§ La geografia fantastica da Omero a Tolkien

L'Isola che non c'è




Ada Provenzano, Flavio Albini, Gianna Macchia
coll.: G. Bonsegna, Rovai Ricciotti, O. Frattini



Perché uno scrittore ricorre all'invenzione di una geografia fantastica? I paesi immaginari sono soprattutto luoghi deputati del mito (Omero, Platone ... ) e del "diverso", cui si accompagna puntualmente il concetto di "mostruoso": gli Arimaspi monocoli e i Mirmicoleoni di Erodoto, per metà leoni e per metà formiche; i Blemmi africani di Plinio, antropofagi senza testa; i Dondumiti, i ciclopi orientali di John Mandeville, che nel Trecento descrisse il mondo senza muoversi di casa. O ancora, possono offrire l'occasione per fare il verso al sapere accademico (Rabelais), o attingere al verosimile positivista alla Jules Verne, o presentarsi dichiaratamente fiabeschi. Per un Salgari che ipotizza che nel Trecento la Repubblica di Genova avesse scavato un canale sotterraneo da Lerici al Brenta per prendere di sorpresa Venezia, quanti maghi e streghe e gnomi, quanto fantastico allo stato puro: le contrade di Ariosto, la Arkham di Lovercraft, città di culti magici, la Brocéliande degli elfi bretoni (Tennyson), la foresta di Fangorn (Tolkien), le isole fatate dell'Amadigi di Gaula, le "remote nazioni" di Swift, la shakespeariana Isola di Prospero, nella Tempesta.
Ma la categoria più fittamente rappresentata è quella della metafora filosofica, politica ed esistenziale (Buzzati del Deserto dei Tartari). Approfondisci un poco il geografo immaginario, e troverai l'utopista che fa sul serio (Campanella, Moro), l'uomo deluso che lancia alla società del suo tempo strali satirici e apologhi nutriti di ironico dissenso, che cerca una rivincita sulla pagina o accarezza profezie che non tanti hanno voglia di ascoltare.
Qui l'intento didascalico è polemico e palese, ma i messaggi e le ideologie sono in guerra tra di loro. Se l'Armonia di Fourier è regolata da un'organizzazione ferrea che tutto prevede e dispone, la Balnibarbi di Swift va in rovina proprio per un eccesso di progettazione, per un peccato di superbia intellettuale (ciò non toglie che nella Terra degli Huyhnhnm dello stesso Swift i saggi cavalli si dedichino con successo al culto della ragione, dell'amicizia e della benevolenza).
Nell'Erewhon di Butler si studia l'Ipotetica, perché insegnare quello che già esiste significa fornire un'idea angusta dell'universo. Ma l'Isola della Filosofia dell'abate Balthazard (1790) non ha un governo perché i presunti sapienti non riescono a mettersi d'accordo su quale sia il sistema migliore.
Anche nei luoghi fantastici la scienza si distingue più per le sue malefatte che per le sue virtù liberatrici. A London-on-Thames, città africana scavata nella roccia, uno scienziato pazzo ha creato dei gorilla che parlano inglese e si credono la reincarnazione di personaggi storici del XVI secolo (Burroughs). Nel sovchoz del Raggio Rosso un inventore crea torme di mostri affamati, prolifici e distruttivi (Bulgakov in Le uova fatali). Nella Mechanopolis di Unamuno i robot cacciano gli uomini: e questo è anche il programma della Prima Internazionale dei robot di Carel Capek. Nell'Isola di Noble, il dottor Moreau di H. G. Wells combina incredibili pasticci di ingegneria genetica.
L'esperienza storica sembra insomma ammonire i geografi immaginari a non indulgere all'ottimismo. Dove trovare, se non la beatitudine, almeno un rifugio decente? Non certo nei cupi continenti sotterranei inventati a getto continuo da Burroughs. Forse nell'Euphonia di Berlioz, la cittadina interamente consacrata alla musica, oppure nella Mahagonny di Brecht, città di erotiche delizie, o nel Regno di Oz, sede di un matriarcato provvido e assistenziale. Per chi ami invece la discrezione dei purgatori, c'è la Flatlandia di Abbot, paese di pura geometria, dove le donne sono linee rette, i borghesi dei triangoli equilateri e i professionisti dei pentagoni. O la Terra del Presente intravista dal Gordon Pym di Poe, dove gli abitanti sono privi di memoria e ogni istante è nuovo e perfetto. E infine, in virtù delle contraddizioni dell'uomo, c'è il Granducato dove, secondo E.T.A. Hoffmann, si aggira il filosofo Gatto Murr: là gli abitanti passano il tempo a sdoppiarsi nei loro contrari. Trenta secoli di letteratura immaginaria ci forniscono tutto e il contrario di tutto, fino ai paesi-contro e ai mondi alla rovescia, nei quali possiamo viaggiare sorridendo, magari, ma in qualche modo riconoscendoci.

Continenti scomparsi Continenti futuri
Scriveva Arturo Uccelli in Patria e Colonie, rivista della Dante, del gennaio 1913: "Sin dalla puerizia c'insegnarono che le parti del mondo si riducono a cinque [ ... ]. Ma l'enumerazione progressiva oggidì potrebbe fare una grinza poi che i più recenti viaggi polari sembrano assicurarci sull'esistenza di due vasti continenti glaciali e deserti che la più naturale convenzione ci fa denominare Artide e Antartide. Disgraziatamente, ci vorranno ancora molti anni, e numerosi viaggi, prima che i geografi possano tracciare approssimativamente il profilo di queste immense regioni fino a ieri, ed in gran parte anche tutt'oggi, ignote [ ... ]. L'immensità della notte polare che dava impeti lirici all'anima nordica di Fritjof Nansen, l'alterno avvicendarsi delle aurore boreali, lo scroscio degli icebergs, il disgelo ed il fragore dei ghiacci cozzantisi alla deriva saranno i principali motivi che si seguiranno in tali descrizioni. E i solitari viandanti dei continenti nuovissimi avranno la monotonia del tempo interrotta dalle strida dei gabbiani e delle procellarie, e dagli schiamazzi iterati delle viscide foche e dei trichechi bidentati".
Nessuno, concludeva Uccelli, "neanche i seguaci del barnuismo americano, sempre in attesa di novità da sfruttare", oserà "piantare qualche stazione climatica in quelle inospitali regioni".
E mai profezia fu più sbagliata.
Per due continenti ritrovati, uno che era scomparso, Atlantide, suscitava in quello stesso torno di tempo uno straordinario interesse. Fu Platone, nei Dialoghi di Crizia e di Timeo, il primo a parlare dell'esistenza di una terra oltre le Colonne d'Ercole. E l'esistenza relativamente recente, cioè in epoca quasi storica e non solo geologica, venne sostenuta da Platone col fatto dei greci che a suo tempo dovettero subire le conseguenze di un'invasione proprio da parte degli Atlantidi. Dell'Atlantide misteriosa Platone offre una descrizione: era una regione più vasta dell'Asia e della Libia messe insieme; era una delle più belle contrade dell'universo, l'oro brillava in tutti i suoi templi; le sue foreste vastissime fornivano legni da costruzione in abbondanza; i suoi abitatori, governati da novemila anni dai discendenti di Nettuno, vivevano felici d'una vita sobria di virtù e di religione. Solo quando lasciarono i lavori agricoli per darsi alla navigazione e ai commerci, perdettero la grazia degli dèi. E quando, presi dal desiderio di conquista, sottomisero le isole vicine, e tutta l'Africa fino all'Egitto, e corsero il Mediterraneo con i loro navigli, giungendo sino alla Tirrenia, gli Atlantidi incorsero nell'ira di Giove, che fece inabissare tutte le loro terre nell'Oceano. Altre, scarne notizie sul continente inabissato si hanno nell'Odissea, in alcuni brani di Euripide, nella Teogonia di Esiodo. La ipotesi di Platone fu accettata anche da Plinio e da Strabone.
E' innegabile che nella grande varietà di ipotesi avanzate in tempi più recenti ve ne siano alcune in antitesi con quella generale: così Latreille identifica l'Atlantide con la regione persiana; Rudbek, spinto forse da spirito nazionalistico, la intravede nella Scandinavia, dove in effetti giunsero anche i fenici nei loro lunghi viaggi marittimi; De Baer riconosce l'Atlantide fra le dodici tribù di Israele e ritiene che l'inabissamento corrisponda alla distruzione di Sodoma e Gomorra; Germain parla di una terra più o meno estesa nell'Atlantico; Buache, considerando l'ininterrotto bassofondo oceanico tra il Capo di Buona Speranza e il Brasile, la colloca nell'area equatoriale-australe; MeCulloch vede nelle numerose isole dell'Arcipelago delle Antille le cime più elevate delle catene montuose appartenenti all'antica terra sommersa. Alcuni la ritenevano più vicina all'Europa che all'America, e la identificavano di volta in volta nelle Azzorre, nelle Canarie, nelle Isole del Capo Verde. Un'ipotesi che ebbe molta fortuna è questa: quando gli spagnoli occuparono le Canarie, queste isole erano abitate dal popolo dei "Guanchos", oggi scomparsa, e che allora conservava usi simili a quelli degli egiziani, di alcune genti dell'America e del Caribe; non solo, ma parlava una lingua, la cui grammatica e il cui lessico avevano numerose analogie con la lingua egizia e mesosud-americana.
Germain notava che Madeira, le Azzorre, le Canarie e le Capo Verde riposano tutte su un medesimo zoccolo di natura sedimentaria e di basimetria uniforme, così da farlo ritenere un bassopiano. Molti caratteri faunistici delle isole sono comuni a quelli dell'Africa e della Spagna, del Marocco e dell'America centro-meridionale. Per lui, dunque, l'Atlantide sorgeva qui. Ma perché venne sommerso?
Diodoro Siculo riferisce che in tempi remoti il Mar Nero era chiuso, come del resto il Mediterraneo. Il continuo accrescersi per via dell'acqua portata dai fiumi che sfociano nel Mar Nero produsse uno straripamento che originò il Bosforo e i Dardanelli. L'irruzione di quest'acqua creò un'ondata lunga che spezzò le Colonne d'Ercole e inabissò l'Atlantide. Lo stesso autore parla del gran lago situato all'interno della Libia, il Tritonide, che si prosciugò per i terremoti che squarciarono il suo letto. Per questa ragione molti autori ritengono che la regione dei monti Atlante e l'Algeria fossero circondate una volta dal Mediterraneo e da questo immenso lago sahariano. Così l'Atlantide resta identificabile con le terre dell'Occidente africano.
Gli arabi chiamano il Sahara "Bahr-bilâmâ", cioè oceano senz'acqua. Alcuni geologi ritengono che gran parte di questo deserto non sia altro che il letto di un enorme lago salato, poi disseccato: le sue acque irruppero nell'Atlantico, coprendo le terre che vi si trovavano. Bory de St. Vincent limita il continente sommerso alla zona fra le Azzorre, Madera, le Capo Verde e le Canarie.
Ultima ipotesi, quella dei nostri giorni. L'isola di Santorino, l'antica Thera, segna il limite esterno meridionale delle Cicladi, nell'Egeo. E' vulcanica, ma dopo l'esplosione il suo vulcano si è disintegrato, non esiste più, ne emerge dal mare solo una parte: è un relitto geologico. Prima del disastro i suoi marinai come tutti verso gli scali e gli empori del tempo. Li celebra un policromo affresco di 3500 anni fa, ora al museo di Atene. Vi è rappresentata l'isola, con una flotta di navi che vanno da una città all'altra, salutate da folle di persone. Il pittore ha rappresentato le navi addobbate a festa e cittadini di riguardo seduti all'ombra di baldacchini posti al centro delle imbarcazioni. Questo affresco, scoperto nel 1972 sotto le ceneri che coprono i resti del villaggio di Akrotiri, raffigura forse una processione regale in mare. A Thera-Santorino o Santorini si viveva in pace, e il vulcano era ritenuto un gigante addormentato. Ma i vulcani che sembrano morti possono riservare sorprese terrificanti. Infatti, nel 1460 a.C. nelle falde sottomarine di Thera si aprirono fessure per un violento sisma: l'acqua del mare, entrata nel cratere, provocò l'esplosione. I segni di quella morte non annunciata sono pietrificati nelle convulsioni della lava che emerge in infinite schegge e lame dalle acque del golfo interno dell'isola: la scogliera di Nea Kameni, conetto vulcanico ancora parzialmente attivo, dagli anfratti che lo tagliano in tutti i sensi si levano vapori, fumarole, gas che indicano come viva tuttora -nel profondo abisso - palpitante materia geologica.
Il dramma di Thera ispirò una delle vicende più popolari della mitologia, la lotta tra Efesto, dio del fuoco, e Poseidone, dio del mare. E non a torto, perché la rovina apportata dal vulcano e dall'acqua fecero retrocedere il tempo di mezzo millennio. La cenere vomitata dall'esplosione salì a 45 chilometri di altezza e ricadde soffocando la vita per un raggio di 500 chilometri, raggiungendo Creta, Israele, la Siria, l'Egitto. Nel "Libro dell'Esodo" è scritto di "quella notte paurosa che non aveva fine". Forse in quel momento gli ebrei prigionieri del faraone fuggirono, diretti verso la terra promessa.
La morte di Thera segna l'inizio della fine per l'intera civiltà fiorita nel mondo egeocretese. L'onda devastatrice, alta più di 30 metri, investendo la costa settentrionale di Creta, si abbatté sulle città in riva al mare, Cnossa e Malia. Pochi minuti dopo raggiunse Rodi, e poi Cipro. Thera, in quel momento, si era trasformata da isola rotonda in un rudere bruciato che emergeva dal mare come una falce di luna.
Una tra le infinite ipotesi della tragedia riporta alla leggenda di Atlantide. Con ogni probabilità, ispirò proprio Platone e i suoi Dialoghi: "Oltre quelle che ancora oggi si chiamano Colonne d'Ercole si trovava un vasto continente detto Poseidonis o Atlantis, che misurava 3.000 stadi di larghezza e 2.000 di lunghezza (vale a dire circa 200.000 kmq, Ndr) e da questo si poteva andare su altre isole e da quelle isole ancora alla terraferma che circonda il mare così chiamato". Una meravigliosa terra che, secondo Platone, si inabissò mentre dal cielo cadeva una pioggia di fuoco. Atlantide come Thera?


Di un altro continente sprofondato abbiamo notizia, anche se esso non ha l'aureola leggendaria di Atlantide. Il Madagascar sembra un'isola tutta appartenente al continente africano. In realtà, è diversa per costituzione, fauna, flora ed etnografia. Come se il braccio di mare che la divide dall'Africa fisicamente, la separi anche sotto ogni altro punto di vista. Le tribù dell'isola non appartenevano alla stirpe camita: sono malesi, e tanto i Sakalawa che gli Howa avevano usi e costumi simili più a quelli dell'India e della Malesia che non a quelli delle contigue genti africane.
L'Oceano Indiano, nella parte che va dalla costa orientale dell'isola al Golfo del Bengala, presenta un fondo d'altezza uniforme, molto simile al bassopiano atlantico, e che secondo alcune ipotesi rappresenta gli avanzi del continente che una volta emergeva da quell'immensa plaga marina. E il Madagascar faceva parte di questo continente, che gli uomini di scienza chiamano "Lemuride", perché popolato da numerose colonie di scimmie.
Ma i continenti e le terre non scompaiono soltanto. Emergono, anche. Non per cataclismi subitanei, ma per una costante azione vulcanica (dalle parti della Sicilia, un secolo fa, emerse un'isola; si discusse accanitamente sui diritti di proprietà, fino a che l'isola scomparve, ingoiata dal mare che l'aveva generata). Si ritiene che con il passare dei secoli il Pacifico creerà un nuovo continente, che all'inizio del nostro secolo ebbe già il nome di battesimo: Pacifide.
Scriveva Uccelli: "Nelle numerose isole vulcaniche costituenti la cosiddetta Catena del Fuoco, l'attività dinamica interna è continua e possente. Ultimamente presso l'Alaska è comparso l'intiero arcipelago delle Isole Bogolow, le quali alla ultima seduta della Società Britannica per l'Avanzamento delle Scienze vennero considerate come le annunziatrici del futuro continente. Nella zona oceanica che va dal Giappone alle Filippine e dalle Aleutine a Borneo, venne da tempo notata una straordinaria attività endogena, così che ben 1071 terremoti si registrarono nel breve periodo di 20 mesi. [ ... ]. Forse la Pacifide desterà l'ammirazione e sarà l'oggetto di studio dei nostri lontanissimi nipoti, quando non sia anche l'argomento di contese fra il Giappone e gli Stati Uniti futuri".

Utopia e poesia, narrativa e scienza
Nello Stato ideale di Platone esistono tre classi di cittadini: i magistrati o reggitori, i guerrieri e i produttori. Esse corrispondono alle tre anime dell'individuo e sono governate dalle stesse virtù, cioè rispettivamente dalla sapienza, dalla fortezza e dalla temperanza. Virtù suprema è la giustizia, in forza della quale classi e individui adempiono al compito loro proprio, senza usurpare le attribuzioni altrui. La convivenza ordinata esige il superamento degli egoismi: le donne, i figli e i beni delle due classi superiori devono quindi essere messi in comune.

La direzione dello Stato spetta ai filosofi, ai quali deve essere impartita una speciale educazione. Dopo un'analisi delle forme storiche dello Stato e delle varie possibili degenerazioni dei modi di reggimento e dopo la celebre condanna dell'arte (i poeti devono essere espulsi dalla Repubblica), il dialogo si chiude col mito di Er Armenio, cioè del guerriero tornato in vita dopo la morte, il quale ha visto come nei luoghi d'oltretomba le anime dei giusti vengano premiate e come le altre siano dopo il giudizio avviate a nuove sorti.
Criticata la situazione politico-sociale dell'Inghilterra dei primi anni del secolo XVI, Tommaso Moro presenta i costumi e gli ordinamenti dell'Isola di Utopia, dove la proprietà privata è abolita: lo Stato cessa così di essere una "congiura dei ricchi" e diviene lo strumento dell'uguale benessere di tutti. Gli utopiensi disprezzano i metalli preziosi, prendono i pasti in comune, sorteggiano le loro case ogni dieci anni, lavorano sei ore al giorno e dedicano il tempo libero all'elevamento dello spirito. Le cure ospedaliere sono uguali e gratuite per tutti: l'eutanasia è ammessa, anzi consigliata. Nell'Isola si praticano liberamente varie religioni, ma la maggior parte degli utopiensi crede in un unico principio divino diffuso in tutto l'universo.
Tommaso Campanella compose La città del sole durante i lunghi anni di carcere. In qualche modo l'opera si rifà alla Repubblica di Platone: è l'esaltazione di una perfetta comunità che vive nell'Isola di Taprobane (odierna Sri Lanka) sotto la direzione di Hoh, il Metafisico, assistito da tre capi, Pon, Sin e Mor, che si occupano rispettivamente dell'esercito, degli studi, della generazione e puericoltura. La società vive comunisticamente, perché non vi è ammessa la proprietà privata. Non esistono servi e padroni, i bambini sono educati da appositi maestri Fin dalla più tenera età, i matrimoni sono preparati da una commissione perché i governanti mirano soprattutto al miglioramento morale e fisico della popolazione.


Nella Nuova Atlantide, Bacone propone un modello di comunità umana ordinata secondo ragione. La Nuova Atlantide (l'antica essendo stata inghiottita dal mare) è un'Isola del Pacifico abitata da un popolo cristiano, che vi si è rifugiato per dedicarsi all'approfondimento della conoscenza della natura e all'utilizzazione pratica del sapere acquisito. Al viaggiatore sbarcato per caso nell'Isola un saggio mostra le meraviglie della "Casa di Salomone", sorta di Accademia delle Scienze, cervello e centro motore della ricerca. Ci sono torri alte tre miglia per l'osservazione meteorologica, allevamenti sperimentali, centri di fecondazione artificiale, istituti per lo studio della termologia, dell'ottica, dell'acustica, dei fenomeni olfattivi. Gli abitanti dispongono di macchine per volare e di navi subacquee. Dei progressi del sapere del resto del mondo essi vengono a sapere da confratelli-spie spediti nei vari continenti in incognito. Il racconto utopistico restò incompiuto.
Passiamo alla poesia. Se Dante invita: Guido Cavalcanti e Gianni Lapo su un vascello "chad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio ... ", è Guido Gozzano a celebrare in La più bella la terra dei propri sogni:

Ma più bella di tutte l'Isola Non-Trovata:
quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino
il Re di Portogallo con firma suggellata
e bulla del Pontefice in gotico latino.

L'Infante fece vela pel regno favoloso,
vide le Fortunate: Junona, Gorgo, Hera
e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso
quell'isola cercando...
Ma l'isola non c'era.

Invano le galee panciute a vele tonde,
le caravelle invano armarono la prora:
con pace del Pontefice l'isola si nasconde,
e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.

L'isola esiste. Appare talora di lontano
tra Teneriffe, e Palma, soffusa di mistero:
"... l'Isola Non-Trovata!". Il buon Canariano
dal Picco alto di Teyde l'addito al forestiero.

La segnano le carte antiche dei corsari.
... Hifola da trovarfi? ... Hifola pellegrina?...
E' l'isola fatata che scivola sui mari;
talora i naviganti la vedono vicina...

Radono con le prore quella beata riva:
tra fiori mai veduti svettano palme somme,
odora la divina foresta spessa e viva,
lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...

S'annuncia col profumo, come una cortigiana,
l'Isola Non-Trovata ... Ma, se il piloto avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell'azzurro colar di lontananza...

E il testo fu ripreso dal cantautore Francesco Guccini:

"Ma più bella di tutte l'isola non trovata / quella che il re di Spagna s'ebbe da suo cugino / il re di Portogallo con firma suggellata / e bulla del Pontefice in gotico latino. Il re di Spagna fece vela / cercando l'isola incantata / però quell'isola non c'era / e mai nessuno l'ha trovata.
Svanì di prua dalla galla / come un'idea; come una splendida utopia / è andata via e non tornerà mai più. Le antiche carte dei corsari / portano un segno misterioso, / ne parlan piano i marinari / con un timor superstizioso. / Nessuno sa se c'è davvero / od è un pensiero; / se a volte il vento ne ha il profumo, / è come il fumo che non prendi mai!
Appare a volte avvolta di foschia / magica e bella, e se il pilota avanza / sui mari misteriosi è già volata via / tingendosi d'azzurro color di lontananza... / Il re di Spagna fece vela / cercando l'isola incantata ... ".
E dal Sentimento del tempo Ungaretti estrapolò la sua "Isola":

A una proda o ve sera era perenne
di anziane selve assorte, scese,
e s'inoltrò
e lo richiamò rumore di penne
ch'erasi sciolto dallo stridulo
batticuore dell'acqua torrida,
e una larva (languiva
e rifioriva) vide;
ritornato a salire vide
ch'era una ninfa e dormiva
ritta abbracciata a un olmo.

In sé da simulacro a fiamma vera
errando, giunse a un prato ove
l'ombra negli occhi s'addensava
delle vergini come
sera appiè degli ulivi;
distillavano i rami
una pioggia pigra di dardi,
qua pecore s'erano appisolate
sotto il liscio tepore,
altre brucavano
la coltre luminosa;
le mani del pastore erano un vetro
levigato da fioca febbre.

Ha scritto Guglielmo Petroni che la poesia è, come tutta l'arte, immagine della vita e del mondo, riflesso filtrato nel quale si può, molto spesso, trovare la rivelazione di ciò che non sappiamo leggere o ricavare non solo dalla realtà, ma addirittura da una verità: "Un lume d'amore si può riscontrare in un accento di odio o di carità, di violenza o di pacificazione: come giustificare la indiscutibile contraddittorietà? Noi possiamo solo rispondere che, nella economia espressiva, nelle metafisiche delle cose rappresentate, le immagini contraddittorie, i valori in conflitto, in realtà non rappresentano più un conflitto od una contraddizione; essi nella poesia non sono altro che parola, linguaggio, suggestione, insomma simboli della presenza dell'uomo e delle cose, della natura, astratti completamente da ciò che è il loro peso specifico nella realtà".
La poesia ha in sé, dunque, il "mistero di qualunque luogo", è il sito ideale dell'immaginario (da uno scoglio a un giardino, da un albero a un grumo di case, a una terra isolata o sconfinata): è la quasimodiana "città sospesa a mezz'aria" che per il poeta resta "ultimo esilio": mentre "gli astri seguivano precisi / ignoti cammini in curve d'oro / e le cose fatte fuggitive / mi traevano in angoli segreti / per dirmi di giardini spalancati / e del senso di vita ... ".
Dov'è, dunque, Shangri-là? Dove sono i luoghi di Shahrazàd? Quali mari scorrono Sindbad e il Bateau ivre? Quali microcosmi immaginano i poeti dell'haiku, quali macrocosmi leggono i poeti-sacerdoti atzechi?
Quali "rosei confini" varca la luna di Saffo, quale "confine d'argento" canta Lorca, oltre "la terra senza un giunco, forma pura / chiusa nell'avvenire"? I poeti amano le proprie intriganti geografie, vivono dentro le loro coordinate: "Io che ti amavo, Spoon River, / e anelavo al tuo amore, / ti appassii sotto gli occhi, Spoon River - assetata ... ", scrive E.L. Master sulla vita segreta del suo villaggio di morti (Lewistown?) che fa rivivere nella memoria di duecento epitaffi. Anche queste tombe formano un'isola, o un arcipelago, emerso nella lorchiana "amara acqua/ dei mari" della vita.
E c'è poesia anche nella narrativa, Mille e una notte a parte, terre promesse a parte, paradisi perduti e paradisi da Cantico dei Cantici sognati a parte.
Butler Samuel, vittoriano, scrive Erewhon; or Over the Range: Erewhon, ovvero dall'altra parte delle montagne. Erewhon è anagramma di "nowhere", in nessun luogo. Il libro è un curioso adattamento alla vita moderna dell'Utopia di Moro e dei Gulliver's Travels, ed è punto di partenza di una letteratura che culminerà in 1984 di Orwell. Insomma, un precursore.
Come Melville, la cui opera incontrò l'indifferenza, e in molti casi l'ostilità dei contemporanei. Venti anni prima che Twain visitasse le Isole Sandwich, quaranta prima che Stevenson approdasse a Samoa, settanta prima che F. O'Brien scrivesse White Shadows in the South Seas ("Pallide ombre dei mari del Sud") e F.W. Murnau partisse dalla Germania per girare un film intitolato "Tabù", egli scoprì gli incanti delle isole del Pacifico e li evocò nelle sue pagine con altrettanta intensità di emozione che Gauguin nella sua pittura. Egli si staccò dalla folla dei superficiali viaggiatori, o maldestri imitatori, anche per aver superato il fascino ell'esotismo, riconoscendo in quegli "Incanti" soprattutto un rapporto meraviglioso tra l'uomo e la natura, assolutamente intesa. Così nel suo capolavoro Moby Dick compose il poema epico della coscienza moderna, raffigurata nella forsennata caccia alla Balena Bianca come una vicenda dello spirito umano.
Melville si era imbarcato a Fairhaven, nel New Bedford, sulla baleniera Acushnet diretta verso i mari del Sud, e vi era rimasto diciotto mesi, raccogliendo quell'esperienza che, insieme con altre più complesse e di ordine spirituale, avrebbero formato il nucleo di quel romanzo. Fra le esperienze trascorse, l'arruolamento sulla fregata americana United States, che gli darà ispirazione per White-Jacket, "Giacchetta Bianca o del mondo d'una nave da guerra", il libro che, citato durante una seduta decisiva del Congresso, contribuì all'abolizione della "flogging law", la fustigazione, ancora molto in uso sulle navi americane. Un effetto analogo lo aveva già provocato con la sua animosa denuncia del contegno dei missionari e degli sfruttatori bianchi nelle isole dei mari del Sud contenuta in Omoo e Typee.
Moby Dick era stato accolto con sfiducia e persino con irritazione, perché i lettori si aspettavano un "normale" romanzo d'avventura. Egli invece aveva voluto penetrare più a fondo quella realtà fantastica che aveva affascinato i sogni della sua giovinezza. Punto di passaggio dalla pura avventura al significato dell'avventura umana, Moby Dick non poteva esser compreso dai contemporanei. In esso la realtà fantastica (nell'epopea marina delle baleniere della Nuova Inghilterra a caccia di cetacei sparsi nei mari artici) si sprigionava da un grande fondo di pensiero: la superficie visiva di forte e immediata emotività è fusa con un'intensa allegoria spirituale.
Melville aveva il coraggio di non fermarsi alla sicura attrattiva di un mondo avventuroso, ma si inoltrava verso gli abissi marini, presi a simbolo dell'umana coscienza, per esplorare le profondità e ritrovarne la forza primitiva. Dovevano passare circa tre quarti di secolo prima che un'opera simile fosse riletta dalla critica e valutata come uno dei più alti prodotti della civiltà letteraria americana. Si scoprì allora (da Newton Arvin, fra gli altri) che "la struttura narrativa di Moby Dick, il viaggio o peregrinazione marina, è profondamente allusiva a poemi come l'Odissea o l'Eneide; e il suo movimento narrativo non è da situazione a situazione, come in un dramma, ma da partenza ad arrivo, da calma a tempesta, da battaglia a tregua, come in quei poemi, o come nell'Iliade o in Beowulf. E in generale la tessitura del libro non è serrata, compatta, concentrata come quella di una tragedia, ma ampia, libera, sciolta, spaziosa e aperta come quella di un poema eroico".
Sulla formazione di un altro americano, Mark Twain, ebbe un'influenza decisiva il carattere dei genitori, ciascuno dei quali era a suo modo un visionario: spirito religioso legato profondamente al culto calvinista, la madre; spirito avventuroso e agonistico, il padre, che per qualche tempo fu anche un vagabondo.
Trascorse l'infanzia in un'atmosfera di sogni esaltati, di pretesi rapporti con la vita ultraterrena e attese di eventi e di ricchezze straordinarie. Nato durante un'apparizione della Cometa di Halley, gli furono attribuite origini favolose, e per tutta la sua esistenza, ricca di imprevisti, di avventure inconsuete, egli stesso finì col credere ad una sua soprannaturale natura di "Visitatore da Altri Luoghi".
La dimensione lirica e fantastica si ha in The adventures of HuckIeberry Finn, ove la critica riconosce il vertice della sua arte. Il ragazzo protagonista rappresenta, non solo per lo sbalordito Tom Sawyar, la rivelazione autentica del mondo selvaggio da lui idealizzato e ricercato. Figlio di un ubriacone del villaggio, egli vive nei boschi, senza ritorni da escursioni a sfondo turistico, o dorme - moderna incarnazione del giovane Diogene - in una botte. L'avventura umana di questo personaggio di reietto, di paria, nella prospera e dinamica società americana, culmina nell'amicizia per Jim, uno schiavo negro che si associa al giovane bianco nella fuga dalla civiltà. Nello sviluppo del racconto, la zattera sulla quale affrontano le insidiose acque e la solenne maestà del Mississippi (Twain vi era stato pilota) porta i due fuggiaschi alle liriche scoperte del loro umano legame e della loro intimità con la natura. Un altro anticipatore, dunque, in un certo senso, dell'irrequietezza degli Hemingway, dei Kerouac e dei Salinger.
Kerouac, proprio lui. Quello di On the road, di Big Surl, di Maggie Cassidy, dei Vagabondi del Dharma, del Viaggiatore solitario e dei Sotterranei, che sconvolse tante piccole province del mondo, e quelle italiane in particolare (di Chiara, di Parise, di Brancati, ad esempio), che travolse le mille Peyton Place della letteratura e della vita americana ed europea.
Ai ventenni che durante gli anni '70 rifiutarono lo scontro frontale con lo Stato, l'annullamento nella droga o nei mille rivoli della lotta armata, ha scritto il kerouachiano Dondelli, "la letteratura della beat generation offriva una via di scampo. Insegnava a sognare, incitava a mettersi in moto, a partire, a scoprire le città e i paesi, le osterie, le bettole, i luoghi di ritrovo. [ ... ]. Improvvisamente tutto poteva apparire nuovo e diverso". Il traguardo lontano dei beats, come di questo scrittore, era il Ritorno al Regno dell'Amore, della Fratellanza e della Vita: "QUI SULLA TERRA SCURA - Prima di andare tutti in Paradiso".
Ma dapprima l'avventura era stata sui mari. Non a caso Treasure Island, "L'isola del tesoro" di Stevenson, è considerato uno dei capolavori della narrativa mondiale. Narra le imprese di un gruppo di "avventurieri" guidati dal leale gentiluomo Trelawnes e imbarcati per una lontana isola (tante volte ipotizzata, mai identificata del tutto) in cerca del malloppo nascosto da un celebre pirata. In breve essi si trovano in conflitto con gli uomini della ciurma, composta quasi esclusivamente da vecchi filibustieri che hanno deciso di impadronirsi della nave e del tesoro. Il piano è sventato dall'intervento coraggioso del più giovane marinaio, Jim Hawkins, che narra in prima persona la vicenda conclusa felicemente per merito suo, dopo varie e rischiose avventure. Jim è l'incarnazione esemplare del giovane audace che lotta per il "bene", imponendosi grazie a una candida ma profonda fede nelle sue convinzioni morali. Egli vince a forza di meravigliare i malvagi con la propria innocenza, tanto da confonderli e far balenare anche in essi una finale luce di simpatia.
Nel 1889 Stevenson aveva raggiunto le Samoa. Decise di vivere a Upolu, nella tenuta Vailima (Cinque fiumi). Ottenne le simpatie degli indigeni che, venerandolo, gli attribuivano poteri magici. Affascinati dalla sua straordinaria abilità nell'inventare racconti favolosi, essi gli diedero il nome di Tusitala, "narratore di storie".
Tutto ciò influì molto nelle sue ultime opere, soprattutto su The island nights enterta inments, parzialmente tradotto in italiano col titolo "Il diavolo in bottiglia", e in Nei mari del Sud, apparso postumo. Qui ha riecheggiato le grandi emozioni venutegli incontro da quel mondo esotico dove i cieli, i paesaggi e le figure dei suoi racconti gli apparivano come realtà fisiche, naturali. Egli stesso pareva incarnarvi uno dei suoi eroi e viveva a contatto con uomini che avrebbero potuto essere personaggi dei suoi romanzi. E' nell'ambiente onirico dell'isola che la sua capacità di rappresentazione trova pienamente se stessa, manifestando la più libera coerenza tra realtà e fantasia. In quel lontano Eden ritrovato, la freschezza della sua natura divenne più che mai aperta ed entusiasta, liberandosi anche del residuo moralistico, dalla tendenza a una categorica distinzione fra bene e male, che gli veniva dalle eredità di un'educazione calvinista. Così egli non mostrò alcun compiacimento intellettualistico o decadente, come tanti altri transfughi dalla civiltà. Perciò la sua opera è moderna, per i contenuti ai quali ci tenne molto, ma soprattutto per la dimensione fantastica da lui creata.
Chi non ha trepidato per Mompracem? Chi non ha sognato la "perla di Labuan"? Chi non ha avuto la prima adolescenza intrisa del profumo delle foreste tropicali, delle salsedini dei mari di Malesia, del fumo delle sigarette di Yanez? Pur muovendosi su sfondi così lontani, i personaggi di Salgari conservano caratteri pressoché familiari. Nella narrativa di ispirazione avventurosa, questo autore portò una sua tendenza che ricavava gli elementi del successo non tanto dal colorito esotico o dal valore documentario del racconto, ma piuttosto dall'eccezionale dinamicità, dall'evidenza quasi cinematografica dell'azione, dalle inesauribili trovate fantastiche che trasformano quei personaggi in eroi leggendari di un particolare cielo epico: sono l'eccezione meravigliosa e ammirevole di un mondo comune, con esigenze elementari (difesa dell'onore, protezione degli amici, implorazioni di esseri più deboli), al quale restano intimamente legati. L'opera di Salgari trova quindi la sua base in una sincera umanità e anche la violenza, in essa, non è il frutto degli istinti o di una cieca volontà di sopraffazione, ma nasce quasi sempre dal bisogno di far giustizia.
Mompracem resta uno dei pochi luoghi reali, o realmente esistenti, anche se idealizzata: l'isola era, ed è, uno scoglio pelato, battuto dai venti, deserto. Ma intorno a quest'isola ruotano mondi fantastici indimenticabili, quelli delle Tigri della Malesia, poi diventate Tigri di Mompracem, con i contorni de I selvaggi della Papuasia, di Tay-See, della Rosa del Dong-Giang, dei Misteri della JungIa nera, di Duemila leghe sotto l'America, della Città dell'oro, della Gemma del Fiume Rosso. Concreto, drammaticamente vero, il boschetto di Madonna del Pilone, in quel di Torino, dentro il quale un Salgari disperato si recava spesso per meditare sulle trame dei suoi racconti, e dove un giorno lo trovarono morto: si era aperto il ventre con un rasoio.
Da un teatro d'azione a un teatro di situazione. Il deserto dei Tartari è del 1940. Fra queste pagine le evasioni della fantasia, le allegorie e i simboli "non si spingono mai tanto in là da non poter essere ricondotti al reale". L'esistenza umana sembra ridursi, per Buzzati, a un variare di fenomeni appariscenti ma vani, di cui l'uomo comune non afferra più che le forme esteriori. In questo senso si potrebbe citare l'influenza di M. Maeterlink, ma forse, se proprio si volesse fare un nome, per l'intensità spesso allucinante in cui inquadra le sue trame e il brivido che sa suscitare con certe situazioni inconsuete, potrebbe essere accostato a Poe, o ancor più a Kafka per lo stile volontariamente astratto-magico-allegorico.
In Calvino, poi, realtà e fiaba si equilibrano nella rappresentazione artistica, anche se apparentemente è la fiaba a prevalere sull'elemento realistico. La trilogia è celebre: Il cavaliere inesistente, Il barone rampante, Il visconte dimezzato.
Cui seguiranno le Cosmicomiche, apologhi con vertiginosa perizia stilistica, Ti con zero, che prosegue la vena fantascientifica, per la ricerca della fisionomia di una moralità originaria dell'uomo, connessa a un suo destino metastorico, fuori del tempo.. Scrive Calvino nel Barone: "Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d'Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto... Poi la vegetazione è cambiata: non più i lecci, gli olmi, le roveri: ora l'Africa, l'Australia, le Americhe, le Indie allungano fin qui rami e radici. Le piante antiche sono arretrate in alto... Ombrosa non c'è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli... era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d'inchiostro, come l'ho lasciato correre per pagine e pagine ... ".
Un po' come Macondo. E' esistita Macondo? Era la natale Aracataca di Márquez? Sapremo mai se fu l'autore a ispirarsi alla realtà di quel paese o se fu questa ad aderire per sempre alla sua straordinaria immaginazione? Si percorre una strada leggermente ondulata, il mar Caribe a destra e la Sierra Nevada a sinistra, che attraversa quelle paludi così importanti nell'opera di Márquez, più simili alle pianure venezuelane del Maracaibo che alle nubi disordinate di Bogotà. Alle spalle, altri villaggi macondiani, come quello di Riofrìo o quello di Riohacha, da dove il pirata Sir Francis Drake "si divertiva a cacciare caimani a cannonate", in terre che furono bananiere e che oggi sono coltivate a palme africane da olio. Superato il fiume Tucuringa e il villaggio di Siviglia, compare Aracataca, assediata dalle cicogne. Per entrarvi lungo un binario che poi muore, si deve pagare un pedaggio: e si respira, sì, aria colombiana, ma anche dominicana, cubana. E' l'aria di Macondo, appunto, graffita dal bolero che la radio trasmette senza soluzione di continuità, trasvolando ogni patio, campo d'erba e di alberi di guajaba, ogni casa di legno circondata dai formicai. E' città reale, questa? O sonnambolica: in cui il sogno pare assumere apparenze reali senza mai giungere a creazioni realmente corporee?
Sembrava che tra i caduti dell'era moderna dominata dalle macchine ci fosse il genere letterario fantastico. Le storie di spada e di magia negli anni '30 avevano visto emergere personaggi memorabili: Conan, Kull di Valusia e Solomon Kane di Henry Howard; oppure Fafhrd e il Gray Mouser di Fritz Leiber.
Poi era sceso il silenzio. Fino a quando irruppe Tolkien, con The Hobbit e i tre romanzi del Signore degli anelli, bibbia degli hippies nei campus americani. E fu Tolkien a dischiudere le porte di un mondo fantastico nel quale Frodo, Legolas, Gimli, Aragorn, Gandalf, Sam, Merry, Pipino e Boromir, i Nove Viandanti, vivono eternamente le eroiche gesta della Compagnia dell'Anello:

Tre anelli al Re degli Elfi
sotto il cielo che risplende,
Sette al Re dei Nani
nelle loro rocche di pietra
Nove agli Uomini Mortali
che la triste morte attende
Uno all'Oscuro Sire
chiuso nella reggia tetra
Nella Terra di Mordor,
dove l'Ombra nera scende.
Un Anello per domarli,
Un Anello per trovarli,
Un Anello per ghermirli
e nel buio incatenarli,
nella Terra di Mordor
dove l'Ombra cupa scende.

Vivendo in un'epoca di fervore scientifico, con il dono di una ricca immaginazione Verne innestò sul tradizionale romanzo di avventure motivi ispirati ai problemi che la scienza del suo tempo veniva studiando, da quelli aeronautici a quelli astronomici e geologici. Il giro del mondo in 80 giorni, Il viaggio al centro della terra, Ventimila leghe sotto i mari e la mirabile vicenda, in L'isola misteriosa, di cinque uomini gettati dalla sorte su un'isola deserta (ma segretamente abitata dal Capitano Nemo che diventa il loro genio protettore) che riescono a costruire una vita civile: questi, i suoi capolavori. Gli eroi di Verne (tra i quali sintomaticamente c'è quasi sempre un ingegnere o un medico dalle conoscenze e dalle risorse quasi inesauribili) vogliono essere una dimostrazione delle grandi capacità di cui l'uomo può disporre per risolvere le situazioni più disperate, col sussidio di certe nozioni scientifiche e dell'ingegno, purché sorretto dall'intrepidità del carattere e da un senso morale. L'uomo di Verne è dunque un Robinson Crusoe diverso: dell'eroe di Defoe ha le risorse umane, interne; con in più la fede nella scienza, che lo porterà Dalla terra alla luna e Intorno alla luna, primi esordi davvero sorprendenti dell'astronautica.
Filone fortunato, quello fantascientifico. Era stato Karel Capek, nella commedia utopistica R. U. R., del 1921 (abbreviazione di Rossum's Universal Robots), a creare il neologismo ecco "ròbot", derivante dalla forma slava "ròbota" (fatica, lavoro), poi entrato in tutte le lingue nel significato di automa, uomo-macchina. L'azione di R. U. R. si svolge nell'avvenire, in un'isola sperduta dell'oceano ove sorge l'officina del vecchio sapiente Rossum, che inventa e costruisce migliaia di robots: soggetto palesemente ispirato all'antica leggenda praghese del "Golem", l'automa che finì per ribellarsi al suo padrone.
E fu un inglese del Kent, Herbert George Wells, a proiettare la sua opera nella macchina del tempo aperta agli anni a venire. Un'esplorazione del futuro fu il suo primo grande romanzo di anticipazione, con un tipo di narrativa in cui coesistono motivi scientifici, o parascientifici, elementi sociologici ed elementi fantastici.
La formula da lui elaborata consentiva intuizioni, previsioni sorprendenti, e spesso esatte, sulla vita futura, collocate sullo sfondo di una moralità fortemente polemica verso i vizi sociali dell'epoca, e ispirate anche dalla fiducia nello sviluppo dell'umanità. In The Time Machine (appunto, Un'esplorazione del futuro) un'ipotetica macchina permette di viaggiare nel presente e nel futuro. Essa trasporta il suo protagonista nell'anno 82701. L'evoluzione ha approfondito le divisioni sociali, sicché le classi si sono trasformate in due "tipi" di umanità: da una parte gli Eloi, cioè la borghesia parassitaria che vive in misteriosi giardini paradisiaci, dall'altra i Morlocchi, ossia la classe operaia diventata una moltitudine di uomini-talpa, ripugnanti e intelligenti, che hanno cura degli Eloi fino a quando non li mangiano. Il viaggiatore cerca scampo in altri periodi di futuro: ma l'ultima scena rappresenta un'immensa pianura gelata da cui emerge un gigantesco crostaceo. In breve, al primo romanzo seguirono altri, fra i quali The IsIand of Doctor Moreau ("L'isola del terrore"): si narra di animali che la vivisezione ha trasformato in semi-uomini; mentre nel celebre The War of the Worlds ("La guerra dei mondi") i marziani - esseri giunti al limite estremo dell'evoluzione, enormi teste su corpi meccanici - invadono la terra, divorano e distruggono gli uomini come questi fanno con le bestie, fino a quando non intervengono i minimi "abitanti della terra", i microbi, cui gli organismi dei marziani non possono resistere.
Wells militò ad un certo punto tra i fabiani (movimento socialista e non-violento inglese volto a "ricostruire la società in accordo con le più alte possibilità morali"), allineandosi comunque su posizioni avanzatissime, sconfinando a volte in progetti o conclusioni stravaganti. Alcune, come la difesa apologetica della poligamia e la polemica contro l'educazione umanistica, sono riconducibili alle sue esperienze personali e al clima di positivismo scientifico e alla scuola di Huxley cui si era formato. Maggiore attenzione merita invece l'idea del "Grande Stato Universale", proposta da lui, anche se suscita molte perplessità il suggerimento di dividere i cittadini in cinque classi intellettuali affidate al governo di scienziati appositamente preparati. Queste concezioni furono esposte in una lunga fase della sua opera, in libri come Anticipations, Mankind in the Making ("L'umanità in formazione"), A Modern Utopia, fino a quando si concluse la sua parentesi fabiana. Nel 1933 si incontrò con Roosevelt e Stalin per proporre il suo "Grande Stato", ma in seguito la sua fede nella possibilità di convincere l'umanità a seguire le vie della ragione cominciò a vacillare. Delusione e sconforto si avvertirono nelle pagine dei suoi ultimi libri, The Fate of Homo Sapiens ("Il fato dell'Homo Sapiens") e Mind at the End of its Tether ("La mente sull'orlo dell'abisso").

Alla ricerca dei tesori perduti
Torniamo al passato. Alla letteratura e al badile degli archeologi che ad essa, e alla tradizione orale, spesso e volentieri si rifà. Un mito che ancora oggi affascina gli studiosi: Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda furono, secondo la leggenda, i protagonisti della resistenza romano-bretone agli invasori Sassoni, avvenuta nel VI secolo dopo Cristo. Secondo una studiosa di miti arturiani, Elizabeth Stewart, la mitica Camelot sarebbe sorta in Cornovaglia, presso Cadbury Castle.
I rilevamenti archeologici hanno di fatto messo in luce la presenza di un antico forte che sorse su una verde collina. Ma di Artù nessuna traccia.
Proseguono anche le ricerche del Santo Graal, la coppa nella quale Giuseppe d'Arimatea raccolse il sangue di Cristo durante la crocifissione. I tedeschi stessi, alla vigilia della seconda guerra mondiale, condussero alcune ricerche mirate al recupero del Graal. Questo, secondo alcuni studiosi di medievalistica, potrebbe essere collocato presso un pozzo abbandonato dai Druidi, in Britannia, vicino a Glastonbury, regione nella quale si vuole sepolto, in un sonno magico, Re Artù. Altri lo ritengono nascosto in Francia, sui Pirenei, o addirittura nel Vicino Oriente.
L'Arca dell'Alleanza: racchiude tutto il potere della simbologia ebraica. Citata per la prima volta nella Bibbia, nel Libro dell'Esodo, sta alla testa delle tribù ebraiche guidate da Mosè. In essa Mosè porrà le Tavole della legge (il segno dell'Alleanza tra Dio e il suo popolo). Composta di legno d'acacia, lunga due cubiti e mezzo, larga e alta un cubito e mezzo (circa 125 per 75 per 75 centimetri) era ricoperta d'oro puro. Sulla sua sommità c'erano anche due figure di cherubini che, dandosi le spalle, congiungevano le ali.
Secondo ricercatori americani ed europei, l'Arca potrebbe trovarsi nascosta da qualche parte presso la città di Tanis, in Egitto, dominata nel 925 a.C. dal faraone Soshenq I della XIII dinastia. Studiosi e archeologi di Gerusalemme ritengono invece che si trovi in Palestina, dopo che Gioas, re d'Israele, distrusse il Tempio di Gerusalemme tra il 797 e il 767 a.C., occultando l'Arca e gli altri tesori presso Samaria. Altri ancora la vogliono nascosta in Babilonia, quando Nabucdonosor, re dei Caldei, tra il 587 e il 585 a.C. conquistò Gerusalemme dopo un assedio durato diciotto mesi.
Altra ipotesi: fu portata dagli ebrei al sicuro, in Etiopia: ed ebrei di pelle nera sono i Falascià. Lì sarebbe ancora tenuta nascosta da un gruppo, o setta, in luoghi inaccessibili. Infine, c'è la storia di una banca svizzera. Il defunto Negus Ailé Selassié affermava di essere discendente della mitica regina di Saba. Quest'ultima avrebbe avuto in dono l'Arca che, sempre secondo Selassié, faceva ancora parte del suo tesoro imperiale. Se la storia è vera, il luogo più probabile ove potrebbe trovarsi la mitica Arca sono i capaci forzieri di una banca elvetica. O presso qualche altro Paese interessato a mantenere il segreto. Scrittori di tutto il mondo, sbizzarritevi!


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000