§ LA QUESTIONE MERIDIONALE MESSA ALL'INDICE?

VECCHI RITI E NUOVE SOLITUDINI




Claudio Alemanno



Una navigazione senza timone, in un mare a calma piatta, caratterizza l'attuale stagione della questione meridionale. Con l'abrogazione della Cassa per il Mezzogiorno, del Ministero per il Mezzogiorno, del Comitato Interministeriale per il Mezzogiorno e di quant'altro di burocratico sia stato prodotto dall'impegno meridionalistico degli anni 50-60, vien da pensare che anche i problemi del Sud siano stati abrogati o quantomeno messi in quarantena da tutti i centri di potere, pubblici e privati.
Un copione già visto si ripete. Si annunciano miliardi a cascata per il Sud, ma non si vedono progetti credibili di politica industriale, di politica del lavoro, di recupero dei centri d'arte, dell'ambiente, delle aree urbane degradate, di organizzazione razionale e concertata degli interventi.
Intanto tra la gente il popolare "chi sa comme fernisce" circola con toni più drammatici proprio perché più incerta è la condizione del vivere.
E' dunque legittimo chiedersi "se la stampa meridionale ritiene di aver fatto sempre per intero il suo dovere". E' mia opinione che la stampa in generale non abbia fatto il suo dovere. Il solo riferimento alla stampa meridionale mi sembra riduttivo e prematuramente frazionistico. Non lo ha fatto e non lo fa per una innata attitudine elitaria che pur senza manifestare una specifica avversione alla questione meridionale rende ostico il tema ai lettori e quindi di scarso interesse giornalistico. Troppa teoria ed un linguaggio politichese dotto ed involuto, talvolta querulo, hanno portato l'argomento all'attenzione, quando c'è stata, degli eletti più che degli elettori (le autorevoli tribune Svimez e Nord e Sud hanno imposto spesso tematiche e linguaggio alla grande stampa).
Tuttavia va dato atto alla sensibilità e serietà d'intenti di pochi politici e di pochi economisti per aver concepito ed imposto negli anni Cinquanta un progetto concreto d'intervento (l'unico della storia unitaria) ed un soggetto istituzionale - la Cassa per il Mezzogiorno - che sotto il profilo legislativo rappresenta tutt'oggi un modello di riferimento.
Non è un caso che proprio questo istituto sia stato successivamente aggiornato e riproposto in California per l'avvio dello sviluppo nella Silicon Valley e nella Germania Federale per il recupero dello Schleswig-Holstein.
La costituzione di un'Authority per il potenziamento delle infrastrutture, la gestione di eventuali agevolazioni finanziarie ed il controllo dei risultati d'impresa è uno strumento classico, ampiamente sperimentato nei processi d'industrializzazione. In Italia l'esperimento è fallito per una eccessiva burocratizzazione dell'intervento pubblico, per l'uso clientelare che di esso si è fatto in sede politica, per la nota peculiarità dell'imprenditoria italiana di perseguire con la logica d'impresa la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti (il cosiddetto doppio binario dell'economia produttiva). Il surrogato della Cassa, l'AgenSud, rappresenta bene lo stato di confusione e di paralisi in atto. Così il Sud continua ad essere ciò che è sempre stato dall'evento unitario in poi: una riserva di caccia per uomini corsari, usi a gestire con la complicità dello Stato le occasioni speculative più spregiudicate.
Che questo sport nazionale sia ora in declino per una sorta di resipiscenza improvvisa delle nuove oligarchie politiche ed imprenditoriali allo stato dei fatti resta un evento dell'immaginario collettivo.
Una concreta via d'uscita per un futuro diverso potrebbe venire dalla internazionalizzazione della nostra economia. L'incremento di capitale straniero nelle attività finanziarie e produttive del nostro Paese potrebbe sollecitare alla lunga strategie di mercato che privilegino le aree meridionali, trovando qui condizioni convenienti per l'allocazione di nuove risorse.
Condizioni economiche, non politiche! Purché si riesca ad accreditare sul piano internazionale un'immagine positiva del Mezzogiorno, della sua cultura e della sua operosità e sempre che gli attuali Soloni della politica "liberal" non usino questa parola in senso pirandelliano, come sacco vuoto dove ognuno si agita per mettere dentro i frutti che vuole. Le questioni vere sono due: quella meridionale, con i conflitti socio-economici noti a tutti e quella romana, per i lacci e lacciuoli che qui si pongono alle varie ipotesi d'intervento. Sono le valutazioni tecniche sui costi dell'impegno finanziario, sui costi d'esercizio e sui costi dell'impatto ambientale dei processi produttivi che determinano la localizzazione degli investimenti e la scelta dei siti secondo l'utilità marginale dell'impegno complessivo. Di per sé il potenziamento delle infrastrutture e gli incentivi fiscali e creditizi non promuovono alcun programma d'investimento. Con buona pace delle dispute trentennali (che peraltro sembrano riaffiorare) sulla qualificazione dell'intervento straordinario: se debba configurarsi aggiuntivo o sostitutivo dell'intervento ordinario.
I risultati di queste forbite riflessioni sono sotto gli occhi di tutti: porti fantasma, aeroporti costruiti senza economie di scala, strade costruite per praticare riti di meditazione francescana. Il potenziamento delle infrastrutture tout court, senza un contestuale recupero delle aree in cui intervengono, può determinare fenomeni gravi di depauperamento di risorse.
Occorre distinguere nel settore delle infrastrutture quelle necessarie per migliorare la qualità della vita (elettricità ad uso domestico, acqua potabile, reti fognarie, depurazione delle acque, interventi disinquinanti, ecc.) da quelle finalizzate allo sviluppo industriale e commerciale (approvvigionamenti energetici, potenziamento delle comunicazioni digitali, strade, ferrovie, porti, aeroporti). Queste ultime rientrano nei costi di un progetto d'intervento economico globale di cui la mano pubblica si assume l'onere per intero o pro-quota per chiare ragioni di pubblica utilità.
I tedeschi occidentali si sono tassati per accelerare lo sviluppo industriale dei fratelli dell'Est, ma i progetti messi a punto hanno interessato in modo globale ed integrato tutte le tematiche dello sviluppo. I centri di spesa, quando erano differenti, hanno operato in perfetta sintonia. Un'Authority serve per contemperare le istanze del pubblico e del privato. Nel caso di progetti per l'industrializzazione del Mezzogiorno, essa ha titolo d'intervento quando tali progetti diventano impegni ufficiali d'impresa in ragione di concreti e positivi riscontri offerti dalle proiezioni di mercato. Se questo tipo di presenza pubblica può essere assicurato con il fattivo impegno di concertazione delle diverse competenze ministeriali si può anche fare a meno dell'Authority. Non a caso si sostiene, anche autorevolmente, che il Sud ha bisogno più di diritto che di denaro, sottintendendo il "fai da te" per la reperibilità di quest'ultimo a livelli d'impresa.
Che il Sud abbia bisogno di diritto (e quindi di iniziative a livello di Governo e di Parlamento) è fuori di dubbio. Anzi, al fine di ridurre la perifericità del Mezzogiorno nel contesto europeo, sarebbe anche opportuno introdurre alcuni correttivi a norme comunitarie vigenti. Il pensiero immediato va ad alcune norme restrittive in tema di concorrenza; al riesame dei criteri di classificazione delle regioni ai fini della concessione degli aiuti nazionali ed europei (oltre al Pil occorre utilizzare almeno il tasso di disoccupazione regionale); al riordino della disciplina degli appalti pubblici europei in modo da consentire corsie preferenziali per l'aggiudicazione alle imprese delle aree deboli.
Tuttavia il generale, silenzioso attendismo su tutte le tematiche della questione meridionale denuncia un preoccupante vuoto progettuale.
Perciò dalla carta stampata si attende un ruolo propositivo forte, portato avanti con determinazione certosina. Il linguaggio va ampiamente rivisitato dando spazio a proposte e verifiche espresse in modo semplice ed essenziale, con l'impronta tipica del giornalismo di frontiera. Senza nostalgia per il linguaggio colto e paludato di coloro che ragionando astrattamente in chiave di priorità politica non riescono a vedere nel disagio attuale l'urgenza e forse la priorità del dato sociale su quello economico. Le cose da fare sono tante; quelle da spiegare tantissime.
Incominciando dalla necessità di riscoprire il primato della funzione sociale del lavoro.
Chiuso l'ombrello dell'assistenzialismo statale che ha generato la cultura del non lavoro e legittimato l'illecito strisciante, occorre ora ribaltare le aspettative di un modello abnorme, recuperando i tradizionali valori della legalità e della cultura del lavoro. Un'operazione non facile, in cui la stampa ha certamente un ruolo da svolgere. E' noto che la disoccupazione al Sud raggiunge livelli elevati, ma nessun giornale offre, oltre al distaccato ed anonimo inserto-lavoro, un servizio documentato sulle opportunità di vita e di lavoro in altre zone d'Italia ed all'estero e sulle relative necessità formative di base (il colpevole ritardo dell'apparato statale può essere colmato almeno in parte da una stampa sensibile al proprio dovere di servizio). E' triste inoltre constatare che nella Comunità Europea la circolazione dei capitali ha già raggiunto un grado elevato di liberalizzazione mentre barriere nazionalistiche ancora si frappongono alla libera circolazione di professionisti ed altri lavoratori. Tuttavia la piena armonizzazione interessa già alcune professioni. Possono usufruire del cosiddetto "diritto di stabilimento" (possibilità di risiedere ed esercitare in tutti i Paesi della Comunità) architetti, farmacisti, medici, dentisti, veterinari, infermieri, mentre ampie facilitazioni sono accordate ai lavoratori del settore agrario, forestale, orticolo e dell'industria mineraria, elettrica, metanifera ed idrica.
L'internazionalizzazione dell'economia va incoraggiata tanto sul versante del capitale quanto su quello del lavoro.
Il federalismo americano, nato sotto l'egida del "pluribus unum" (la Costituzione del 1787 tutt'oggi in vigore fu ratificata all'inizio da nove Stati), ha fatto proseliti per le condizioni di maggiore certezza garantite allo sviluppo industriale dalla solidità di una moneta unica e dalla flessibilità di un mercato del lavoro sempre più ampio, regolato esclusivamente da rapporti contrattuali di tipo privatistico anche nel settore del pubblico impiego. E' importante abituare i giovani, laureati e diplomati soprattutto, a scoprire opportunità di lavoro oltre i confini regionali poiché sta proprio nella mobilità globale il futuro possibile dei nuovi equilibri di mercato. Quanto tutto ciò sia lontano dall'attuale assetto organizzativo della società meridionale è fatto constatabile ogni giorno.
L'utilità della stampa nello spiegare e superare la discrasia tra aspettative di lavoro e concrete opportunità di mercato sarebbe di grande rilevanza sociale, consentendo a vaste comunità di non restare prigioniere di schemi in cui il minimo vitale non è più garantito alle nuove generazioni.
Coniugare in positivo tradizione ed emancipazione non è agevole se non si hanno punti cardinali di riferimento. Quando si fugge dalla scuola a 14 anni o prima, in cerca di un lavoro qualsiasi (spesso illecito) o si resta nella scuola fino alla soglia dei 30 anni esibendo lauree che hanno scarsa influenza nella ricerca del primo impiego, si determina uno stato di malessere che va oltre le inadempienze burocratiche, diventando emergenza di carattere sociale. La stampa ha il dovere di appropriarsi di tutte le tematiche che producono questa grave anomalia. Avendo ben chiaro il concetto che non sempre tutto è politica.
Un giornale prestigioso come il New York Times ha deciso di riorganizzare gradualmente l'intera struttura editoriale con l'intento di ridurre le rubriche di opinione per dare più spazio ai temi della vita cittadina ed alle questioni di costume e di ordine sociale, dando maggiore impulso alla funzione prima di ogni giornale: l'informazione come servizio, come dialogo costante con i lettori. In Italia un evento del genere assumerebbe i caratteri di una rivoluzione copernicana per la soverchiante presenza dei circoli politici e dei vari potentati pubblici e privati nell'articolazione di ogni notizia (i rapporti stampa-potere sono un vecchio rompicapo per una editoria che non ha mai avuto autonomia finanziaria).
Eppure il "nuovo" tanto auspicato da qualche parte deve spuntare! Nella stampa dovrebbe trovare terreno fertile, essendo il giornalista dotato di un gusto per l'avventura intellettuale più forte rispetto all'amore per la tranquillità.
Dickens sosteneva che ci sono momenti della vita in cui l'ignoranza è una benedizione. A giornalisti ed editori spetta il compito di rimuovere l'attualità di questo desiderio collettivo. Di fronte al Nord che continua a scavare trincee separatiste. Di fronte al Sud inchiodato nel suo isolamento postmoderno. L'incomunicabilità non può essere un'avventura esaltante per gli esperti della comunicazione. Crea solo fazioni e divisioni che ripropongono il fascino ed il terrore del Medioevo.


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