§ UN GOVERNATORE CONTROCORRENTE

MA RESTANO DUE ITALIE




A. B.



Fazio richiama l'attenzione sul problema del Sud come problema cruciale per il Paese. E' un elemento che merita considerazione, perché ormai da gran tempo nel dibattito politico, nei documenti economici, nella pubblicistica corrente, del Mezzogiorno si parla sempre meno, o non si parla per niente. Il Governatore invece ha voluto fornire i dati di questo problema e indicare le linee per avviarne la soluzione. Pura prassi formale? Credo di no. Avrebbe potuto tranquillamente ignorare la questione: nessuno se ne sarebbe accorto; e meglio ancora, nessuno si sarebbe stracciato le vesti. Questa "vergogna di famiglia", irrisolta da monarchie, dittature, democrazie parlamentari e gabinetti tecnici, non coinvolge più nessuno. Non gli economisti, che sono stati, e continuano ad essere, "servi del principe", serafici adattatori di "sistemi" alle ideologie imperanti: e non è un caso se nessuno di costoro, in un Paese come il nostro, che è un vero e proprio laboratorio in vivo e in vitro, è stato sia pur vagamente segnalato per un Nobel per l'economia. Essi godono a livello europeo e planetario della minima considerazione, che non si nega a nessuno. E non gli intellettuali, che preferiscono barcollare tra la inane tuttologia del Costanzo Show e i trastulli lialeschi e psicodrammi da Kamasutra all'amatriciana, piuttosto che impegnarsi ad osservare e/o a trasporre come metafora la realtà che li circonda: come se per le vie del mondo contemporaneo non fossero mai transitati i Faulkner e i Caldwell, i Borges e i Doctorow; e per quelle dell'Italia i Silone e i Gadda, gli Sciascia e gli Strati, i Penna e i Gatto, gli Sgattoni e i Sinisgalli. Tanto per fare pochissimi nomi. E tanto per capire perché in Italia si è creato un circuito braminico, cioè sacrale, che si autoattribuisce - spartendoli manuale Cencelli alla mano - cattedre e toghe, premi letterari e soggiorni-premio: senza che della nostra produzione letteraria ci siano grandi echi oltre frontiera. E non, infine, i politici, perduti dietro lo scemenzaio delle secessioni (Mantova) e delle insurrezioni (Benevento), che tradiscono specularmente le nostalgie del privilegio assistenziale. E che nel momento in cui l'America si disimpegna sostanzialmente in Europa, e l'Europa dimostra di non sapersi gestire come potenza unitaria, interpretano la politica come teatro dei pupi, perfettamente centrato dal paradosso di Ceronetti: "Mia moglie ed io avevamo deciso di perfezionare il nostro matrimonio mettendo al mondo delle marionette". Questi i tempi, questi gli uomini.
Il Governatore, dunque, va controcorrente. E la sferzata non è di poco conto. I dati del Sud - dice - non sono molto diversi da quelli che negli anni Sessanta si leggevano all'inizio di molti documenti.
Il Sud, dove risiede il 35 per cento della popolazione, produce appena il 25 per cento del reddito nazionale. L'occupazione attuale è largamente inferiore a quella che si registrava all'inizio degli anni Ottanta: nel solo '94 è diminuita del 4 per cento. La disoccupazione è del 21 per cento, ma raggiunge il 27 per cento in Calabria, e oltre il 50 per cento tra i giovani in cerca del primo lavoro. C'è gente che ha quarant'anni e ancora non ha percepito il primo salario, e rischia di giungere alle soglie della pensione senza che sia riuscita a farsi versare dal mercato del lavoro un solo contributo.
L'85 per cento della capacità produttiva manifatturiera è localizzato nel Centro-Nord. La par condicio in fatto di infrastrutture è remota anni luce. Beni civili e servizi sociali nel Sud sono in gran parte scienza d'un altro pianeta.
Di questa situazione è responsabile lo stesso Mezzogiorno, e quindi il Sud con le sue forze deve cercare di risolvere il problema del proprio sviluppo? Per rispondere a questa domanda, si dovrebbero sfogliare migliaia di pagine di letteratura meridionalistica, dove in egual misura trovano spazio le responsabilità del Sud e le carenze della politica economica nazionale. Riguardo a queste ultime, Fazio ha più volte ricordato tre elementi: il vantaggio accordato all'industria del Nord con la protezione doganale dalla fine dell'Ottocento a oltre la prima metà del nostro secolo; i vantaggi derivati all'industria settentrionale dalle grandi inflazioni seguite alle due guerre mondiali; il sistema di infrastrutture del quale è stato dotato soltanto il Nord. Aggiungendo poi che la disponibilità di capitale pubblico nel Sud in alcuni casi continua ad essere inferiore anche del 50 per cento rispetto a quella delle regioni più ricche. Dice Fazio: nessuno vuole resuscitare la deprecata politica dell'intervento straordinario, ormai non più possibile né accettabile, anche in forza dell'appartenenza all'Unione europea; ma non c'è dubbio che ad essa non si è ancora sostituita una capacità amministrativa e progettuale nella pubblica amministrazione, sia centrale che locale, in grado di utilizzare anche i fondi comunitari disponibili e di presentare progetti che potrebbero essere finanziati da organismi anche privati internazionali. Se, dopo il fallimento dell'intervento straordinario, si vuole perseguire nel Sud un modello di sviluppo liberista, che non implica assolutamente un minore impegno da parte dello Stato, non vi è dubbio che questa è la via da seguire; pena la crescita del lavoro nero in aziende che, per questo stesso fatto, non possono avere le economie esterne delle quali hanno bisogno aziende moderne. E, di conseguenza, pena il mancato sviluppo dei Sud, sebbene il superamento del dualismo territoriale sia la condizione per lo sviluppo duraturo e sostenibile dell'intero Paese.
Ma ci sono altri dati che radiografano il Mezzogiorno e la sua questione irrisolta. Fatto uguale a 100 il reddito medio pro capite dell'Europa a 15 (e dunque con la Grecia e col Portogallo, con le loro economie arretrate), il reddito pro capite della Lombardia è uguale (1992) a 134, quello della Calabria a 63. Nessuna legge al mondo impone che la Calabria debba avere lo stesso reddito della Lombardia. Ma qui la questione è un'altra: la Calabria non è un poco più povera della Lombardia, è a meno della metà del reddito lombardo. Il che sta a indicare che il problema è più grave e la spaccatura più profonda: la Lombardia può sognare l'Europa, la Calabria non può sognare niente.
Obiezione: non si può generalizzare col caso-limite della Calabria. Allora verifichiamo i dati complessivi. Fatto sempre uguale a 100 il reddito medio dell'Europa a 15, l'Italia ha un valore di 105. Cioè, è lievemente al di sopra della media europea. Ma quale Italia? Nel Nord-Ovest abbiamo un reddito pro capite pari a 128, nel Sud uno pari a 74: di poco superiore alla metà del primo. E ciò, avverte Pirani, nel momento in cui "siamo tutti immersi nella tv e nel cinema, strumenti che creano "immaginari", mondi virtuali, assolutamente uguali per il Nord e per il Sud. A Milano e a Reggio Calabria, cioè, si "vive" lo stesso universo di immagini e di parole, ma a Sud con un reddito che è meno della metà di quello del Nord. Persino una Fiat Tipo o una Golf sono la stessa cosa, lo stesso oggetto, ma a Messina li si ammira avendo in tasca meno della metà dei soldi che hanno in tasca a Varese".
In sintesi: a cinque anni dalla fine del secolo-millennio, in Italia ci sono ancora sei regioni (Puglia, Campania, Calabria, Sardegna, Sicilia e Basilicata) il cui reddito pro capite è metà di quello della Lombardia o inferiore. A meno che non si sia stati colpiti dagli effetti del buco nell'ozono, non è possibile dire che questo non è un problema; e che continuando di questo passo le due Italie non giungano a confliggere (ma con le armi della dialettica politica, qualunque cosa vadano predicando certi lazzaroni del Nord e del Sud). E questo ce lo fanno sospettare altre cifre, molto inquietanti, del 1994, anno di relativa crescita economica, dopo i tempi di crisi aperti nel 1992. Dunque: nel '94 il prodotto interno lordo italiano è cresciuto nel suo complesso dell'1,9 per cento. Ma scomponendo il dato, abbiamo che nel Nord la crescita '94 su '93 è stata del 2,7 per cento; al Centro di appena l'1,6; a Sud è stata inferiore all'1 per cento (esattamente dello 0,9). E nelle isole, nessuna crescita: il Pil è arretrato dello 0,1 per cento. In concreto: nel '94, a fronte di una crescita di circa il 3 per cento nel Nord (fra le più forti del mondo industrializzato), nel Sud e nelle isole si è rimasti pressoché stabili o si sono registrate percentuali negative. All'uscita dalla crisi degli anni Novanta, il Nord cresce a ritmi elevati, mentre il resto del Paese arretra.
E non è tutto. Nei prossimi anni, per risanare le finanze pubbliche, l'Italia sarà costretta a tenere bassa la domanda interna e a puntare molto sulle esportazioni. Cioè: il Sud sarà ancora penalizzato, perché il boom che molti pronosticano per l'immediato futuro in pratica riguarderà soprattutto quattro regioni: il Veneto, l'Emilia, le Marche e la Lombardia. Alle quali si potranno aggiungere molto presto il Piemonte (soprattutto grazie all'auto) e la Toscana.
In altre parole: il Nord terrà la testa della corsa, prendendo sempre più vantaggio, mentre il Sud resterà in coda, perdendo sempre più terreno. Le vecchie politiche "correttive" non servono più. Si provò con i grandi impianti paracadutati dal Nord e fu un disastro. Si ritentò con la distribuzione di sostegni assistenziali, ed è stata la rovina, forse definitiva. Mentre il Nord ristrutturava e si rimetteva in corsa, grazie anche a massicce evasioni ed elusioni fiscali (Veneto, Friuli, ecc.) che consentivano una specie di accumulazione primitiva di capitali, e a cospicue iniezioni di capitale pubblico a favore delle imprese private (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna), nelle regioni meridionali si consolidava il regime di subalternità. E tutti erano felici: governi, partiti, sindacati, economisti, intellettuali e altre faune nazionalpopolari. Le stesse che oggi intendono rifilare per Messibilità operative" e per "opportunità socioeconomiche" quelle che ovunque nel mondo si ritengono l'inciviltà e la discriminazione delle "gabbie salariali". Come se già non esistessero nella realtà delle due economie italiane, non le vogliono soltanto in fatto, ma anche in diritto. E' tutto quanto sanno immaginare quei geni del nulla che occupano le cattedre e che presiedono gli istituti e le associazioni economiche italiane. Ma facciamoglielo dare, un premio Nobel collettivo: all'opportunismo.


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