§ IL CORSIVO

TRE FATTI




Aldo Bello



Si può parlare - e scrivere - della Sicilia, e allargare il discorso all'intero Sud, senza lasciarsi irretire dalla retorica ciarliera e senza abbandonarsi all'esclusiva esemplarità di scenari da psicodramma che servono spesso, come dicono dalle nostre parti, a risolvere il resto di niente? E più esplicitamente: si può parlare - e scrivere - del Meridione continentale e insulare, delle sue antropologie culturali, delle virtù e dei vizi, cioè dei suoi culti formali e delle cronache che nel bene e nel male preannunciano, ma con cognizione di causa, per autentico vissuto, e dunque per esperienze e verifiche codificate e aggiornate, senza dar credito alcuno all'immaginario personale o collettivo, indigeno ed extraterritoriale, che - semmai - va dove lo porta il cuore, e qualche volta l'ignoranza e persino il livore, e non dove dovrebbe portarlo la ragione?
Si può. Anzi, si deve. La realtà, che anticipa sempre la fantasia più fervida, ci offre occasioni quotidiane di riflessione, di confronto e di inquietudine.
Ci sono luoghi che sembrano creati per convivere con la tragedia. Non si tratta del mistero dei "luoghi qualunque", ma di terre a loro modo speciali, che alternano tessere di profonda sensibilità e di svuotamento spirituale, di nobile affrancamento e di oscura schiavitù. Per questo il lutto si addice a quelle terre: perché, come ho già avuto occasione di scrivere, dove c'è molta luce l'ombra è più nera.
Il primo fatto. Viene arrestato Leoluca Bagarella, cognato del boss dei boss, Totò Riina. Com'è stato preso in trappola? Indirizzi, complicità, protezioni, abitudini erano state rivelate da un paio di pentiti. io non credo che, in questioni di mafia, c'entri il valore cristiano del pentimento. C'entra quello, molto pedestre, del tornaconto personale, che si chiama specificamente beneficio di pena. Dunque, i due fratelli Di Filippo sussurrano alcune cose all'orecchio del magistrato, e questi fa il colpo gobbo. E' vero: noi siamo cresciuti mandando a memoria i nomi dei Fratelli Bandiera e dei Fratelli Cairoli, ma i tempi sono proprio cambiati e oggi si parla - e si scrive - di ben altre fratellanze e famiglie. Omnia immunda immundis, verrebbe voglia di parafrasare. E tuttavia un ruolo i pentiti l'hanno avuto. Costoro determinarono la sconfitta delle Brigate Rosse e possono contribuire a distruggere le mafie. Pagando di persona. A Patrizio Peci fu ucciso un fratello, con un rituale macabro che ancora raccapriccia. Tommaso Buscetta si è visto far fuori quasi la totalità di parenti e di amici. A Nitto Santapaola hanno fulminato la moglie.
C'è una sorta di ambiguità nei giudizi che esprimiamo nei loro confronti, forse condizionati fra l'altro da quei "collaboratori di giustizia" - che son pochi, ma ci sono - i quali strumentalizzano l'istituto del pentimento, magari per rifilarci un paio di baci schioccati sulle guance di Riina da un Andreotti così schifiltoso che, per non stringere la mano a nessuno, abbracciava letteralmente, stringendole al petto, mazzette di cartelle vuote. Ma i pentiti veri, quelli meritano comprensione per i rischi che corrono e per le sofferenze che vivono. Così come meritano una nuova identità, un lavoro, l'aiuto e la protezione dello Stato. Ma lo Stato li protegge tutti, e li protegge per davvero? I fratelli Di Filippo, ad esempio: hanno avuto un encomio pubblico. Avevano appena concluso la soffiata giusta, Bagarella era già in galera, magistrati inquirenti e agenti della Dia avevano ottenuto un successo strepitoso. Allora, che bisogno c'era di mettere in piazza i loro nomi, sia pure per un solenne encomio di cui nessuno, e meno di tutti i Di Filippo, sentiva il bisogno? Il silenzio non sarebbe stato la miglior protezione? Perché un elogio così inopportuno: per sciatteria, per incauta euforia, per intrighi di potere? Non avremo mai una risposta a queste domande. Ma ne conosciamo perfettamente le conseguenze.
Cioè, è noto il secondo fatto. Il sentimento più diffuso tra gli italiani all'annuncio della cattura di Bagarella oscillava tra il sollievo per il buon esito dell'operazione e l'apprensione per le intricatissime genealogie mafiose. L'endogamia è il cemento delle falangi criminali organizzate, il matrimonio è il suggello di una fedeltà dovuta in primo luogo al clan, come garanzia speculare a un ferreo patto di sangue. Rientrano in questa paleolitica WeItanschauung la sacralità dell'istituzione familiare (e meglio ancora: familista), la severità con chi trasgredisce, la ferocia con chi tradisce.
E tutto questo ci porta a riflettere su quel particolare milieu rappresentato dalle donne dei boss, da quelle donne che coronano come angeli neri, come vestali della Cupola del tempio mafioso, i vertici della mafia. Così Vincenzina Marchese, moglie di Bagarella, è svanita. Di costei sono rimasti un enigmatico messaggio di addio e indizi che farebbero pensare alla sua morte: per suicidio o per omicidio. Vincenzina era la sorella della moglie di Riina, ma anche la sorella di uno che si è pentito in carcere, e per questa ragione il suo matrimonio era stato osteggiato proprio da Riina. Allora: si è uccisa per sottrarre suo marito all'ombra lunga dell'infamità; è stata assassinata da parenti stretti o da sicari bagarelliani dopo la cattura del marito; la sua scomparsa è stata una messinscena che le consente di gestire nell'ombra la famiglia, su ordini o segnali che le potranno pervenire dal marito?
Agata Di Filippo, sorella dei due "spiatori". Non è una donna qualsiasi. E moglie di Nino Marchese, un boss che sta scontando la bellezza di tre ergastoli; è cognata di Vincenzina Bagarella, ma è anche cognata del sicario Giuseppe Drago e del pentito Giovanni Drago. Ha tentato il suicidio perché non poteva sopportare il disonore. Ma non le pesava la parentela specializzata in stragi continue, le pesava il tradimento dei fratelli.
La madre di Agata (e dei due Di Filippo). Appena la figlia era dichiarata fuori pericolo, grazie ad un'energica lavanda gastrica, correva al telefono (non avendo ancora il fax) e chiamava l'Ansa, poi si concedeva ai colleghi della Rai: "Sono infami e cornuti, mi sembra un sogno cattivo, quelli non li ho fatti io, mi fanno schifo". E stato il rito pubblico e formale del ripudio in funzione della propria salvezza? E' stato il pirandelliano gioco dell'essere e dell'apparire? No. E no, perché qui una risposta c'è. Nell'ambiente che le circonda, e nello stesso tempo le esclude e segrega, è difficile per queste donne rompere il cerchio dello scialle nero che le assedia. Della nefanda religione della mafia, che pure conta eretici e transfughi, esse restano tenaci, patetiche custodi.
Sono le donne eccessive delle mafie, impegnate a tenere il conto di padri, mariti, fratelli, cognati, cugini, amici, separando di netto - silenziose e pennute - gli uomini dagli infami. Sono le tragiche donne delle mafie, epigoni di Elettra, che difficilmente possono eludere la logica luttuosamente esatta, ironica, oscena, del loro destino. Sono le cupe donne delle mafie, che pregano i santi e covano i figli che poi affideranno all'iniziazione e al noviziato sanguinario di cosche e di 'ndrine, di paranze e di santisterie.
A costoro - è il terzo fatto - avrà probabilmente pensato Sebastiano Vassalli nel momento in cui, commentando la cattura di Bagarella, ha detto: " Vittoria sulla piovra? Figuriamoci! La cultura siciliana, impregnata com'è di omertà e di sentimento mafioso, comunque e sempre, ineluttabilmente, non può che generare mafia. Di conseguenza: a chi vuole governare l'Italia e, al suo interno, quelle regioni del Sud che, a causa della loro secolare cultura, producono mafia, non si presentano che due soluzioni: il filo spinato, dentro cui costringere quelle popolazioni, oppure il patteggiamento, alla maniera andreottiana, con l'organizzazione mafiosa".
Gli ha risposto Vincenzo Consolo: "Queste affermazioni, (talmente paradossali da apparire finanche comiche), non vengono da una persona ignorante [ ... ] ma da un intellettuale che trova credito e ospitalità presso giornali ed editori di sinistra: la cultura di massa, ahinoi, genera ormai ambiguità ed equivoci infiniti, genera scrittori, intellettuali come Vassalli. I cui interventi sui giornali, esplicitando il suo pensiero (chiamiamolo così) e il suo sentimento, non meritano replica o commento".
Consolo parla di "malinconica stanchezza" nel chiarire per la milionesima volta che le mafie non vengono fuori dai cromosomi, non sono inscritte nel Dna delle popolazioni della Sicilia, della Calabria, della Campania e ora anche della Puglia. Esse sono nate in quelle regioni e vi si sono sviluppate in misura abnorme "per precise responsabilità storiche, per il volere di poteri politici che dalla mafia traevano vantaggi, per la conseguente, colpevole latitanza degli organi dello Stato".
Pertanto, per chi abbia intelligenza chiara delle cose di casa nostra, è antistoricistico coprire la popolazione di una città, regione o Paese, sotto la coltre di un'unica, astratta cultura.
Lo stesso Marx ha insegnato che si deve fare un'analisi di classe e distinguere cultura da cultura. Ebbene: in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, alla fine dell'Ottocento, col diffondersi del socialismo, negli zolfatari, nei contadini, negli artigiani, nacque una coscienza di classe, vale a dire una nuova consapevolezza storica, che abbandonò quella - primitiva - della rassegnazione e dell'omertà. Emerse una cultura antimafiosa, in nome della quale un'infinita schiera di capilega e di sindacalisti, di contadini, di minatori, fino al primo dopoguerra, quando esplose il più complesso pensiero dei grandi meridionalisti di fede socialista e liberale, lasciarono sui feudi la vita sotto i colpi della lupara e del coltello; e così nel secondo dopoguerra, quando la terra "tremava" e il fragile stelo della democrazia resisteva agli assalti di bore opposte e ugualmente violente, e quando masse enormi di braccianti, libere dai vincoli drammatici del clientelismo, furono scacciate, espulse dal tessuto economico e sociale, e costrette ad emigrare; quando molti intellettuali, disorganici al potere, ma anche al contropotere, dovettero fare le valige e trasferirsi al Nord.
Si chiede Consolo: "Con il frantumarsi dell'utopia socialista, con l'avvento della cultura di massa cos'è successo? E' successo che alcuni intellettuali rimasti nell'Isola, che si erano formati in quella cultura antimafiosa che mai si è estinta (marxiana o semplicemente liberale), che credevano, vale a dire, nei valori della democrazia, nella giustizia e nelle leggi dello Stato, alcuni che nella magistratura o nelle forze dell'ordine avevano ruolo e responsabilità, abbandonando le inerzie o le connivenze dei loro predecessori, hanno agito secondo questa cultura e hanno pagato con la vita il loro civile impegno".
Quella cultura antimafiosa, di civiltà altissima (e per tanti versi mai attinta altrove nel resto del Paese), ha espresso scrittori senza i quali la civiltà letteraria italiana sarebbe più che dimezzata; una foltissima schiera di narratori e di poeti di frontiera, d'esilio, d'emarginazione; e un'altra di meridionalisti, di saggisti, di memorialisti: tutti esponenti di una cultura - in potenza e in atto - che nessuno può rimuovere e meno che mai negare, quasi fosse stata espressa "in regioni intonse", da meridionali irrimediabilmente barbari, "malvagi", in grado di esprimere soltanto 'pagine
omertose", al modo di quelle di Sciascia, tutte "interne al fenomeno mafioso". Dio solo forse sa che cosa significhi "letteratura interna al fenomeno mafioso", come ha scritto Vassalli. Siamo tutti omologati alle corti dei goodfathers di Mario Puzo? Chissà che ne pensa l'amico Giancarlo Caselli, uomo del Nord che ha capito del Sud, lavorandovi anche duramente, cose che molti altri non intendono neanche immaginare.
Noi, per parte nostra, riteniamo che costoro non abbiano il dovere - e tanto meno il potere -dell'intelligenza. Consolo, per parte sua, ricorda che se lo stesso Vassalli avesse memoria, dovrebbe avere anche il pudore di non nominare Sciascia invano: "Curando per Einaudi l'edizione scolastica de "Il giorno della civetta", si premurava infatti, all'insaputa dell'autore, di "adattare" il testo, censurandolo". Da questi pulpiti vengono le prediche. Disinteressate?


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