§ EFFETTO SVALUTAZIONE

L'ITALIETTA? E' IN VENDITA




M. B.



Non meraviglia, in un Paese con scarso orgoglio e con una strepitosa tendenza all'autoflagellazione (la lira è ormai un raffinato oggetto di tortura), che nessuno si ponga il problema della proprietà, nazionale o estera, del nostro sistema produttivo. Intendiamoci: qui non è questione di patriottismo nazionalistico. E' qualcos'altro. E' che un gigantesco cartello con il verbo "vendesi", e purtroppo in molti casi col verbo "svendesi", è appeso alla Penisola. Lo scorgono gli stranieri che comprano, non lo vediamo noi; o facciamo finta di non vederlo. E, com'è stato scritto, questa distorsione ottica è una delle conseguenze non secondarie della forte svalutazione di questi ultimi quattro anni.
E' vero che il grado di integrazione internazionale della nostra economia è ancora piuttosto basso e che, alla vigilia di più stretti legami europei, può sembrare persino anacronistico chiedersi se il proprietario di un gruppo industriale tenga casa a Milano oppure a Francoforte o a Parigi o a Londra. In tempi poi di stateless company, cioè di multinazionali che scelgono di volta in volta quale bandiera sia preferibile indossare, il passaporto economico è una mera finzione amministrativa. Ma è anche vero che Paesi come la Francia o la Germania, della cui vocazione europea nessuno può dubitare, sono molto attenti a non lasciarsi sfuggire il controllo di aziende e di settori
che considerano di importanza nazionale. I francesi non vendettero agli Agnelli neanche l'acqua minerale Perrier, e i tedeschi impedirono a Pirelli di entrare in Continental con un durissimo gioco di squadra (gli intrecci azionari banca e industria serviranno bene a qualcosa) e con una moral suasion che altrove acquisterebbe valenze mafiose.
Noi, al contrario, abbiamo favorito la cessione di interi settori (e mercati connessi): dalla farmaceutica alla chimica, fino all'alimentare. Con 50 miliardi (del 1984) gli svedesi dell'Electrolux si presero la Zanussi: ma proprio non era possibile metter su una cordata italiana? Poi sono diventati stranieri i tortellini Fini (Kraft), le bollicine San Pellegrino (Nestlé), persino un po' di italici spaghetti (Barilla, in mano americana).
In sintesi: ogni tre giorni, con una velocità aumentata dal deprezzamento della lira, un'azienda passa in mani straniere. Oltre un terzo del fatturato delle 1.600 imprese monitorate da Mediobanca è ormai realizzato da multinazionali estere. La dimensione del fenomeno è appena attenuata dai successi di alcuni nostri imprenditori. Ma per un Marzotto che conquista Boss, per una Firimeccanica che compra Bailey, per un Del Vecchio che lancia un'opa in America, c'è un'interminabile serie di abbandoni. Famiglie che lasciano, tentate da buone offerte; imprenditori che rinunciano, scoraggiati dal costo del lavoro e da un mercato finanziario che non li aiuta. L'Italia è ormai doppiamente un paese di rentier: la maggioranza con i Bot, la minoranza più facoltosa e felice con le rendite da realizzo di patrimoni industriali. Ma entrambi godono, senza colpe, i frutti di due sconfitte: dello Stato i primi, dell'industria i secondi.
Un attento analista ha scritto che lo spartiacque fra internazionalizzazione e colonizzazione è determinato dalla posizione della testa pensante di un'azienda venduta. Se resta in Italia, tutto bene. Se emigra subito, no, perché si scopre che l'acquisizione aveva un unico scopo: quello di comprare un mercato, e non un'azienda. Ed è questa la maggioranza dei casi: una realtà industriale si trasforma in pochi anni in una filiale commerciale, o poco più.
L'ingresso del Pignone nella General Electric può fare dell'azienda fiorentina la testa di ponte europea del gruppo americano, con potenziali di crescita altrimenti non raggiungibili. Non così è sembrato il passaggio frettoloso della Telettra dalla Fiat ad Alcatel.
Senza un'accorta politica industriale e un efficiente mercato finanziario, il nostro Paese rischia di seguire le orme della Spagna, che adesso si pente di aver venduto troppo all'estero. Madrid si è accorta che in periferia non si conta proprio nulla e che in molti casi (vedi Volkswagen) si pagano anche i prezzi (salati) delle crisi altrui.


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