§ CONTI PERSONALI CON LA FINE DEL SECOLO

RITRATTI IN MINIATURA




Gennaro Pistolese



Il secondo dopoguerra, che sostanzialmente è iniziato con la creazione della Repubblica e con la Carta Costituzionale, con ispirazione e percorso nettamente ed irreversibilmente occidentali, dopo oltre mezzo secolo non è ancora culminato né con l'avvento della Seconda Repubblica di cui tanto si parla, né con la preliminare dichiarazione della fine della Prima.
Ne continua, infatti, l'evoluzione, a smentita di tante ambiziose affermazioni e progetti verbali che il più delle volte si esauriscono in professioni di principii non tutti sempre atti a definire contenuti di doverose contrapposizioni e di alternanze di scelte.
Dopo la fondamentale scelta di campo avvenuta nel 1948 (che ha garantito il percorso occidentale dell'Italia fino al nuovo del 1989 ed in questi anni successivi, facendo largo alle resipiscenze, si è portata e si sta portando con le sue radici a livelli plebiscitari), pure il contesto della mia generazione è urgentemente coinvolto, come sistema, dagli imperativi del Duemila.

Punteggio necessario, ma per lo meno incerto
Tutto ciò dovrebbe consentire anche a me, che di questo secolo ho vissuto le vicende di quasi nove decenni, come giornalista, nativo del Sud, romano d'adozione per poco meno di otto decenni, di tentare una "ritrattistica" di ricordi, di ambienti e di persone portatori di costanti valori ed annunciatori di nuovi. Annunciatori di nuovi, sottolineo, nell'emulazione delle generazioni, e cioè delle intuizioni, dei livelli culturali (la cultura con la vastità del suo attuale significato), della carica di creatività e così via.
Forse e non forse per molti aspetti c'è da rilevare che vari campi e livelli di guida hanno segnato nel nostro Paese punteggi ovviamente discontinui, ma certo favorevoli a generazioni che hanno saputo creare maestri e perciò non quelle che ne sono state sterili. E purtroppo quest'ultimissimo scorcio di secolo ne è estremamente povero, ma li sta preparando e li attende ad un traguardo che oggi, al livello tecnologico cui si è giunti, comporta tappe molto più frazionate.
In sostanza, abbiamo tanti Grandi che danno impronta a questo secolo, ma la nuova anagrafe ne è ancora povera. Questa mi sembra la constatazione doverosa per un cronista che ha la fortuna di poter riferire.
L'orgoglio personale, poi, nasce quando si ha la forza della coerenza nelle scelte essenziali, della validità dell'ubicazione operativa prescelta, nel rispetto delle conclusioni da trarre dai confronti.
E qui c'è il rimpianto per i maestri che non ci sono più, non perché siano morti, ma in quanto i nuovi stentano a nascere. Essi nel passato hanno costituito un grande patrimonio non solo per l'insegnamento e per la scienza, ma anche per la politica. Ho avuto la fortuna di averli maestri a "La Sapienza": quella reale. Oggi la tormenta che si abbatte sulla docenza universitaria ha creato per lo meno una lunga battuta d'arresto, con i larghi vuoti che più che essere di numeri sono di livelli. Perfino le toponomastiche cittadine ne stanno facendo le spese.
Naturalmente questo tipo di discorso genera pure i paradossi impossibili e le satire politiche purtroppo quasi sempre strumentali.
Una di queste afferma che il Governo ideale per tanti italiani (tanti? e quali?) dovrebbe essere presieduto da Cavour, avere come ministro dell'Interno Giolitti, degli Esteri De Gasperi, dell'Economia Einaudi. Purtroppo non si tratta di una tipologia esistente e purtroppo oggi di possibile coesistenza e compatibilità. Ma l'aspirazione è sostanzialmente questa.
E poi c'è il grossissimo problema del contenuto della Repubblica, della sua struttura istituzionale e del suo modo di essere, il quale ultimo non è certo positivamente rilevabile nelle cifre che si hanno nel grado raccapricciante dell'indebitamento pubblico (solo ora ci si accorge che l'art. 81 va tirato fuori dal cassetto, che ogni proposta di nuova spesa dovrà essere accompagnata dalla relativa copertura fiscale: sono rilievi, ma oggi, della Corte dei Conti, o proposte per il tavolo delle "regole" per le quali si scomoda, si è scomodato da sé, un nostro commissario alla CEE), e nel livello della nostra inefficienza globale: servizi che non rendono in rapporto ai costi, ma che spesso non esistono nella misura dovuta a fronte di gravami indebitamente lievitati pur di fronte al niente addirittura nella costruzione o nella manutenzione o nella gestione, che spesse volte non è stata neppure tentata. Mia madre, figlia di alto magistrato, di coesistenza monarchica, ma di sopravvenuta anagrafe repubblicana, nel dire "E' repubblica" intendeva dire che avevamo a che fare con il disordine. Mia madre è deceduta sul finire degli anni '50, ha votato nel 1946, poi nel 1948. Lei ha espresso una valutazione non distante da quanti dicono che bisogna passare alla Seconda Repubblica. La mia valutazione è la stessa, perché la Repubblica che temeva mia madre è la stessa che non piace a me, e che mi fa pensare che la Prima Repubblica sia nata solo formalmente e non sia ancora certo quella che quanti volevano si ritrovavano e quanti non auspicavano dovevano accettare ed hanno accettato.
I romantici di tutte le origini e di tutte le folgorazioni non contano.
lo da bambino, a Melfi, ricordo un vecchio avvocato che passando davanti alla mia casa avita, che gli ricordava con il suo colore il Palazzo reale di Piazza S. Ferdinando a Napoli sotto il regno borbonico, si toglieva la tuba, gridando: "maestà, siam fottuti!". Siam fottuti, solo se lo Stato che vogliamo non è quello in atto. Oggi purtroppo siamo tutti alla ricerca di questo Stato, e quanti hanno ricordi da mettere dentro lo facciano. Non serve tanto la storia, quanto i ricordi e la cronaca di ciascuno di noi.

In un Albo d'oro che non c'è
E ritorno ai miei ricordi, "ritratti", tentativi o speranze mie di medaglioni. Ho divagato prima con le mie riflessioni che, avendole così prima trascritte, mi fanno ricordare meglio le persone che per quanto mi riguarda hanno scandito la mia vita.
Ricomincio perciò dai giornalisti, dai miei colleghi, con i quali ho iniziato la mia professione, che oggi mi trova anche pensionato (ma mio padre che per la sua insignificante pensione di avvocato aveva avuto a che fare con le "marche Cicerone" non immaginava la possibilità della mia), e dai quali tutti, in positivo ed in negativo, ho sempre imparato.
Ho parlato in precedenza dei maggiori, compresi taluni di quelli che si ritenevano senza esserlo, anzi sapendo il contrario. Ce n'era anche uno che, secondario redattore da Roma, pretendeva che la macchina dell'editrice andasse a rilevarlo alla stazione, in segno di omaggio. Ma in una grande azienda il fatto implicava solo il direttore di garage. Certi giornalisti, almeno allora, si inventavano privilegi e ne pretendevano il pratico riconoscimento.
Ma qui vorrei, più che ricordare, sottolineare qualche altro nome. Ad esempio Enrico Mattei, Renato Angiolillo, Vittorio Zincone, Italo Minunni, Giovanni Artieri, Remigio Rispo, Panfilo Gentile, Manlio Lupinacci, Ettore della Giovanna, Luigi Barzini jr., Curzio Malaparte, Giacomo Guiglia, Mauri (de Il Corriere della Sera, ma non ne ricordo il nome), ecc.
Ci sono pure due editori atipici, in aggiunta agli altri da me precedentemente ricordati, e cioè Enzo Selvaggi, diplomatico, e Galli Pacciorini, tessile e banchiere, ma entrambi occasionali, perciò pure provvisori editori: rispettivamente, Italia Nuova ed Italia Sera. Che cosa mi ricordano?
Comincio dai "grandi colleghi".
Enrico Mattei è stato sempre solo Enrico Mattei, anche quando c'era il non meno Enrico Mattei presidente dell'ENI. Pure, secondo me, il cognome del giornalista conta per se stesso più di quello dell'omonimo, che è o si crede più importante. Orbene, il mio Mattei è stato un grande giornalista. Quando ho scritto qualcosa sul mio giornalismo (ed io ho la ventura di esserne uno dei decani: iscritto alla Stampa Romana dal dicembre 1930) per la rivista della nostra Federazione gli ho dedicato questi miei ricordi giornalistici.
L'ho ammirato e invidiato. Una volta gli ho detto che mi aveva perfino fatto arrabbiare, perché su Il Tempo, di Angiolillo però (e Letta non dica che su quello di oggi si sente sempre Angiolillo, perché lui sa che non è vero ed io forse lo so meglio di lui), aveva scritto un fondo che avrei tanto voluto scrivere io. Forse lui mi stimava, perché ebbe a dirmi, mentre eravamo in compagnia di De Feo, allora Vice Presidente della RAI, che al momento la realizzazione più valida della Confindustria era quella de Il Sole, come era da me diretto. Ma io sapevo chi era lui: giornalista a 18 anni, inventore del pastone politico, corrispondente da Roma in giornali in cui poteva essere più importante del direttore (ed uno di essi era Giovanni Spadolini, che tentava inutilmente di farne a meno il più possibile), grande protagonista dei salvataggi dell'alluvione dell'Arno, solo perché il direttore di un giornale doveva stare ai primi posti nelle calamità, non per riferire - come spesso pur eroicamente si fa oggi - ma per fare. Ed Enrico Mattei, come io lo ricordo, c'è sempre stato, anche per difendere la nostra categoria, e sempre con un sorriso che minimizzava tanto, ma soprattutto semplificava quanto faceva.
Renato Angiolillo dal canto suo ha avuto la ventura di avere cervello per fare contemporaneamente il giornalista e l'editore. Di tali esemplari il passato ne ha avuto qualcuno, il presente solo un altro sopravvissuto alla sua iniziativa. Conosco la prima storia, molto meno la seconda, con l'esplorazione difficile ed inesauribile per entrambe sui primi vagiti professionali.
Angiolillo, a quanto so, fondò Il Tempo disponendo di mille lire, e dovendo riempire e cercare di vendere solo due facciate di un giornale. Aveva al suo fianco Oreste Mosca e Giovanni Artieri, che - entrambi me lo confermarono - erano più propensi a dividersi le mille lire che non a fondare un nuovo giornale. La decisione doveva essere presa al Soda Parlor del Majestic a Roma, ma a noi giornalisti piace più inventare testate che non monetizzare quello che abbiamo a portata di mano. Perché di ciò non si tiene conto nella valutazione della nostra reale vocazione?
Una seconda cosa fatta da Angiolillo è stato l'acquisto del diario di Ciano, per un giornale a due pagine, ma che con questa sua capacità creativa pure di fantasia sapeva di dover camminare: di essere cioè in grado di far camminare e il direttore e l'editore.
Con entrambi c'è stata l'occasione di incontrarci, come editorialista con un articolo che era in tipografia ma non è mai passato alla rotativa, con un'offerta di redattore economico inoltratami a mezzo Confindustria di cui allora facevo parte ma poi sostituita da Vittorio Zincone, di cui dirò poi e che mi è sempre piaciuto (forse il figlio Giuliano oggi mi piace di più); con l'assegnazione sul Campidoglio, a me e a lui, della medaglia d'oro di 40 anni di appartenenza alla Stampa Romana. Medaglia d'oro, con il Colosseo attraversato da una penna d'oca: il nostro intramontabile emblema. La medaglia sta là, ma quello che ricordo è il fatto che Angiolillo mi disse senza che gli fossi presentato che Pistolese ero io: mi aveva visto una volta cinque lustri prima. Letta non stava ancora da quelle parti, perché quando mi fu presentato - nel 1964 - si occupava solo delle relazioni pubbliche dei Cavalieri del Lavoro, Furio Cicogna presidente, che era anche presidente della mia Confindustria.
Successivamente ho visto Angiolillo, dispiacendomene, perché con i capelli color mogano, con un cane inglese al guinzaglio (forse a casa solo piatti addirittura d'oro come si diceva?). Ciò nonostante, Angiolillo ha il suo album nel quale ha diritto a prendere posto.
Vittorio Zincone, che prima ho ricordato, apparteneva alla stessa mia generazione. Aveva avuto inizi di carriera analoghi ai miei: lui all'ufficio corporativo della Confederazione dei Lavoratori dell'Industria, io ad analogo ufficio della Confederazione dei Lavoratori del Commercio. Avevamo entrambi due presidenti estremamente validi, il mio pure laureato in filosofia, il suo sindacalista di origine umbra, che era stato anche corrispondente de Il Popolo d'Italia. Conversando con lui in una serale passeggiata, concordammo che ogni strada, quale che sia, porta alla meta solo se la percorri al massimo delle tue forze, perfino di quelle che non hai.
La sua carriera, cercando di stare sempre in mezzo a quello che si chiamava "giro", non di clientele ma di pensiero e di partecipazione, era cominciata così. La mia aveva la stessa ispirazione. Successivamente questo presidente mi dette incarico di redigere per un'Enciclopedia del Lavoro curata dalla sua Confederazione ed edita da Hoepli la voce "Africa": era l'indomani dell'impresa etiopica. Ne ricavai anche l'iniziativa con il Ministero dell'Africa Italiana di un Codice del Lavoro appunto dell'Africa Italiana, che si realizzò in due fortunate edizioni.
Vittorio Zincone allora era divenuto redattore ed editorialista de Il Lavoro Fascista, quotidiano dei lavoratori, che se non erro era allora diretto da Gherardo Casini, che prima era stato capo ufficio stampa del ministro Bottai, successivamente direttore generale della stampa italiana e nel post fascismo intelligente editore. Di lui ho ricordato che in tempo di razzismo aiutava nelle collaborazioni i colleghi ebrei, taluno dei quali non ha mancato di segnalare anche a me quando lavoravo all'Artigianato.
Ma Zincone è stato un grande giornalista: per la competenza economica, per la sua estrema rapidità: un fondo gli costava tre quarti d'ora alla macchina da scrivere. In forza della sua ideologia, dichiaratamente liberale, ne ha saputo tanto validamente interpretare contenuti, motivazioni vicine e lontane, prospettive, da divenire anche deputato liberale, con strenue battaglie che fra l'altro hanno riguardato anche l'esercizio - diritti e doveri - della proprietà edilizia.
Abbiamo anche lavorato insieme, nelle Cronache del Parlamento da me curate alla Confindustria: un periodico che Angelo Costa aveva voluto perché riteneva che gli imprenditori dovessero essere a conoscenza diretta, anche critica se necessario, dell'attività legislativa delle due Camere. Debbo dire che di fronte alla crescente attualità di questa informazione, Angelo Costa anche in ciò è stato un precorritore. E quale precorritore: con la sua azione in anticipo sempre sui tempi, e con la sua figura, una delle tre o quattro della ricostruzione postbellica italiana.
Zincone poi fu vittima di un incidente automobilistico, che ne rallentò l'attività e ne ridusse la presenza. Era lo stesso estremamente vigile della carriera, anch'essa giornalistica, del figliolo Giuliano: eravamo nei primi anni '60, e me ne parlava venendomi anche a trovare a Milano, quando ero alla direzione de Il Sole. Gli scambi di idee, come successivamente ho ricordato con il figlio, riguardavano infatti anche questo tema.
Non è questo certamente l'unico caso di padre e figlio entrambi giornalisti, ma è il caso esemplare di una comune alta capacità che fa piacere vedere espressa nello stesso campo dallo stesso cognome. Ovunque ci sono le grandi famiglie che camminano con gli establishment. Qui ci sono un padre ed un figlio che si susseguono ad alto livello su di una macchina da scrivere e forse oggi su un computer. Chi ha la ventura di aver potuto leggere il primo e di poter leggere il secondo non ha bisogno di fare confronti, ma solo registrare il proprio compiacimento e la propria soddisfazione per quella lettura. Facciamo conoscere meglio questo tipo di giornalismo.
Ad una generazione precedente alla mia appartiene invece un altro giornalista da ricordare ed è Italo Minunni, combattente e mutilato della prima guerra mondiale (amputato di una gamba, e privato di gran parte dell'udito: orgoglioso paziente di protesi diverse), nazionalista, volontario in Libia nella seconda guerra mondiale, giornalista economico fra l'altro alla Confindustria, poi a 24 Ore, infine come direttore, mio predecessore, a Il Sole. Era siciliano, con tutto quanto significa in termini di cultura, di rigore, di doveri e di aspirazioni, tutte compatibili con l'orgoglio.
Naturalmente ho appreso molto da lui in una reciproca collaborazione, che era dettata dalla curiosità provocata dalla comunione del campo di lavoro. Egli più che dirmi quanto poteva insegnarmi lasciava spazio, quasi indifferente, alla mia conseguente intuizione.
In due occasioni, per decisioni di vertice, gli sono subentrato in posti di direzione, ma allora le consegne ce le facevamo in silenzio, perché ognuno sapeva che quello che lasciava il subentrante se l'era già studiato e sapeva come avrebbe cambiato strada. A me è occorso di mutare faccia ad un vecchio quotidiano economico, avendo predisposto, nei precedenti quindici giorni alla mia direzione, un completo numero zero con grafici, testate, testatine, ecc. che già erano passate dalla clischetteria. Da poco Baldacci aveva inventato Il Giorno di Enrico Mattei e Nino Nutrizio aveva fatto lo stesso per La Notte. A me toccava farlo per il più antico quotidiano economico d'Europa, a Milano, dove ogni sforzo, anche minore, riusciva ad ottenere una risonanza non riscontrabile altrove.
Ed eccomi al cognato di Minunni, Giovanni Artieri, condirettore o vicedirettore de Il Tempo di Angiolillo, parlamentare monarchico, inviato di guerra di grandi quotidiani. E' stato... anche inviato presso di me, perché voleva approfondire le prime notizie che avevo ricevuto da un membro del Gran Consiglio, Luciano Gottardi, poi fucilato a Verona, sul Gran Consiglio appunto del 25 luglio. Le prime notizie sull'evento si devono a queste informazioni che si sono incrociate e che sono cominciate timidamente e contraddittoriamente ad apparire in agosto. Queste notizie hanno avuto bisogno di un marchio estero e così hanno cominciato ad avere credito. Artieri ha avuto anche questo attivismo, che da un napoletano ricava tanto naturale estro quanto non infrequenti rigurgiti di pigrizia.
Remigio Rispo era un giornalista napoletano, anch'egli esemplare per rispetto e livello di coscienza, umana e professionale. Lo conoscevo ed avevo frequentazione professionale con lui, quando io ero alla Confindustria nei vertici dei servizi stampa e lui era redattore capo con Santi Savarino, direttore, a Il Giornale d'Italia. Ero amico di entrambi, ma Savarino mi faceva capire che aveva a che fare con un redattore capo che riteneva eccessivamente accentratore, mentre Rispo rivendicava l'autonomia del giornale e quella della propria funzione nello stile più rigoroso ed intransigente.
Allorché Il Giornale d'Italia, anche per il suo tramite, passò di proprietà alla Confindustria, questa lo accreditò a me, corrispondente da Roma de Il Sole, quale redattore parlamentare. Sapeva che era di passaggio, non lo immaginavo io, e perciò mi preoccupai di definire al meglio - come d'altronde aveva fatto pure lui - i rispettivi campi di competenza e di responsabilità. li suo frequente intercalare d'allora più di distacco che di partecipazione era: "mi compiaccio". Una frase chiaramente non partecipativa e volutamente inconcludente, ma solo di rinvio di discorsi possibili, purché realmente utili.
Questo tipo di frasi, dal significato volutamente indefinibile, ha una lunga storia alle spalle. Ha tanti precedenti nel teatro comico. E' mutuato in campo politico e giornalistico. Nell'attualità riflette la pluridecennale sua utilizzazione. C'è stato e c'è l'ovvio che ha emulato l'effimero, c'è la bufera che accompagnata o disgiunta dal temporale è un'immagine che ti insegue dappertutto, c'è la situazione definibile come fluida, e nessuno saprebbe oggi rinunciare a questo tipo di paracadute terminologico. Ognuno di noi, specie se giornalista, ha il suo termine di esenzione. Rispo aveva quello. Ma con Rispo siamo stati destinati negli stessi giorni alla direzione di due diversi giornali economici confindustriali, Il Globo per lui ed Il Sole per me. Allora ci siamo più profondamente conosciuti e voluti bene. E ricordo che allorché Il Sole si fondeva con 24 Ore, ed io fui chiamato ad altri incarichi presso la Confindustria, fu proprio Rispo a dirmi che apriva le porte del suo giornale alla mia collaborazione come editorialista, perché la mia firma non doveva andare in pensione.
Mi è occorso di avere similari affermazioni per Il Corriere Mercantile da parte del suo direttore, Giulio Giacchero, ma credo che sia orgoglio e prestigio della nostra categoria quella di poter disporre di queste testimonianze.
Ma che se ne sa, se ognuno di noi, frequentemente, senza che gli altri siano in grado di saperne altrettanto, deve fare i suoi esami di coscienza, anche questi, raffrontando quanto si è avuto e quanto si è dato?
Panfilo Gentile è un altro nome che probabilmente non c'è nell'Albo d'Oro del nostro Ordine (questo Albo però non solo non c'è, ma non saprebbero mettervi le mani i nostri organi professionali). A lui spetta il perenne riconoscimento che non ha mai avuto.
E' stato fra i primi fondatori del Partito Liberale, grande opinionista ante litteram, con una contabilità personale e familiare incerta numericamente - al limite delle ristrettezze di emergenze straordinarie, anche se infime - ma formidabile dal punto di vista intellettuale e pure culturale; con una pratica, meglio milizia, cinofila addirittura superiore a quella professionale; con la preconcetta rinunzia ai guadagni facili e pure dovuti, per il primato attribuito ad altri valori: quelli appunto della cinofilia, di avere un'abitazione a ridosso di via Veneto, di poter condividere l'urgenza con la moglie della riscossione del compenso di un articolo, di accogliere, lui disteso su di un letto, chi gli poteva offrire una collaborazione adeguatamente compensata.
Forse Gentile - che riteneva dovesse sdebitarsi con me con la dedica di un suo libro, più valido nel tempo degli eventuali diritti di edizione - che mi sembra fosse abruzzese, era anche inconsapevolmente dannunziano. Probabilmente l'hanno capito gli altri, ma lui non se ne sarà certamente accorto. Lui invece, a sé stante, era l'autonoma espressione più che di una persona, di un mondo che anche noi dobbiamo cercare di capire meglio.
Egli ha comunque espresso e interpretato un personaggio multiforme: con il cane da una parte, la macchina da scrivere, il letto non solo per dormire o altro, ma per pensare, dall'altra.
Certamente è riuscito ad emettere anche una propria "moneta", naturalmente non garantita finanziariamente, ma solo dai confronti e dai ricordi di chi li vuole o sa fare. Almeno qualche "cespuglio" delle nuove generazioni se ne potrebbe avvantaggiare.
Manlio Lupinacci è un'altra fra le grandi firme - definiamole così -- almeno dagli anni 40 a poco più o poco meno della seconda metà di questo secolo.
Era anch'egli liberale, forse fra i più attivisti che quel partito abbia avuto, era monarchico (fra i tre o quattro che salutarono il Re di maggio all'aeroporto di Ciampino prima del decollo per Cascais c'era lui), era divenuto agli inizi degli anni Cinquanta assessore comunale di Roma per i giardini, scriveva autorevolmente sui periodici che egli stesso si sceglieva (ha scritto certamente durante il fascismo per un rotocalco che si chiamava Il Mediterraneo ed era diretto da chi in Italo Balbo aveva trovato la sua stella e ne portò il feretro all'indomani dell'abbattimento dell'aereo su Tobruk che appunto Balbo pilotava: parlo appunto di Giuseppe Bucciante, di cui sono stato successore all'Artigianato, quale capo dell'ufficio stampa nell'aprile del 1938).
Manlio Lupinacci non era inedito per me, perché quando nell'anno accademico 1926-1927 entrai alla "Sapienza" di Roma per frequentare i corsi universitari di giurisprudenza, Lupinacci era già più o meno distrattamente fra i fuori corso. Nel 1930, allorché conseguita la laurea lasciai la "Sapienza", Lupinacci continuò a fare distrattamente il fuori corso. Non so come e se abbia concluso questa vicenda.
So - e gliel'ho ricordato - che gli piaceva molto una nostra collega, figlia di un agente di cambio, di cui ebbi l'inavvertenza di non accettare l'invito a studiare insieme, ma che uno dei più grandi amici della mia vita di generazioni di gran lunga superiori alla mia ha molto più tardi amato invano.
Gli ho chiesto e remunerato articoli per un'agenzia giornalistica che allora dirigevo, ma ho capito che era alla ricerca di quanto ancora non aveva trovato. Al livello che gli piaceva ed a cui ardentemente aspirava, forse, secondo me, non esaurendo tutti gli sforzi necessari.
C'era in mezzo una tazza di the da prendere nei pomeriggi, con programmi formali e sostanziali che non combinavano, in un locale di Piazza di Spagna che non è mutato rispetto ad allora, come mai mutò il Lupinacci che conosco, anche se so che lui riteneva che stesse cambiando.
Non vorrei che, stando così le cose, siano per noi personaggi anche coloro che non solo non lo erano, ma mai hanno pensato di divenirlo.
Ci sarebbero da aggiungere Granzotto, Bartoli, Indrio (Corriere della Sera), i cofondatori con Montanelli de Il Giornale (uno di essi, Cesari Zappulli, proveniva da Il Messaggero ed era esperto economico), Sterpa che dirigeva Il Corriere Lombardo, già fondato se non sbaglio da Mazzocchi, ecc., ma in questa occasione - se ne prevede sempre un'altra non lontana, che spesso invece, ed in certi casi (questo è il mio), non c'è - mi limito a questi nomi: Ettore Della Giovanna, Luigi Barzini Jr., Curzio Malaparte, Giacomo Guiglia, Giovanni Ansaldo, Irene Brin, Mauri de Il Corriere della Sera.
Ettore Della Giovanna è un altro nome da non dimenticare. La mia frequentazione con lui è da me condivisa con quella di Ugo Indrio: ci siamo trovati in tre, sul finire degli anni 70, a condividere impegno redazionale e pure editoriale in un'agenzia giornalistica finanziaria, che ci vedeva editorialisti. Per Della Giovanna si trattava di un impegno conclusivo o quasi della sua carriera, che non sprizzava più la perentoria vivacità di prima.
Quella che in una postconferenza stampa conviviale al Banco di Roma trovava me oltranzista difensore delle capacità editoriali e giornalistiche di un vero anticipatore, anche se era stato fascista di punta e addirittura editore di una rivista dal titolo Difesa della Razza, e lui contestatore quanto mai energico perché si trattava fra l'altro di un direttore di una siffatta rivista! Eravamo in un decennio tanto oggi distante da noi e certe reazioni, queste reazioni, erano allora consuete. Ma dopo, certi profili pur di giornalisti tanto giustamente contestati hanno cominciato a vedersi proiettati in una dimensione più ampia.
E' stato il caso pure di questo giornalista, siciliano, che pur fascista estremista ha avuto le sue intuizioni editoriali anticipatrici nel 1925 ed io da principiante aspirante giornalista, diciottenne, ho avuto la ventura di potervi cercare e trovare uno spazio, nuovo non solo per me, ma per Cecchi, Barilli, ed altri, uno spazio come editorialista in campo solo colonialistico, con il quale ho tentato di farmi strada fino alla guerra nell'Africa Orientale. Un momento nel quale erano tantissimi i sopravvenuti, da suggerire di mettersi in disparte quanti come me credevano che il loro tempo, pur di giovani, fosse in questo campo esaurito o quasi.
Orbene, Della Giovanna, allora, non condivideva giudizi più ampiamente motivati, ed alla fine era divenuto più comprensivo. L'ho conosciuto e lo ricordo come tale, con la sua rapida corsa mattiniera al bar di via della Croce, poco discosto dalla sua casa. Bar, caffè e giornalisti: quanta strada, anche nostra, dietro quei tavoli e quei banconi!
E c'è pure Luigi Barzini jr., da ricordare. Ho avuto scarsa frequentazione con lui. Mi piaceva parlarne rilevando che quando non parlava bene di se stesso lo faceva di suo padre: per me il vero e modesto grande Barzini, al quale, quando tornò in Italia dalla sua grande emigrazione nell'America Latina, dove aveva fondato e diretto Il Corriere degli Italiani, Mussolini aprì le porte della direzione de Il Mattino di Napoli. Mi occorse, con lui direttore, di infilarvi un paio di "fondi" in materia coloniale.
Barzini jr. ha avuto una vita non meno travagliata, competitiva, di pericolosa "controcorrente", ebbe le note vicende e vicissitudini, ma alla liberazione si fece trovare pronto a Roma, con un giornale economico da lui fondato, validamente calibrato nel livello della sua specializzazione, con redattori in gran parte anticipatori del nuovo giornalismo economico, e sto parlando de Il Globo, con il quale sapeva di poter validamente ed autonomamente rappresentare l'Italia economica nascente. Credo che questo riconoscimento gli sia dovuto, da chi ricorda e vuol ricordare.
In una lontana sera di tanto inoltrata, con un giornalista da ricordare, Giacomo Guiglia, che Angelo Costa aveva condotto con sé da Genova alla Confindustria, passammo innanzi alla tavolata di un ristorante, dietro il Collegio Romano, si chiamava "Il buco" e forse ancora si chiama così. Barzini chiese a Guiglia il voto che la Confindustria dava al suo giornale e questi parsimoniosamente gli disse sei. Barzini quel sei lo definì dieci per la sua indipendenza. Non so se questo tipo di punteggio possa essere oggi altrettanto schietto, naturale, trasparente.
Ma qualcosa, pure in questa scia da più lontane radici, devo dire anche di Curzio Malaparte. La sua particolarità è stata sempre spiccata e militante. Ha avuto e rispettato canoni rigorosamente personalizzati. La stessa sua estetica ne era la proiezione, e ne determinava il fascino, di cui ad un certo punto doveva pagare anche il costo, con le dimissioni, con il confino, ecc.
Di lui ricordo che Mussolini, ricevendo nel '31 i giornalisti, lo prese sotto braccio per passeggiare lungo il salone del Mappamondo. Ma di lui ricordo soprattutto quanto disse a Minunni ed a me, innanzi all'Aragno di Roma, a commento del suo rientro dalla Finlandia quale inviato di guerra de Il Corriere: "mangiano cellulosa". Era il titolo di un'intera pagina di giornale che ci veniva sbattuto in faccia!
Ed in questa sequenza di nomi, che solo una memoria necessariamente selettiva perché deve alfine tentare di fare la sua dichiarazione doganale - chiamiamola così - fa scorrere in questo scritto, ecco pure Giovanni Ansaldo.
Una personalità di lunga e contraddittoria età politica: antifascista, sopravvenuto fascista contro i tempi quale commentatore di bollettini di guerra, post-fascista, alla direzione, con estrema parsimonia economica e pure di costume, de Il Mattino di Napoli. Di lui si deve ricordare tanto: scritti e pure, non sempre, intuizioni ed interpretazioni perenni. Credo che a lui, oltre che la penna, servisse anche il bastone. Non quello che si alternava con la carota. Ma il bastone che lo rassicurava nelle sue certezze: quelle vere. Quel bastone che ho ricordato altra volta serviva anche a Prezzolini, con il quale aveva tanto da dividere. E due ultimissimi tratti. Uno riguarda Irene Brin, che a me si rivolgeva dicendo che ero il suo direttore. Sì, direttore de La Gazzetta per i Lavoratori, fondata nel 1946 da Angelo Costa, che l'aveva voluta da Presidente della Confindustria, non per nascondere gli industriali e contrabbandarne il pensiero, ma per dichiararlo apertamente. Irene Brin era fra le collaboratrici fisse di questo giornale, recando ad esso la sua esperienza, la sua estrema elegante personalità, che sapeva anche essere didattica nei confronti delle classi che non erano inferiori ma competitive, anzi conflittuali, con quelle della cosiddetta borghesia. Che allora era intesa come spartiacque, ed ora rappresenta la società che ci è arrivata e quella che sta arrivando.
Taluni oggi la chiamano centro, che poi vuol significare nella dialettica partitica e politica il generalizzato ubi consistam: altra parola che si può aggiungere alla fortunata e fortunosa parola par condicio. Come si sa, oggi si ricorre al latino per rendere più gustose le promesse e le attese, sempre però soltanto politiche.
Ed infine, ecco il salernitano Mauri, il factotum de Il Corriere della Sera a Roma, durante l'ultimo fascismo ed il primo postfascismo. Era affascinato da Roma, ritenuta insostituibile nelle scelte della vita umana, dall'incombenza e pure dalla discrezione del lavoro che svolgeva, pur essendo tendenzialmente pigro. Aveva solo un'insoddisfatta aspirazione, che poi, conseguita, non avrebbe certamente praticata. Era quella di trovare alfine una piccola occupazione che non fosse degenerata, sì degenerata, in lavoro.
E questa era solo una piacevole ipocrisia verbale, con il fascino di poterla manifestare sul finire della sera, a Roma, in Piazza San Silvestro.
Che "vasto" programma, avrebbe detto De Gaulle. Ma con poco meno di mezzo secolo intervenuto nel frattempo, quale paradiso, più che perduto, inesistente.

Pure "decani", qualunque però, in cammino
Sin qui, dall'angolazione di un giornalista definito e definibile un "decano" (aggiungo qualunque) della categoria, che qualche anno fa si incontrò con un altro ben più verace decano della categoria, parlo di Alesiani, oggi ultra novantenne, ma sempre giornalista parlamentare. Questi, confrontando la mia età e la mia anzianità con le sue, ebbe a dire a me, zoppicante per conto mio, che avevo ancora tanto da camminare.
Il fatto però è che anche questa Italia, pure con i sopravvenuti 50 anni alle spalle, di cui parlavamo agli inizi, deve ancora tanto camminare, perché la società è tanto mutata, ma il sistema non ha fatto altrettanto.
Ce lo confermano o no questi tentativi di medaglioni o ricordi? Con il latino pur effervescente di questi giorni della par condicio ricordiamo che per gli anziani, almeno, c'è il motus infine velocior.


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