un successo che non ha precedenti. Oggi è
la moneta più forte e più stabile del mondo. Eppure,
il Deutsche Mark nasce nel giugno 1948 come debole mezzo di scambio
di due territori tedeschi occupati da americani e inglesi. Era la
moneta di un Paese in ginocchio che non aveva da mangiare se non il
cibo dell'esercito statunitense e che non aveva riserve alle quali
agganciare la nuova valuta. Il marco ha dunque un anno in più
della Legge fondamentale e dello Stato tedesco occidentale, la Repubblica
Federale (Rft).
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