§ SCUOLA DI FRANCOFORTE

I NEMICI DELLA SOCIETA' INDUSTRIALE




Domenico Fisichella



E' ben nota l'influenza esercitata dalla Scuola di Francoforte sui movimenti di rivolta che prendono le mosse nel 1968 e che investono l'Occidente per almeno un decennio: il periodo della guerra nel Vietnam (con l'impressione profonda e lacerante prodotta sull'opinione pubblica del mondo intero), dei moti studenteschi nelle università americane e poi europee, del maggio francese e della "rivoluzione culturale" cinese, del guevarismo e delle esaltazioni guerrigliere.
Ma quando nasce, dove si colloca, quali radici e specificità culturali presenta il pensiero di autori come Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Erich Fromm, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Friedrich Pollock, che appunto tra la fine degli anni Sessanta e il decennio seguente conoscono un recupero e un successo di portata mondiale? Anche se con alterne vicende personali, che talora sfoceranno nella separazione polemica, tutti questi scrittori rinviano all'Istituto per la ricerca sociale, fondato nel 1922 a Francoforte da un gruppo di intellettuali marxisti. Le loro idee si sviluppano in gran parte negli anni Trenta e Quaranta (prima in Germania, poi soprattutto negli Stati Uniti, dopo l'avvento del nazionalsocialismo), pur se conosceranno articolazioni e arricchimenti posteriori.
Alla ricostruzione dell'esperienza "francofortese" fino al 1950, cioè alle soglie del ritorno di Horkheimer e Adorno in Germania, è stato dedicato un volume di Giuseppe Bedeschi, Introduzione a La Scuola di Francoforte. La scelta di limitare l'analisi al termine indicato è motivata dal fatto che il rientro in patria dei due principali esponenti dell'istituto incide fortemente sulla composizione di tale organizzazione, in quanto numerosi suoi autorevoli esponenti rimangono negli Stati Uniti, talché la ripresa dell'attività dell'istituto a Francoforte si giova dell'apporto di una generazione più giovane (Habermas, Schmidt e altri), la cui formazione e le cui esigenze determineranno una fase sostanzialmente nuova della scuola.
L'interesse di partenza della riflessione "francofortese" è rivolto all'esigenza del rinnovamento della teoria e della pratica della rivoluzione. La situazione operaia nel primo trentennio del nostro secolo in Europa, e specie in Germania, è radicalmente mutata rispetto ai tempi di Marx. Nell'Ottocento, tra occupati e disoccupati non esisteva una distinzione netta, ma una sorta di dinamismo continuo: chi era occupato oggi, poteva essere disoccupato domani, e viceversa. Di qui, una omogeneità sociale e politica del proletariato, tutto teso al superamento del dominio capitalistico.
Con il Novecento, viceversa, il quadro cambia profondamente. Il proletariato cessa di essere socialmente e politicamente omogeneo, e si suddivide in due fasce relativamente stabili (occupati e disoccupati), con gravi conseguenze socio-politiche. Gli operai occupati non sono più interessati ai problemi della rivoluzione, e si esprimono attraverso la socialdemocrazia, sempre più integrata nel sistema capitalistico. I disoccupati sarebbero interessati alla rivoluzione, ma costituiscono una massa disgregata e oscillante, con la quale è difficile intraprendere qualcosa di valido sul piano organizzativo. La politica comunista, cui si collegano i disoccupati, è perciò astratta e velleitaria, fondata sulla pura e semplice ripetizione di assunzioni di principio.
Alla constatazione che sottolinea l'incapacità della classe operala di aggredire il sistema capitalistico, si intreccia un motivo assai importante dal punto di vista filosofico: la difesa della dialettica. Ciò che manca sia ai socialdemocratici (tutti immersi nella realtà di ogni giorno) sia ai comunisti (incapaci di trovare le connessioni e le mediazioni tra i "princìpi" e la realtà) è la concezione dialettica della storia, ovvero della realtà concepita in quanto storia. Secondo Bedeschi, la rivendicazione della dialettica diventa così "il contrassegno essenziale della posizione culturale della Scuola di Francoforte", nel periodo della direzione di Horkheimer.
La vicenda intellettuale del gruppo "francofortese" si arricchisce intanto di ulteriori passaggi nel processo di costruzione della "teoria critica". Rilevante è lo sforzo di conciliare psicoanalisi e marxismo, anche se in questa operazione si realizza uno svisamento di punti assai significativi del pensiero di Freud. E poi c'è, sempre nel contesto del rapporto tra economia e psicodinamica, la riflessione sulla famiglia borghese, fondata sull'autorità paterna, da distruggere se si vuole realizzare la dissoluzione della società borghese.
L'anno di fondazione dell'Istituto per la ricerca sociale è quel "fatale 1922" in cui si svolge la marcia su Roma. La sollecitazione a indagare i caratteri socio-economici e culturali di fascismo e nazionalsocialismo diventa ineludibile. Qui vengono enunciate almeno tre tesi di base. Il nazifascismo viene visto come figlio legittimo del liberalismo, tipica ideologia borghese. Il nazifascismo è l'espressione politica del capitalismo monopolistico come forma matura del sistema di dominio borghese, verso la quale tendono, ben oltre Germania e Italia, tutti i Paesi che si trovano in tale fase sociale, cominciando dagli Stati Uniti. Allorché il concetto di capitalismo monopolistico viene riletto, rivisitato e aggiornato in termini di capitalismo di Stato (ciò che avverrà agli inizi degli anni Quaranta), il concetto di Stato autoritario e totalitario, prima riservato ai fascismi e in genere ai capitalismi dell'Occidente, si allarga fino a comprendere l'Unione Sovietica, realizzazione più compiuta, radicale e coerente della modalità "statuale" del sistema capitalistico.
A rapidi passi, emerge in tal modo l'ispirazione centrale della scuola: l'ostilità verso la società industriale, particolarmente nella sua versione avanzata, e con essa la critica crescente della scienza, del lavoro, della tecnologia, della ragione. Convergono su tale linea, insieme a rilievi penetranti sulla condizione contemporanea, nostalgie romantiche del paradiso perduto e della totalità frantumata, velleità rivoluzionarie in chiave palingenetica, suggestioni reazionarie che ripropongono forse inconsapevolmente itinerari confutativi di vecchia data, tentazioni infantili mascherate da audaci dottrine sociali.
Il risultato è quello di un complesso teoretico ove le osservazioni singole, non di rado acute, sono tuttavia immerse in un contesto che, per prevenzione ideologica e ingenuità esistenziale, realizza un "corpus" dottrinale ampiamente deviante e fuorviante, perché le associazioni di idee sulle quali è costruito risultano assai spesso forzate, arbitrarie e insostenibili.
Qui sta il limite grande di tale corrente intellettuale: l'estrema difficoltà, l'incapacità di distinguere, che è invece il carattere fondamentale del lavoro cui debbono attendere le scienze sociali. L'impresa critica è fatta di distinzioni. Sono esse che ci consentono di comparare, classificare, ordinare concettualmente, infine comprendere e spiegare. Ma le tracce di questo processo, che non esclude la sintesi senza però confonderla con la prevenzione ideologica e psicologica, sono troppo tenui e spesso inconsistenti nella produzione di un istituto che pure si intitola alla ricerca sociale.


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