§ SCHUMPETER & KEYNES

CARISSIMI AVVERSARI




M. B.



Quando approdò per la prima volta ad Harvard, la Grande Depressione si stagliava ormai nitidamente sull'orizzonte americano. Erano già in molti a considerarlo, con ragione, uno degli economisti più interessanti del tempo. Sarebbe rimasto famoso soprattutto per la sua appassionata, incontrollabile ammirazione per il sistema capitalistico, di cui celebrava i fulgori e pronosticava la morte. Joseph Alois Schumpeter aveva allora 44 anni. John Kenneth Galbraith, che piantò le tende nel più celebre "campus" universitario degli Stati Uniti press'a poco negli stessi mesi, lo ricorda così: "Era di struttura robusta, di carnagione piuttosto scura e di altezza leggermente inferiore alla media; dotato di faccia espressiva e sorridente, non si stancava di amare la compagnia e la conversazione. Non dubitò mai che Cambridge fosse lontana dallo stile della Vienna di Francesco Giuseppe, ma era deciso a fare del suo meglio per compensare questa manchevolezza".
Schumpeter, di fronte alla scelta fra restare nel vero e diventare memorabile, non esitava mai. "Un giorno - ricorda ancora Galbraith - disse ai suoi squattrinati "graduate" che un gentiluomo non può vivere con meno di 50 mila dollari all'anno. La cifra è ben impressa nella mia memoria. Considerando le tasse e i prezzi, questo corrisponderebbe all'incirca a 300 mila dollari di oggi".
C'è, su tutte, una ragione che impone oggi, a oltre cento anni dalla nascita, una "commemorazione" storica di Schumpeter: mai nessun economista al mondo avrebbe presentato una più efficace difesa del capitalismo. E a ben guardare, di ragioni per ricordare Schumpeter ce ne sono di immediate. In molte aree della scienza economica contemporanea si torna ora a respirare dopo oltre trent'anni l'aria di una cultura "classica" che pare avere, distintamente, un profilo "austriaco", i contorni della dottrina che fu insegnata prima dalla cattedra di Carl Menger (1840-1921) all'Università di Vienna durante il passaggio del secolo e poi, via via, dai suoi allievi Von Bohm-Bawerk, Wieser, Hayek, Mises, Lachmann, Machlup e dallo stesso Schumpeter.
Schumpeter, unico tra questi, era però predestinato alla massima celebrità, ad entrare nell'albero genealogico della cultura economica d'ogni tempo, proprio dalla sua geniale e prodigiosa capacità di lavoro, oltreché dalla sua esperienza insolita di vita. Fu ministro delle Finanze durante la grande inflazione del dopoguerra di un governo socialista in Austria, banchiere, professore di economia a Bonn e a Tokyo, consulente legale al Cairo, docente ad Harvard fino all'anno della morte (1950) nella fase più intensa e drammatica a cavallo fra il "crack" del '29 e l'epopea ruggente del "New Deal" roosveltiano.
E' stato, abbiamo detto, il massimo celebratore del capitalismo. Ma fu anche precoce profeta della sua fine. Nessuno può dire se fecero più scalpore le apologie del capitalismo allo stato "puro", quello più inibito e antidemocratico, che poteva vivere soltanto sulla disuguaglianza e l'ingiustizia sociale ("le risorse affluiscono solo dove c'è profitto"), oppure gli epitaffi preventivi che egli lasciò iscritti sulla ideale lapide di un gigantesco cimitero industriale, finanziario ed economico.
Benjamin Higgins, professore all'Università del Texas e consulente del Mit, sostiene che nessuno conobbe realmente quale fosse la sua posizione politica. Pochi anni prima della morte, in un discorso a Montreal, disse che "il modo di fermare l'ondata del socialismo era di organizzare uno Stato corporativo sotto la guida della Chiesa cattolica". Sarebbe peraltro erroneo concludere che egli avesse "tendenze fasciste", sostiene Higgins: "Semplicemente, egli considerava l'esistenza di una società classista come un prezzo esiguo da pagare per il continuo progresso economico e sociale che egli riteneva sarebbe stato creato da un capitalismo non controllato".
Perché parliamo di Schumpeter "politico" e non della sua dottrina economica? La ragione sta nel fatto che una lettura di Schumpeter "economico" deve probabilmente partire dal debito intellettuale che egli mostrò continuamente verso Marx più che verso qualsiasi altra figura di pensiero. "Lodava Marx come un genio, un profeta", dichiara Galbraith. "E' importante capire come un uomo possa far leva sul sistema marxista eppure odiare il comunismo", dice Higgins.
James Tobin, Nobel per l'economia, e professore a Yale, parla di Schumpeter come di uno scopritore di formule magiche: "Ci ha dimostrato che si poteva concepire l'economia come un sistema risolvibile di equazioni simultanee di "equilibrio" per un numero uguale di prezzi "incogniti". Insieme all'assunzione che gli acquirenti ed i venditori ottimizzano ai prezzi di mercato, questa teoria presenta implicazioni sia normative sia positive; Schumpeter la utilizzò come punto di riferimento per le fasi di instabilità che egli riteneva costituissero condizione normale del capitalismo".
Ma torniamo alle origini del sistema schumpeteriano. Esse poggiano sulla ripugnanza verso il collettivismo che si estendeva anche a quella per il capitalismo "bardato", ossia per il Welfare State. Tuttavia, nonostante che egli fosse un ammiratore del sistema capitalistico, condivise le prognosi nefaste della scuola classica e di Marx. Egli ritenne - secondo Higgins e altri studiosi - che il capitalismo sarebbe giunto ad una situazione di ristagno e di crollo, e che il crollo sarebbe derivato soltanto dalla mancanza di apprezzamento per ciò che il capitalismo è in grado di fare.
Secondo Schumpeter, non saranno i fallimenti del capitalismo, ma i suoi successi a condurlo alla fine. Ed egli vedeva il germe della morte annidato persino all'interno delle scuole economiche della sua epoca, soprattutto nel keynesianesimo, che avrebbero poi finito con l'eclissare il pensiero "austriaco". Il forte individualismo "austriaco" si opponeva, infatti, alla spersonalizzazione della scienza macroeconomica. Ma, all'opposto, anche il monetarismo di Milton Friedman, al quale apparentemente egli poteva avvicinarsi politicamente, peccava a suo giudizio di un'eccessiva fiducia nell'efficienza del mercato per poter valutare appieno il significato, il valore morale, dell'azione umana. E' probabile perciò che i maggiori contributi dati da Schumpeter non siano di ordine tecnico-scientifico, ma di ordine filosofico-etico.
La contrapposizione tra Keynes e Schumpeter, per non parlare di quella netta e ambivalente tra Marx e Schumpeter, ci rivela tuttavia, anche a distanza di anni, un volto nuovo dell'economia teorica.
Schumpeter, ad esempio, definiva il risparmio come un'economia in vista di futuri consumi o investimenti.
Egli pose l'accento soprattutto sulle innovazioni che considerò l'elemento principale della determinazione degli investimenti "autonomi": innovazione nel senso di progresso tecnologico e di scoperta di nuove risorse. Del pensiero marxiano, Schumpeter colse semmai soprattutto l'impianto sociologico, l'attenzione per la dinamica e il comportamento della popolazione nella società industriale e capitalista. Non negò, per esempio, che l'incremento demografico avrebbe potuto influenzare positivamente le strategie di investimento a lungo termine e, al contrario, la riduzione della popolazione avrebbe potuto ingenerare una fase di ristagno economico. Tuttavia, faceva una distinzione netta tra sviluppo e crescita. Diceva: il vero sviluppo è qualitativo.
Cardine del sistema schumpeteriano, da quando nel 1912 in Germania all'età di 29 anni pubblicò la Teoria dello sviluppo economico, è il ruolo direttivo ricoperto dall'imprenditore. A differenza di Marx, il quale attribuiva alla funzione imprenditoriale un peso importante ma non il valore di una variabile indipendente, Schumpeter isolò questo fattore dal resto, attribuendogli un significato determinante.
Ogni innovazione, secondo Schumpeter, non avrebbe infatti che un effetto economico marginale se non vi fosse qualcuno che ne valorizzasse il potenziale economico: l'imprenditore, appunto. L'offerta di forza imprenditoriale nella società è ciò che determina in ultima istanza le capacità di sviluppo capitalistico. E, come Marx, egli pose molta enfasi sul dato sociologico del "clima" nel quale l'imprenditore opera, delle "regole del gioco".
In proposito, Galbraith dice: "Schumpeter accettava il capitalismo così come era e ne faceva una forza di progresso e cambiamento. Persino situazioni monopolistiche potevano essere tollerate, perché permettevano a chi ne era in possesso di godere i frutti delle proprie innovazioni in un modo che il modello competitivo escludeva. Malgrado tutto questo, Schumpeter non divenne mai un oggetto di culto tra i conservatori americani, come invece lo erano Von Hayek, Von Mises e gli altri esponenti della vacuità tradizionale. Ciò fu in parte dovuto al fatto che mancava di solennità e gli piaceva scandalizzare i suoi stessi sostenitori naturali".
Eppure, i conservatori dell'epoca, travolti dal keynesianesimo montante, avevano certamente apprezzato l'ipotesi centrale di Schumpeter secondo cui qualunque sviluppo che tendesse a ridurre i profitti privati per ridistribuire pubblicamente reddito, ad aumentare il potere dei sindacati operai, a far leva sulle imposte progressive e su programmi di benessere sociale, comunque su interventi diretti del governo, equivale ad un peggioramento del "clima" capitalistico.
Ricorda Higgins che "egli spiegò la durata e la profondità della Grande Depressione proprio in termini di legislazione del lavoro, sicurezza sociale, lavori pubblici, struttura del carico fiscale, regolamentazione delle pubbliche autorità ed altre politiche del "New Deal" introdotte tra la metà e la fine degli anni '30".
In sostanza, dunque, la prospettiva del sistema schumpeteriano può sintetizzarsi così: il sorgere di nuove imprese è solitamente accompagnato dal sorgere di una "business leadership" da parte di "uomini nuovi" (se ciò non accade, si avvia una grande recessione economica); questa leadership sarà seguita da una schiera di imitatori, volàno del progresso. Di qui la teoria schumpeteriana dell'ondata di nuovi investimenti, assumendo che essa potesse essere finanziata con l'espansione della massa monetaria piuttosto che con i risparmi, di modo che i nuovi investimenti potessero creare un divario tra spesa e risparmio, dando luogo allo sviluppo.
Una volta che i nuovi investimenti siano stati completati, il saggio di investimento - dice - tenderà a scendere al livello necessario per la sola sostituzione, un crescente flusso di nuovi consumi entrerà sul mercato e i prezzi caleranno sotto la spinta anche della contrazione di massa monetaria. Questo processo porterà alcune imprese ad incorrere in pesanti perdite, i fallimenti ad aumentare, l'impulso innovativo a smorzarsi. E' l'inizio del "ciclo" successivo, la depressione. La teoria del prezzo è quindi "distributiva": necessariamente alcune persone perdono. Dice Daniel Bell: "Si tratta di quello che Schumpeter ha chiamato "distribuzione creativa" o che Lester Thurow definisce oggi gioco a somma zero".
Anche qui Schumpeter incontra Marx: lo sviluppo capitalistico tende (nel suo schema) a procedere a salti piuttosto che in progressione costante e regolare. Le fluttuazioni schumpeteriane non rappresentano però una teoria completa del "ciclo" economico; egli considerò nel suo ultimo lavoro Cicli economici.- analisi teoretica, storica, statistica del processo capitalistico il "trend" come un concetto statistico, una linea tracciata attraverso i punti di flusso di una curva dei cieli. La causale del "trend" ascendente e discendente non trova in Schumpeter molte spiegazioni scientifiche.
In Business Cycles e in Capitalismo, socialismo e democrazia, la tesi schumpeteriana del crollo capitalista è poi spiegata suggestivamente. Siamo agli ultimi anni della sua vita. Qui si trova la "teoria del ristagno" (la depressione è la scomparsa delle opportunità dell'investimento) e soprattutto l'assunto secondo cui "il capitalismo può sopravvivere soltanto in un processo rivoluzionario ed è quindi in contraddizione con la logica dell'assestamento".
Il pensiero schumpeteriano assume a questo punto della sua evoluzione un alto grado di tautologia ed è di difficile verifica empirica, ma costituisce forse il momento in cui l'aspetto "letterario" ed "etico" del rapporto vita-morte esistente nel capitalismo e quello economico di condizione convulsa dello sviluppo si uniscono con maggiore chiarezza. Un'intuizione che ancora oggi fa storia.
" ... Le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto si pensi comunemente [ ... ]. Gli uomini della pratica, i quali si ritengono affatto liberi da qualsiasi influenza intellettuale, sono usualmente schiavi di qualche economista defunto". Quando decise di chiudere con questa considerazione la sua opera più famosa, la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, John Maynard Keynes non immaginava con quale brutalità e cinismo la politica avrebbe fatto strage dopo la sua morte della più grande dottrina economica della nostra epoca.
Annotava qualche anno fa Galbraith che "le idee del socialismo non originarono dalle masse, quelle che salvarono il capitalismo non nacquero tra gli uomini d'affari, i banchieri o i proprietari di azioni il cui valore se ne era andato al vento. Sono principalmente di Keynes, ma egli ebbe il destino di essere ritenuto pericoloso proprio dalla classe che voleva salvare". C'è chi sostiene oggi, invece, che la teoria di Keynes è stata forse distrutta dal suo stesso successo, se non altro dalla strumentalizzazione che se ne è voluta fare.
Aveva 62 anni quando, alla vigilia di Pasqua del '46, l'ennesimo attacco cardiaco lo stroncò. Sin da ragazzo non aveva brillato per robustezza fisica. Ma l'affezione che lo colse nove anni prima di morire e che lo ridusse nel corpo all'esistenza di un semiinvalido non ne aveva soffocato lo straordinario potere intellettuale: gli ultimi due anni della sua vita furono i più intensi. Fu in quel periodo, tra l'altro, uno degli artefici degli accordi monetari di Bretton Woods, contribuì alla nascita del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, negoziò il grande prestito americano che avrebbe permesso all'Inghilterra di vivere un'austerità relativamente stabile nel primo dopoguerra.
Era nato a Cambridge il 5 giugno del 1883 da una famiglia borghese di vecchie ed ottime radici. Sarebbe rimasto nel fondo del suo pensiero un borghese e un liberale. Alla solenne funzione funebre nell'abbazia di Westminster c'erano il padre, di 92 anni, e la madre di 89, a rendergli l'estremo omaggio. Lei, Florence Ada Brown, donna di rara intelligenza, si era dedicata ad opere di beneficenza ed era stata anche sindaco di Cambridge. Lui, John Neville Keynes, era un economista ed un logico, capo dell'amministrazione della celebre università locale. Maynard frequentò dapprima Eton, studiando soprattutto matematica, e poi entrò al King's College di Cambridge, che dopo quello di Trinity è il più prestigioso "college" del luogo.
Fu qui che scoprì l'interesse per l'economia. Seguendo i consigli di Alfred Marshall, che era già circondato dalla fama di un profeta e considerato l'indiscussa guida del mondo economico anglo-americano, e rifiutando quelli dello storico Trevelyan che gli suggeriva la carriera forense, Keynes sostenne l'esame per l'ammissione nella pubblica amministrazione. Ma andò male, e proprio in economia: "Probabilmente gli esaminatori ne sapevano meno di me", disse. Il che gli procurò un periodo di noiosa attività burocratica all'India Office. Fu la sua fortuna. Poté ingannare il tempo scrivendo i primi pregevoli saggi monetari.
Nella sua formidabile vita di scienziato e di artista, di politico e di giornalista, di editore e di impresario teatrale, gli anni della prima guerra rappresentano una svolta determinante. Divenuto funzionario del Tesoro col compito di coordinare le finanze interalleate, fu incaricato di partecipare alla Conferenza della Pace di Parigi. Rimase allibito, e persino inorridito, dal clima che regnava tra i negoziatori. Si dimise e scrisse il più grande documento polemico dei tempi moderni, Le conseguenze economiche della pace, pubblicato alla fine del 1919. Era contro le clausole di riparazione dei danni di guerra e accusò gli alleati di voler esigere dalla Germania molto più di quanto essa potesse pagare, commettendo un grave errore politico ed economico.
Come un razzo luminoso nel cielo buio della notte, la stella di Keynes entrò piroettando nel firmamento della notorietà. Il trattato, tradotto in tutte le lingue, gli valse, però, soprattutto, durissimi attacchi dalla stampa inglese, l'esclusione per lunghi anni dai pubblici uffici della Corona, la terribile accusa di aver fornito alla Germania l'alibi della persecuzione con cui Hitler avrebbe poi giustificato la tragica rivalsa tedesca in Europa.
Nei venti anni trascorsi lontano dalla politica, "esplose" il suo ingegno instancabile. Insegnò, scrisse parecchio sul Times e sul Manchester Guardian, rilevò il settimanale The Nation, che si fuse poi col New Statesman, diresse ancora giovanissimo l'Economic Journal, da agente assicuratore speculò in valute, dapprima guadagnando e perdendo tutto, e poi arricchendosi fino ad accumulare una vera fortuna, creò e amministrò l'Arts Theatre di Cambridge, infine diventò presidente della Royal Opera House di Londra.
Ma soprattutto frequentò assiduamente il gruppo degli "Apostoli" di Bloomsbury, una ristretta élite che avrebbe avuto un posto notevole nella letteratura inglese, di cui facevano parte Leonard Woolf, Clive Bell, Toby Stephen (sua sorella Virginia sposò poi Leonard) e Litton Strachey. Essi vissero dopo gli anni di Cambridge nel quartiere londinese di Bloomsbury, "nel più assoluto dispregio delle regole sociali, beandosi di arte e di relazioni umane, ripudiando ogni versione della dottrina del peccato originale, senza alcuna reverenza per la saggezza tradizionale... ". Il gruppo, al quale Keynes era legato in realtà più affettivamente che intellettualmente, gli insegnò soprattutto un certo snobismo: "La politica è appena un surrogato del bridge", era solito dire.
Vi entrò a far parte, non senza superare prevedibili difficoltà e diffidenze, anche la ballerina russa che egli avrebbe sposato nel 1925, la bellissima Lydia Lopokova, una donna di grande finezza che lo amò intensamente e lo assistette senza sosta fino ai giorni della morte nella tenuta-modello di Tilton, nel Sussex, che si erano comprati con i guadagni speculativi procuratigli dalla "National Mutual Insurance Company".
Non cercò mai in tutto questo tempo di ottenere una cattedra o un dottorato di ricerca ("Non voglio l'ignominia del titolo, senza la consolazione degli emolumenti"); restò così semplice "lettore" a Cambridge e semplice cittadino a Londra, fin quando nel 1942 fu nominato Pari d'Inghilterra e divenne Lord Keynes of Tilton.
Apparteneva, disse una volta Sergio Ricossa, a quella categoria di intelligenze che traggono forza dagli avversari. Le tre pietre miliari della sua analisi teorica (scrisse anche moltissimi saggi pratici) sono, in effetti, il risultato di altrettante "provocazioni" derivate dall'insuccesso e dalla scarsa comprensione che le sue dottrine all'inizio riscossero.
Indian Currency and Finance del 1913, ma soprattutto A tract on Monetary Reform del 1923 sono considerati oggi testi classici sul Gold Standard; allora, però, la sua ipotesi, secondo cui il ritorno alla convertibilità dell'oro avrebbe comportato un'inaccettabile recessione economica con tragiche conseguenze sull'occupazione, non ebbe fortuna. Egli perse la prima battaglia, anche se in tempi successivi i fatti gli avrebbero dato ragione.
Riprese, dunque, in Teoria della moneta, del 1930, con maggiore polemica e vigore la strada analitica che gli aveva fatto scrivere una frase celeberrima: "Alla fine saremo tutti morti", intendendo con questo confutare sarcasticamente la tesi dei sostenitori del "laissez-faire", secondo i quali il libero mercato avrebbe, alla lunga, sistemato ogni cosa. Fu questo il seme dal quale germogliò la "rivoluzione keynesiana", un'intera epoca di pensiero e azione sociale.
Egli partì dalla distinzione tra investimento e risparmio che, sostenne, erano assolutamente indipendenti tra loro, e concluse che dal diverso comportamento dei due fattori derivano gli squilibri economici: se gli investimenti eccedono il risparmio, ne deriva uno stato di boom e di inflazione monetaria; se gli investimenti sono inferiori al risparmio, ne deriva uno stato di depressione e di deflazione. La questione, diceva, è che le decisioni di investire e di risparmiare sono prese da classi diverse di individui, i consumatori e gli imprenditori.
Fino ad allora il risparmio era stato considerato sempre desiderabile e benefico; egli controbatté, sostenendo che poteva essere in qualche caso dannoso, in quanto può esistere senza una corrispondente attività d'impresa.
All'indomani della grande crisi del '29, dopo cinque anni di studio, la "rivoluzione keynesiana" deflagra in tutto il mondo con la pubblicazione della Teoria generale che diventerà il supporto logico del New Deal rooseveltiano e quindi l'antitesi del liberismo e del monetarismo. Egli ruppe allora con l'intero pensiero economico accademico sulla tesi che il sistema capitalistico è un sistema capace di risolvere, ordinatamente e senza conflitti sociali, poggiando soltanto sul mercato, il problema del completo utilizzo delle risorse umane e intellettuali e quello della distribuzione della ricchezza.
L'attesa per quest'opera era stata addirittura spasmodica: raccontava Schumpeter che professori e studenti di Harvard fecero una colletta per far arrivare in aereo da Londra le prime due copie fresche di stampa. Keynes era consapevole di quanto stava accadendo. Scrisse a George Bernard Shaw che avrebbe "ampiamente rivoluzionato [...] ciò che il mondo pensa dei problemi economici". Lo fece. "Come la "Bibbia" ed il "Capitale" - dice Galbraith - la "Teoria" di Keynes è un testo fondamentale e ambiguo, e per questo conquistò molti adepti". Ma i suoi ispiratori non furono né gli Apostoli né Marx, semmai Adam Smith, Ricardo e Malthus.
"Incominciamo col togliere di mezzo i principi metafisici sui quali si è voluto fondare di tanto in tanto il laissez-faire" disse Keynes: il mondo non è governato in modo tale che gli interessi privati coincidano necessariamente con quelli sociali. Anzi, il sistema capitalistico tende a produrre disoccupazione di risorse e di lavoro, quindi ristagno, in quanto la domanda esercitata dal sistema non è sempre sufficiente ad assorbire tutte le merci che il sistema può produrre. "Tuttavia il capitalismo, se sapientemente diretto, può diventare il modello più efficiente tra tutti quelli oggi alle viste".
Quali soluzioni offrì Keynes? Innanzitutto, bisogna dire che egli cercò sopra ogni cosa di capire "perché" l'ordinamento capitalistico fosse così incerto da indurre a tesaurizzare la moneta, "perché" la produzione non fosse intesa semplicemente a scambiare una merce contro denaro per ottenere un'altra merce ed invece fosse usata spesso soltanto per ottenere altro denaro (cioè, profitto), "perché" il sistema non fosse capace di provvedere alla piena occupazione "risparmiando" invece che spendendo il proprio reddito...
La ragione che egli trovò di questi squilibri fu la risposta che avrebbe trasmesso alle successive generazioni. La "domanda" per consumi e la "domanda" per investimenti si formano in base a leggi assai diverse. "L'eccesso di parsimonia" nella domanda complessiva deve dunque essere corretto. Ma non, come si era sostenuto analizzando le cause della disoccupazione, da una diminuzione dei salari o manipolando i tassi d'interesse, bensì, disse Keynes, lanciando un siluro contro la chiglia dell'economia tradizionale, con l'assunzione da parte dello Stato di un ruolo attivo nella politica d'investimento. In una parola: finanziando in disavanzo la spesa pubblica.
Keynes si vide così affibbiata l'etichetta di "inflazionista". I politici opportunisti, soprattutto a sinistra, giustificheranno da allora fino ai giorni nostri con la dottrina keynesiana la necessità di mantenere deficit di bilancio pubblico. Nessuno ha capito, o ha voluto capire, che la sua teoria si applicava a situazioni di grave scarsità di risorse rispetto alla domanda, quali appunto quella della tremenda deflazione degli anni '30. Non c'è dubbio, comunque, che in un primo tempo vittima principale della teoria di Keynes fu solo l'economia capitalistica.
La domanda creata dalla spesa pubblica aveva per Keynes una funzione anticiclica; è divenuta successivamente una scelta strutturale, un fattore stabile anti-recessivo, un surrogato permanente alle debolezze del capitalismo. Invece di riempire temporaneamente un vuoto, la politica keynesiana del "deficit spending" ha finito col creare in aeternum un eccesso inflazionistico di domanda. Questo tradimento "populista" della sua dottrina sostanzialmente borghese e liberale ha via via determinato una ingiusta sconfitta storica del keynesianesimo, soprattutto in questi ultimi vent'anni.


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