Perché
uno scrittore ricorre all'invenzione di una geografia fantastica? I
paesi immaginari sono soprattutto luoghi deputati del mito (Omero, Platone
... ) e del "diverso", cui si accompagna puntualmente il concetto
di "mostruoso": gli Arimaspi monocoli e i Mirmicoleoni di
Erodoto, per metà leoni e per metà formiche; i Blemmi
africani di Plinio, antropofagi senza testa; i Dondumiti, i ciclopi
orientali di John Mandeville, che nel Trecento descrisse il mondo senza
muoversi di casa. O ancora, possono offrire l'occasione per fare il
verso al sapere accademico (Rabelais), o attingere al verosimile positivista
alla Jules Verne, o presentarsi dichiaratamente fiabeschi. Per un Salgari
che ipotizza che nel Trecento la Repubblica di Genova avesse scavato
un canale sotterraneo da Lerici al Brenta per prendere di sorpresa Venezia,
quanti maghi e streghe e gnomi, quanto fantastico allo stato puro: le
contrade di Ariosto, la Arkham di Lovercraft, città di culti
magici, la Brocéliande degli elfi bretoni (Tennyson), la foresta
di Fangorn (Tolkien), le isole fatate dell'Amadigi di Gaula, le "remote
nazioni" di Swift, la shakespeariana Isola di Prospero, nella Tempesta.
Ma la categoria più fittamente rappresentata è quella
della metafora filosofica, politica ed esistenziale (Buzzati del Deserto
dei Tartari). Approfondisci un poco il geografo immaginario, e troverai
l'utopista che fa sul serio (Campanella, Moro), l'uomo deluso che lancia
alla società del suo tempo strali satirici e apologhi nutriti
di ironico dissenso, che cerca una rivincita sulla pagina o accarezza
profezie che non tanti hanno voglia di ascoltare.
Qui l'intento didascalico è polemico e palese, ma i messaggi
e le ideologie sono in guerra tra di loro. Se l'Armonia di Fourier è
regolata da un'organizzazione ferrea che tutto prevede e dispone, la
Balnibarbi di Swift va in rovina proprio per un eccesso di progettazione,
per un peccato di superbia intellettuale (ciò non toglie che
nella Terra degli Huyhnhnm dello stesso Swift i saggi cavalli si dedichino
con successo al culto della ragione, dell'amicizia e della benevolenza).
Nell'Erewhon di Butler si studia l'Ipotetica, perché insegnare
quello che già esiste significa fornire un'idea angusta dell'universo.
Ma l'Isola della Filosofia dell'abate Balthazard (1790) non ha un governo
perché i presunti sapienti non riescono a mettersi d'accordo
su quale sia il sistema migliore.
Anche nei luoghi fantastici la scienza si distingue più per le
sue malefatte che per le sue virtù liberatrici. A London-on-Thames,
città africana scavata nella roccia, uno scienziato pazzo ha
creato dei gorilla che parlano inglese e si credono la reincarnazione
di personaggi storici del XVI secolo (Burroughs). Nel sovchoz del Raggio
Rosso un inventore crea torme di mostri affamati, prolifici e distruttivi
(Bulgakov in Le uova fatali). Nella Mechanopolis di Unamuno i robot
cacciano gli uomini: e questo è anche il programma della Prima
Internazionale dei robot di Carel Capek. Nell'Isola di Noble, il dottor
Moreau di H. G. Wells combina incredibili pasticci di ingegneria genetica.
L'esperienza storica sembra insomma ammonire i geografi immaginari a
non indulgere all'ottimismo. Dove trovare, se non la beatitudine, almeno
un rifugio decente? Non certo nei cupi continenti sotterranei inventati
a getto continuo da Burroughs. Forse nell'Euphonia di Berlioz, la cittadina
interamente consacrata alla musica, oppure nella Mahagonny di Brecht,
città di erotiche delizie, o nel Regno di Oz, sede di un matriarcato
provvido e assistenziale. Per chi ami invece la discrezione dei purgatori,
c'è la Flatlandia di Abbot, paese di pura geometria, dove le
donne sono linee rette, i borghesi dei triangoli equilateri e i professionisti
dei pentagoni. O la Terra del Presente intravista dal Gordon Pym di
Poe, dove gli abitanti sono privi di memoria e ogni istante è
nuovo e perfetto. E infine, in virtù delle contraddizioni dell'uomo,
c'è il Granducato dove, secondo E.T.A. Hoffmann, si aggira il
filosofo Gatto Murr: là gli abitanti passano il tempo a sdoppiarsi
nei loro contrari. Trenta secoli di letteratura immaginaria ci forniscono
tutto e il contrario di tutto, fino ai paesi-contro e ai mondi alla
rovescia, nei quali possiamo viaggiare sorridendo, magari, ma in qualche
modo riconoscendoci.
Continenti
scomparsi Continenti futuri
Scriveva Arturo Uccelli in Patria e Colonie, rivista della Dante,
del gennaio 1913: "Sin dalla puerizia c'insegnarono che le parti
del mondo si riducono a cinque [ ... ]. Ma l'enumerazione progressiva
oggidì potrebbe fare una grinza poi che i più recenti
viaggi polari sembrano assicurarci sull'esistenza di due vasti continenti
glaciali e deserti che la più naturale convenzione ci fa denominare
Artide e Antartide. Disgraziatamente, ci vorranno ancora molti anni,
e numerosi viaggi, prima che i geografi possano tracciare approssimativamente
il profilo di queste immense regioni fino a ieri, ed in gran parte
anche tutt'oggi, ignote [ ... ]. L'immensità della notte polare
che dava impeti lirici all'anima nordica di Fritjof Nansen, l'alterno
avvicendarsi delle aurore boreali, lo scroscio degli icebergs, il
disgelo ed il fragore dei ghiacci cozzantisi alla deriva saranno i
principali motivi che si seguiranno in tali descrizioni. E i solitari
viandanti dei continenti nuovissimi avranno la monotonia del tempo
interrotta dalle strida dei gabbiani e delle procellarie, e dagli
schiamazzi iterati delle viscide foche e dei trichechi bidentati".
Nessuno, concludeva Uccelli, "neanche i seguaci del barnuismo
americano, sempre in attesa di novità da sfruttare", oserà
"piantare qualche stazione climatica in quelle inospitali regioni".
E mai profezia fu più sbagliata.
Per due continenti ritrovati, uno che era scomparso, Atlantide, suscitava
in quello stesso torno di tempo uno straordinario interesse. Fu Platone,
nei Dialoghi di Crizia e di Timeo, il primo a parlare dell'esistenza
di una terra oltre le Colonne d'Ercole. E l'esistenza relativamente
recente, cioè in epoca quasi storica e non solo geologica,
venne sostenuta da Platone col fatto dei greci che a suo tempo dovettero
subire le conseguenze di un'invasione proprio da parte degli Atlantidi.
Dell'Atlantide misteriosa Platone offre una descrizione: era una regione
più vasta dell'Asia e della Libia messe insieme; era una delle
più belle contrade dell'universo, l'oro brillava in tutti i
suoi templi; le sue foreste vastissime fornivano legni da costruzione
in abbondanza; i suoi abitatori, governati da novemila anni dai discendenti
di Nettuno, vivevano felici d'una vita sobria di virtù e di
religione. Solo quando lasciarono i lavori agricoli per darsi alla
navigazione e ai commerci, perdettero la grazia degli dèi.
E quando, presi dal desiderio di conquista, sottomisero le isole vicine,
e tutta l'Africa fino all'Egitto, e corsero il Mediterraneo con i
loro navigli, giungendo sino alla Tirrenia, gli Atlantidi incorsero
nell'ira di Giove, che fece inabissare tutte le loro terre nell'Oceano.
Altre, scarne notizie sul continente inabissato si hanno nell'Odissea,
in alcuni brani di Euripide, nella Teogonia di Esiodo. La ipotesi
di Platone fu accettata anche da Plinio e da Strabone.
E' innegabile che nella grande varietà di ipotesi avanzate
in tempi più recenti ve ne siano alcune in antitesi con quella
generale: così Latreille identifica l'Atlantide con la regione
persiana; Rudbek, spinto forse da spirito nazionalistico, la intravede
nella Scandinavia, dove in effetti giunsero anche i fenici nei loro
lunghi viaggi marittimi; De Baer riconosce l'Atlantide fra le dodici
tribù di Israele e ritiene che l'inabissamento corrisponda
alla distruzione di Sodoma e Gomorra; Germain parla di una terra più
o meno estesa nell'Atlantico; Buache, considerando l'ininterrotto
bassofondo oceanico tra il Capo di Buona Speranza e il Brasile, la
colloca nell'area equatoriale-australe; MeCulloch vede nelle numerose
isole dell'Arcipelago delle Antille le cime più elevate delle
catene montuose appartenenti all'antica terra sommersa. Alcuni la
ritenevano più vicina all'Europa che all'America, e la identificavano
di volta in volta nelle Azzorre, nelle Canarie, nelle Isole del Capo
Verde. Un'ipotesi che ebbe molta fortuna è questa: quando gli
spagnoli occuparono le Canarie, queste isole erano abitate dal popolo
dei "Guanchos", oggi scomparsa, e che allora conservava
usi simili a quelli degli egiziani, di alcune genti dell'America e
del Caribe; non solo, ma parlava una lingua, la cui grammatica e il
cui lessico avevano numerose analogie con la lingua egizia e mesosud-americana.
Germain notava che Madeira, le Azzorre, le Canarie e le Capo Verde
riposano tutte su un medesimo zoccolo di natura sedimentaria e di
basimetria uniforme, così da farlo ritenere un bassopiano.
Molti caratteri faunistici delle isole sono comuni a quelli dell'Africa
e della Spagna, del Marocco e dell'America centro-meridionale. Per
lui, dunque, l'Atlantide sorgeva qui. Ma perché venne sommerso?
Diodoro Siculo riferisce che in tempi remoti il Mar Nero era chiuso,
come del resto il Mediterraneo. Il continuo accrescersi per via dell'acqua
portata dai fiumi che sfociano nel Mar Nero produsse uno straripamento
che originò il Bosforo e i Dardanelli. L'irruzione di quest'acqua
creò un'ondata lunga che spezzò le Colonne d'Ercole
e inabissò l'Atlantide. Lo stesso autore parla del gran lago
situato all'interno della Libia, il Tritonide, che si prosciugò
per i terremoti che squarciarono il suo letto. Per questa ragione
molti autori ritengono che la regione dei monti Atlante e l'Algeria
fossero circondate una volta dal Mediterraneo e da questo immenso
lago sahariano. Così l'Atlantide resta identificabile con le
terre dell'Occidente africano.
Gli arabi chiamano il Sahara "Bahr-bilâmâ",
cioè oceano senz'acqua. Alcuni geologi ritengono che gran parte
di questo deserto non sia altro che il letto di un enorme lago salato,
poi disseccato: le sue acque irruppero nell'Atlantico, coprendo le
terre che vi si trovavano. Bory de St. Vincent limita il continente
sommerso alla zona fra le Azzorre, Madera, le Capo Verde e le Canarie.
Ultima ipotesi, quella dei nostri giorni. L'isola di Santorino, l'antica
Thera, segna il limite esterno meridionale delle Cicladi, nell'Egeo.
E' vulcanica, ma dopo l'esplosione il suo vulcano si è disintegrato,
non esiste più, ne emerge dal mare solo una parte: è
un relitto geologico. Prima del disastro i suoi marinai come tutti
verso gli scali e gli empori del tempo. Li celebra un policromo affresco
di 3500 anni fa, ora al museo di Atene. Vi è rappresentata
l'isola, con una flotta di navi che vanno da una città all'altra,
salutate da folle di persone. Il pittore ha rappresentato le navi
addobbate a festa e cittadini di riguardo seduti all'ombra di baldacchini
posti al centro delle imbarcazioni. Questo affresco, scoperto nel
1972 sotto le ceneri che coprono i resti del villaggio di Akrotiri,
raffigura forse una processione regale in mare. A Thera-Santorino
o Santorini si viveva in pace, e il vulcano era ritenuto un gigante
addormentato. Ma i vulcani che sembrano morti possono riservare sorprese
terrificanti. Infatti, nel 1460 a.C. nelle falde sottomarine di Thera
si aprirono fessure per un violento sisma: l'acqua del mare, entrata
nel cratere, provocò l'esplosione. I segni di quella morte
non annunciata sono pietrificati nelle convulsioni della lava che
emerge in infinite schegge e lame dalle acque del golfo interno dell'isola:
la scogliera di Nea Kameni, conetto vulcanico ancora parzialmente
attivo, dagli anfratti che lo tagliano in tutti i sensi si levano
vapori, fumarole, gas che indicano come viva tuttora -nel profondo
abisso - palpitante materia geologica.
Il dramma di Thera ispirò una delle vicende più popolari
della mitologia, la lotta tra Efesto, dio del fuoco, e Poseidone,
dio del mare. E non a torto, perché la rovina apportata dal
vulcano e dall'acqua fecero retrocedere il tempo di mezzo millennio.
La cenere vomitata dall'esplosione salì a 45 chilometri di
altezza e ricadde soffocando la vita per un raggio di 500 chilometri,
raggiungendo Creta, Israele, la Siria, l'Egitto. Nel "Libro dell'Esodo"
è scritto di "quella notte paurosa che non aveva fine".
Forse in quel momento gli ebrei prigionieri del faraone fuggirono,
diretti verso la terra promessa.
La morte di Thera segna l'inizio della fine per l'intera civiltà
fiorita nel mondo egeocretese. L'onda devastatrice, alta più
di 30 metri, investendo la costa settentrionale di Creta, si abbatté
sulle città in riva al mare, Cnossa e Malia. Pochi minuti dopo
raggiunse Rodi, e poi Cipro. Thera, in quel momento, si era trasformata
da isola rotonda in un rudere bruciato che emergeva dal mare come
una falce di luna.
Una tra le infinite ipotesi della tragedia riporta alla leggenda di
Atlantide. Con ogni probabilità, ispirò proprio Platone
e i suoi Dialoghi: "Oltre quelle che ancora oggi si chiamano
Colonne d'Ercole si trovava un vasto continente detto Poseidonis o
Atlantis, che misurava 3.000 stadi di larghezza e 2.000 di lunghezza
(vale a dire circa 200.000 kmq, Ndr) e da questo si poteva andare
su altre isole e da quelle isole ancora alla terraferma che circonda
il mare così chiamato". Una meravigliosa terra che, secondo
Platone, si inabissò mentre dal cielo cadeva una pioggia di
fuoco. Atlantide come Thera?
Di un altro continente sprofondato abbiamo notizia, anche se esso
non ha l'aureola leggendaria di Atlantide. Il Madagascar sembra un'isola
tutta appartenente al continente africano. In realtà, è
diversa per costituzione, fauna, flora ed etnografia. Come se il braccio
di mare che la divide dall'Africa fisicamente, la separi anche sotto
ogni altro punto di vista. Le tribù dell'isola non appartenevano
alla stirpe camita: sono malesi, e tanto i Sakalawa che gli Howa avevano
usi e costumi simili più a quelli dell'India e della Malesia
che non a quelli delle contigue genti africane.
L'Oceano Indiano, nella parte che va dalla costa orientale dell'isola
al Golfo del Bengala, presenta un fondo d'altezza uniforme, molto
simile al bassopiano atlantico, e che secondo alcune ipotesi rappresenta
gli avanzi del continente che una volta emergeva da quell'immensa
plaga marina. E il Madagascar faceva parte di questo continente, che
gli uomini di scienza chiamano "Lemuride", perché
popolato da numerose colonie di scimmie.
Ma i continenti e le terre non scompaiono soltanto. Emergono, anche.
Non per cataclismi subitanei, ma per una costante azione vulcanica
(dalle parti della Sicilia, un secolo fa, emerse un'isola; si discusse
accanitamente sui diritti di proprietà, fino a che l'isola
scomparve, ingoiata dal mare che l'aveva generata). Si ritiene che
con il passare dei secoli il Pacifico creerà un nuovo continente,
che all'inizio del nostro secolo ebbe già il nome di battesimo:
Pacifide.
Scriveva Uccelli: "Nelle numerose isole vulcaniche costituenti
la cosiddetta Catena del Fuoco, l'attività dinamica interna
è continua e possente. Ultimamente presso l'Alaska è
comparso l'intiero arcipelago delle Isole Bogolow, le quali alla ultima
seduta della Società Britannica per l'Avanzamento delle Scienze
vennero considerate come le annunziatrici del futuro continente. Nella
zona oceanica che va dal Giappone alle Filippine e dalle Aleutine
a Borneo, venne da tempo notata una straordinaria attività
endogena, così che ben 1071 terremoti si registrarono nel breve
periodo di 20 mesi. [ ... ]. Forse la Pacifide desterà l'ammirazione
e sarà l'oggetto di studio dei nostri lontanissimi nipoti,
quando non sia anche l'argomento di contese fra il Giappone e gli
Stati Uniti futuri".
Utopia e poesia,
narrativa e scienza
Nello Stato ideale di Platone esistono tre classi di cittadini: i
magistrati o reggitori, i guerrieri e i produttori. Esse corrispondono
alle tre anime dell'individuo e sono governate dalle stesse virtù,
cioè rispettivamente dalla sapienza, dalla fortezza e dalla
temperanza. Virtù suprema è la giustizia, in forza della
quale classi e individui adempiono al compito loro proprio, senza
usurpare le attribuzioni altrui. La convivenza ordinata esige il superamento
degli egoismi: le donne, i figli e i beni delle due classi superiori
devono quindi essere messi in comune.
La direzione dello
Stato spetta ai filosofi, ai quali deve essere impartita una speciale
educazione. Dopo un'analisi delle forme storiche dello Stato e delle
varie possibili degenerazioni dei modi di reggimento e dopo la celebre
condanna dell'arte (i poeti devono essere espulsi dalla Repubblica),
il dialogo si chiude col mito di Er Armenio, cioè del guerriero
tornato in vita dopo la morte, il quale ha visto come nei luoghi d'oltretomba
le anime dei giusti vengano premiate e come le altre siano dopo il
giudizio avviate a nuove sorti.
Criticata la situazione politico-sociale dell'Inghilterra dei primi
anni del secolo XVI, Tommaso Moro presenta i costumi e gli ordinamenti
dell'Isola di Utopia, dove la proprietà privata è abolita:
lo Stato cessa così di essere una "congiura dei ricchi"
e diviene lo strumento dell'uguale benessere di tutti. Gli utopiensi
disprezzano i metalli preziosi, prendono i pasti in comune, sorteggiano
le loro case ogni dieci anni, lavorano sei ore al giorno e dedicano
il tempo libero all'elevamento dello spirito. Le cure ospedaliere
sono uguali e gratuite per tutti: l'eutanasia è ammessa, anzi
consigliata. Nell'Isola si praticano liberamente varie religioni,
ma la maggior parte degli utopiensi crede in un unico principio divino
diffuso in tutto l'universo.
Tommaso Campanella compose La città del sole durante i lunghi
anni di carcere. In qualche modo l'opera si rifà alla Repubblica
di Platone: è l'esaltazione di una perfetta comunità
che vive nell'Isola di Taprobane (odierna Sri Lanka) sotto la direzione
di Hoh, il Metafisico, assistito da tre capi, Pon, Sin e Mor, che
si occupano rispettivamente dell'esercito, degli studi, della generazione
e puericoltura. La società vive comunisticamente, perché
non vi è ammessa la proprietà privata. Non esistono
servi e padroni, i bambini sono educati da appositi maestri Fin dalla
più tenera età, i matrimoni sono preparati da una commissione
perché i governanti mirano soprattutto al miglioramento morale
e fisico della popolazione.
Nella Nuova Atlantide, Bacone propone un modello di comunità
umana ordinata secondo ragione. La Nuova Atlantide (l'antica essendo
stata inghiottita dal mare) è un'Isola del Pacifico abitata
da un popolo cristiano, che vi si è rifugiato per dedicarsi
all'approfondimento della conoscenza della natura e all'utilizzazione
pratica del sapere acquisito. Al viaggiatore sbarcato per caso nell'Isola
un saggio mostra le meraviglie della "Casa di Salomone",
sorta di Accademia delle Scienze, cervello e centro motore della ricerca.
Ci sono torri alte tre miglia per l'osservazione meteorologica, allevamenti
sperimentali, centri di fecondazione artificiale, istituti per lo
studio della termologia, dell'ottica, dell'acustica, dei fenomeni
olfattivi. Gli abitanti dispongono di macchine per volare e di navi
subacquee. Dei progressi del sapere del resto del mondo essi vengono
a sapere da confratelli-spie spediti nei vari continenti in incognito.
Il racconto utopistico restò incompiuto.
Passiamo alla poesia. Se Dante invita: Guido Cavalcanti e Gianni Lapo
su un vascello "chad ogni vento / per mare andasse al voler vostro
e mio ... ", è Guido Gozzano a celebrare in La più
bella la terra dei propri sogni:
Ma più
bella di tutte l'Isola Non-Trovata:
quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino
il Re di Portogallo con firma suggellata
e bulla del Pontefice in gotico latino.
L'Infante fece
vela pel regno favoloso,
vide le Fortunate: Junona, Gorgo, Hera
e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso
quell'isola cercando...
Ma l'isola non c'era.
Invano le galee
panciute a vele tonde,
le caravelle invano armarono la prora:
con pace del Pontefice l'isola si nasconde,
e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.
L'isola esiste.
Appare talora di lontano
tra Teneriffe, e Palma, soffusa di mistero:
"... l'Isola Non-Trovata!". Il buon Canariano
dal Picco alto di Teyde l'addito al forestiero.
La segnano
le carte antiche dei corsari.
... Hifola da trovarfi? ... Hifola pellegrina?...
E' l'isola fatata che scivola sui mari;
talora i naviganti la vedono vicina...
Radono con
le prore quella beata riva:
tra fiori mai veduti svettano palme somme,
odora la divina foresta spessa e viva,
lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...
S'annuncia
col profumo, come una cortigiana,
l'Isola Non-Trovata ... Ma, se il piloto avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell'azzurro colar di lontananza...
E il testo fu
ripreso dal cantautore Francesco Guccini:
"Ma più
bella di tutte l'isola non trovata / quella che il re di Spagna s'ebbe
da suo cugino / il re di Portogallo con firma suggellata / e bulla
del Pontefice in gotico latino. Il re di Spagna fece vela / cercando
l'isola incantata / però quell'isola non c'era / e mai nessuno
l'ha trovata.
Svanì di prua dalla galla / come un'idea; come una splendida
utopia / è andata via e non tornerà mai più.
Le antiche carte dei corsari / portano un segno misterioso, / ne parlan
piano i marinari / con un timor superstizioso. / Nessuno sa se c'è
davvero / od è un pensiero; / se a volte il vento ne ha il
profumo, / è come il fumo che non prendi mai!
Appare a volte avvolta di foschia / magica e bella, e se il pilota
avanza / sui mari misteriosi è già volata via / tingendosi
d'azzurro color di lontananza... / Il re di Spagna fece vela / cercando
l'isola incantata ... ".
E dal Sentimento del tempo Ungaretti estrapolò la sua "Isola":
A una proda
o ve sera era perenne
di anziane selve assorte, scese,
e s'inoltrò
e lo richiamò rumore di penne
ch'erasi sciolto dallo stridulo
batticuore dell'acqua torrida,
e una larva (languiva
e rifioriva) vide;
ritornato a salire vide
ch'era una ninfa e dormiva
ritta abbracciata a un olmo.
In sé
da simulacro a fiamma vera
errando, giunse a un prato ove
l'ombra negli occhi s'addensava
delle vergini come
sera appiè degli ulivi;
distillavano i rami
una pioggia pigra di dardi,
qua pecore s'erano appisolate
sotto il liscio tepore,
altre brucavano
la coltre luminosa;
le mani del pastore erano un vetro
levigato da fioca febbre.
Ha scritto Guglielmo
Petroni che la poesia è, come tutta l'arte, immagine della
vita e del mondo, riflesso filtrato nel quale si può, molto
spesso, trovare la rivelazione di ciò che non sappiamo leggere
o ricavare non solo dalla realtà, ma addirittura da una verità:
"Un lume d'amore si può riscontrare in un accento di odio
o di carità, di violenza o di pacificazione: come giustificare
la indiscutibile contraddittorietà? Noi possiamo solo rispondere
che, nella economia espressiva, nelle metafisiche delle cose rappresentate,
le immagini contraddittorie, i valori in conflitto, in realtà
non rappresentano più un conflitto od una contraddizione; essi
nella poesia non sono altro che parola, linguaggio, suggestione, insomma
simboli della presenza dell'uomo e delle cose, della natura, astratti
completamente da ciò che è il loro peso specifico nella
realtà".
La poesia ha in sé, dunque, il "mistero di qualunque luogo",
è il sito ideale dell'immaginario (da uno scoglio a un giardino,
da un albero a un grumo di case, a una terra isolata o sconfinata):
è la quasimodiana "città sospesa a mezz'aria"
che per il poeta resta "ultimo esilio": mentre "gli
astri seguivano precisi / ignoti cammini in curve d'oro / e le cose
fatte fuggitive / mi traevano in angoli segreti / per dirmi di giardini
spalancati / e del senso di vita ... ".
Dov'è, dunque, Shangri-là? Dove sono i luoghi di Shahrazàd?
Quali mari scorrono Sindbad e il Bateau ivre? Quali microcosmi immaginano
i poeti dell'haiku, quali macrocosmi leggono i poeti-sacerdoti atzechi?
Quali "rosei confini" varca la luna di Saffo, quale "confine
d'argento" canta Lorca, oltre "la terra senza un giunco,
forma pura / chiusa nell'avvenire"? I poeti amano le proprie
intriganti geografie, vivono dentro le loro coordinate: "Io che
ti amavo, Spoon River, / e anelavo al tuo amore, / ti appassii sotto
gli occhi, Spoon River - assetata ... ", scrive E.L. Master sulla
vita segreta del suo villaggio di morti (Lewistown?) che fa rivivere
nella memoria di duecento epitaffi. Anche queste tombe formano un'isola,
o un arcipelago, emerso nella lorchiana "amara acqua/ dei mari"
della vita.
E c'è poesia anche nella narrativa, Mille e una notte a parte,
terre promesse a parte, paradisi perduti e paradisi da Cantico dei
Cantici sognati a parte.
Butler Samuel, vittoriano, scrive Erewhon; or Over the Range: Erewhon,
ovvero dall'altra parte delle montagne. Erewhon è anagramma
di "nowhere", in nessun luogo. Il libro è un curioso
adattamento alla vita moderna dell'Utopia di Moro e dei Gulliver's
Travels, ed è punto di partenza di una letteratura che culminerà
in 1984 di Orwell. Insomma, un precursore.
Come Melville, la cui opera incontrò l'indifferenza, e in molti
casi l'ostilità dei contemporanei. Venti anni prima che Twain
visitasse le Isole Sandwich, quaranta prima che Stevenson approdasse
a Samoa, settanta prima che F. O'Brien scrivesse White Shadows in
the South Seas ("Pallide ombre dei mari del Sud") e F.W.
Murnau partisse dalla Germania per girare un film intitolato "Tabù",
egli scoprì gli incanti delle isole del Pacifico e li evocò
nelle sue pagine con altrettanta intensità di emozione che
Gauguin nella sua pittura. Egli si staccò dalla folla dei superficiali
viaggiatori, o maldestri imitatori, anche per aver superato il fascino
ell'esotismo, riconoscendo in quegli "Incanti" soprattutto
un rapporto meraviglioso tra l'uomo e la natura, assolutamente intesa.
Così nel suo capolavoro Moby Dick compose il poema epico della
coscienza moderna, raffigurata nella forsennata caccia alla Balena
Bianca come una vicenda dello spirito umano.
Melville si era imbarcato a Fairhaven, nel New Bedford, sulla baleniera
Acushnet diretta verso i mari del Sud, e vi era rimasto diciotto mesi,
raccogliendo quell'esperienza che, insieme con altre più complesse
e di ordine spirituale, avrebbero formato il nucleo di quel romanzo.
Fra le esperienze trascorse, l'arruolamento sulla fregata americana
United States, che gli darà ispirazione per White-Jacket, "Giacchetta
Bianca o del mondo d'una nave da guerra", il libro che, citato
durante una seduta decisiva del Congresso, contribuì all'abolizione
della "flogging law", la fustigazione, ancora molto in uso
sulle navi americane. Un effetto analogo lo aveva già provocato
con la sua animosa denuncia del contegno dei missionari e degli sfruttatori
bianchi nelle isole dei mari del Sud contenuta in Omoo e Typee.
Moby Dick era stato accolto con sfiducia e persino con irritazione,
perché i lettori si aspettavano un "normale" romanzo
d'avventura. Egli invece aveva voluto penetrare più a fondo
quella realtà fantastica che aveva affascinato i sogni della
sua giovinezza. Punto di passaggio dalla pura avventura al significato
dell'avventura umana, Moby Dick non poteva esser compreso dai contemporanei.
In esso la realtà fantastica (nell'epopea marina delle baleniere
della Nuova Inghilterra a caccia di cetacei sparsi nei mari artici)
si sprigionava da un grande fondo di pensiero: la superficie visiva
di forte e immediata emotività è fusa con un'intensa
allegoria spirituale.
Melville aveva il coraggio di non fermarsi alla sicura attrattiva
di un mondo avventuroso, ma si inoltrava verso gli abissi marini,
presi a simbolo dell'umana coscienza, per esplorare le profondità
e ritrovarne la forza primitiva. Dovevano passare circa tre quarti
di secolo prima che un'opera simile fosse riletta dalla critica e
valutata come uno dei più alti prodotti della civiltà
letteraria americana. Si scoprì allora (da Newton Arvin, fra
gli altri) che "la struttura narrativa di Moby Dick, il viaggio
o peregrinazione marina, è profondamente allusiva a poemi come
l'Odissea o l'Eneide; e il suo movimento narrativo non è da
situazione a situazione, come in un dramma, ma da partenza ad arrivo,
da calma a tempesta, da battaglia a tregua, come in quei poemi, o
come nell'Iliade o in Beowulf. E in generale la tessitura del libro
non è serrata, compatta, concentrata come quella di una tragedia,
ma ampia, libera, sciolta, spaziosa e aperta come quella di un poema
eroico".
Sulla formazione di un altro americano, Mark Twain, ebbe un'influenza
decisiva il carattere dei genitori, ciascuno dei quali era a suo modo
un visionario: spirito religioso legato profondamente al culto calvinista,
la madre; spirito avventuroso e agonistico, il padre, che per qualche
tempo fu anche un vagabondo.
Trascorse l'infanzia in un'atmosfera di sogni esaltati, di pretesi
rapporti con la vita ultraterrena e attese di eventi e di ricchezze
straordinarie. Nato durante un'apparizione della Cometa di Halley,
gli furono attribuite origini favolose, e per tutta la sua esistenza,
ricca di imprevisti, di avventure inconsuete, egli stesso finì
col credere ad una sua soprannaturale natura di "Visitatore da
Altri Luoghi".
La dimensione lirica e fantastica si ha in The adventures of HuckIeberry
Finn, ove la critica riconosce il vertice della sua arte. Il ragazzo
protagonista rappresenta, non solo per lo sbalordito Tom Sawyar, la
rivelazione autentica del mondo selvaggio da lui idealizzato e ricercato.
Figlio di un ubriacone del villaggio, egli vive nei boschi, senza
ritorni da escursioni a sfondo turistico, o dorme - moderna incarnazione
del giovane Diogene - in una botte. L'avventura umana di questo personaggio
di reietto, di paria, nella prospera e dinamica società americana,
culmina nell'amicizia per Jim, uno schiavo negro che si associa al
giovane bianco nella fuga dalla civiltà. Nello sviluppo del
racconto, la zattera sulla quale affrontano le insidiose acque e la
solenne maestà del Mississippi (Twain vi era stato pilota)
porta i due fuggiaschi alle liriche scoperte del loro umano legame
e della loro intimità con la natura. Un altro anticipatore,
dunque, in un certo senso, dell'irrequietezza degli Hemingway, dei
Kerouac e dei Salinger.
Kerouac, proprio lui. Quello di On the road, di Big Surl, di Maggie
Cassidy, dei Vagabondi del Dharma, del Viaggiatore solitario e dei
Sotterranei, che sconvolse tante piccole province del mondo, e quelle
italiane in particolare (di Chiara, di Parise, di Brancati, ad esempio),
che travolse le mille Peyton Place della letteratura e della vita
americana ed europea.
Ai ventenni che durante gli anni '70 rifiutarono lo scontro frontale
con lo Stato, l'annullamento nella droga o nei mille rivoli della
lotta armata, ha scritto il kerouachiano Dondelli, "la letteratura
della beat generation offriva una via di scampo. Insegnava a sognare,
incitava a mettersi in moto, a partire, a scoprire le città
e i paesi, le osterie, le bettole, i luoghi di ritrovo. [ ... ]. Improvvisamente
tutto poteva apparire nuovo e diverso". Il traguardo lontano
dei beats, come di questo scrittore, era il Ritorno al Regno dell'Amore,
della Fratellanza e della Vita: "QUI SULLA TERRA SCURA - Prima
di andare tutti in Paradiso".
Ma dapprima l'avventura era stata sui mari. Non a caso Treasure Island,
"L'isola del tesoro" di Stevenson, è considerato
uno dei capolavori della narrativa mondiale. Narra le imprese di un
gruppo di "avventurieri" guidati dal leale gentiluomo Trelawnes
e imbarcati per una lontana isola (tante volte ipotizzata, mai identificata
del tutto) in cerca del malloppo nascosto da un celebre pirata. In
breve essi si trovano in conflitto con gli uomini della ciurma, composta
quasi esclusivamente da vecchi filibustieri che hanno deciso di impadronirsi
della nave e del tesoro. Il piano è sventato dall'intervento
coraggioso del più giovane marinaio, Jim Hawkins, che narra
in prima persona la vicenda conclusa felicemente per merito suo, dopo
varie e rischiose avventure. Jim è l'incarnazione esemplare
del giovane audace che lotta per il "bene", imponendosi
grazie a una candida ma profonda fede nelle sue convinzioni morali.
Egli vince a forza di meravigliare i malvagi con la propria innocenza,
tanto da confonderli e far balenare anche in essi una finale luce
di simpatia.
Nel 1889 Stevenson aveva raggiunto le Samoa. Decise di vivere a Upolu,
nella tenuta Vailima (Cinque fiumi). Ottenne le simpatie degli indigeni
che, venerandolo, gli attribuivano poteri magici. Affascinati dalla
sua straordinaria abilità nell'inventare racconti favolosi,
essi gli diedero il nome di Tusitala, "narratore di storie".
Tutto ciò influì molto nelle sue ultime opere, soprattutto
su The island nights enterta inments, parzialmente tradotto in italiano
col titolo "Il diavolo in bottiglia", e in Nei mari del
Sud, apparso postumo. Qui ha riecheggiato le grandi emozioni venutegli
incontro da quel mondo esotico dove i cieli, i paesaggi e le figure
dei suoi racconti gli apparivano come realtà fisiche, naturali.
Egli stesso pareva incarnarvi uno dei suoi eroi e viveva a contatto
con uomini che avrebbero potuto essere personaggi dei suoi romanzi.
E' nell'ambiente onirico dell'isola che la sua capacità di
rappresentazione trova pienamente se stessa, manifestando la più
libera coerenza tra realtà e fantasia. In quel lontano Eden
ritrovato, la freschezza della sua natura divenne più che mai
aperta ed entusiasta, liberandosi anche del residuo moralistico, dalla
tendenza a una categorica distinzione fra bene e male, che gli veniva
dalle eredità di un'educazione calvinista. Così egli
non mostrò alcun compiacimento intellettualistico o decadente,
come tanti altri transfughi dalla civiltà. Perciò la
sua opera è moderna, per i contenuti ai quali ci tenne molto,
ma soprattutto per la dimensione fantastica da lui creata.
Chi non ha trepidato per Mompracem? Chi non ha sognato la "perla
di Labuan"? Chi non ha avuto la prima adolescenza intrisa del
profumo delle foreste tropicali, delle salsedini dei mari di Malesia,
del fumo delle sigarette di Yanez? Pur muovendosi su sfondi così
lontani, i personaggi di Salgari conservano caratteri pressoché
familiari. Nella narrativa di ispirazione avventurosa, questo autore
portò una sua tendenza che ricavava gli elementi del successo
non tanto dal colorito esotico o dal valore documentario del racconto,
ma piuttosto dall'eccezionale dinamicità, dall'evidenza quasi
cinematografica dell'azione, dalle inesauribili trovate fantastiche
che trasformano quei personaggi in eroi leggendari di un particolare
cielo epico: sono l'eccezione meravigliosa e ammirevole di un mondo
comune, con esigenze elementari (difesa dell'onore, protezione degli
amici, implorazioni di esseri più deboli), al quale restano
intimamente legati. L'opera di Salgari trova quindi la sua base in
una sincera umanità e anche la violenza, in essa, non è
il frutto degli istinti o di una cieca volontà di sopraffazione,
ma nasce quasi sempre dal bisogno di far giustizia.
Mompracem resta uno dei pochi luoghi reali, o realmente esistenti,
anche se idealizzata: l'isola era, ed è, uno scoglio pelato,
battuto dai venti, deserto. Ma intorno a quest'isola ruotano mondi
fantastici indimenticabili, quelli delle Tigri della Malesia, poi
diventate Tigri di Mompracem, con i contorni de I selvaggi della Papuasia,
di Tay-See, della Rosa del Dong-Giang, dei Misteri della JungIa nera,
di Duemila leghe sotto l'America, della Città dell'oro, della
Gemma del Fiume Rosso. Concreto, drammaticamente vero, il boschetto
di Madonna del Pilone, in quel di Torino, dentro il quale un Salgari
disperato si recava spesso per meditare sulle trame dei suoi racconti,
e dove un giorno lo trovarono morto: si era aperto il ventre con un
rasoio.
Da un teatro d'azione a un teatro di situazione. Il deserto dei Tartari
è del 1940. Fra queste pagine le evasioni della fantasia, le
allegorie e i simboli "non si spingono mai tanto in là
da non poter essere ricondotti al reale". L'esistenza umana sembra
ridursi, per Buzzati, a un variare di fenomeni appariscenti ma vani,
di cui l'uomo comune non afferra più che le forme esteriori.
In questo senso si potrebbe citare l'influenza di M. Maeterlink, ma
forse, se proprio si volesse fare un nome, per l'intensità
spesso allucinante in cui inquadra le sue trame e il brivido che sa
suscitare con certe situazioni inconsuete, potrebbe essere accostato
a Poe, o ancor più a Kafka per lo stile volontariamente astratto-magico-allegorico.
In Calvino, poi, realtà e fiaba si equilibrano nella rappresentazione
artistica, anche se apparentemente è la fiaba a prevalere sull'elemento
realistico. La trilogia è celebre: Il cavaliere inesistente,
Il barone rampante, Il visconte dimezzato.
Cui seguiranno le Cosmicomiche, apologhi con vertiginosa perizia stilistica,
Ti con zero, che prosegue la vena fantascientifica, per la ricerca
della fisionomia di una moralità originaria dell'uomo, connessa
a un suo destino metastorico, fuori del tempo.. Scrive Calvino nel
Barone: "Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d'Ombrosa, abituati
a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo.
Si direbbe che gli alberi non hanno retto... Poi la vegetazione è
cambiata: non più i lecci, gli olmi, le roveri: ora l'Africa,
l'Australia, le Americhe, le Indie allungano fin qui rami e radici.
Le piante antiche sono arretrate in alto... Ombrosa non c'è
più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è
esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii,
minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli...
era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d'inchiostro,
come l'ho lasciato correre per pagine e pagine ... ".
Un po' come Macondo. E' esistita Macondo? Era la natale Aracataca
di Márquez? Sapremo mai se fu l'autore a ispirarsi alla realtà
di quel paese o se fu questa ad aderire per sempre alla sua straordinaria
immaginazione? Si percorre una strada leggermente ondulata, il mar
Caribe a destra e la Sierra Nevada a sinistra, che attraversa quelle
paludi così importanti nell'opera di Márquez, più
simili alle pianure venezuelane del Maracaibo che alle nubi disordinate
di Bogotà. Alle spalle, altri villaggi macondiani, come quello
di Riofrìo o quello di Riohacha, da dove il pirata Sir Francis
Drake "si divertiva a cacciare caimani a cannonate", in
terre che furono bananiere e che oggi sono coltivate a palme africane
da olio. Superato il fiume Tucuringa e il villaggio di Siviglia, compare
Aracataca, assediata dalle cicogne. Per entrarvi lungo un binario
che poi muore, si deve pagare un pedaggio: e si respira, sì,
aria colombiana, ma anche dominicana, cubana. E' l'aria di Macondo,
appunto, graffita dal bolero che la radio trasmette senza soluzione
di continuità, trasvolando ogni patio, campo d'erba e di alberi
di guajaba, ogni casa di legno circondata dai formicai. E' città
reale, questa? O sonnambolica: in cui il sogno pare assumere apparenze
reali senza mai giungere a creazioni realmente corporee?
Sembrava che tra i caduti dell'era moderna dominata dalle macchine
ci fosse il genere letterario fantastico. Le storie di spada e di
magia negli anni '30 avevano visto emergere personaggi memorabili:
Conan, Kull di Valusia e Solomon Kane di Henry Howard; oppure Fafhrd
e il Gray Mouser di Fritz Leiber.
Poi era sceso il silenzio. Fino a quando irruppe Tolkien, con The
Hobbit e i tre romanzi del Signore degli anelli, bibbia degli hippies
nei campus americani. E fu Tolkien a dischiudere le porte di un mondo
fantastico nel quale Frodo, Legolas, Gimli, Aragorn, Gandalf, Sam,
Merry, Pipino e Boromir, i Nove Viandanti, vivono eternamente le eroiche
gesta della Compagnia dell'Anello:
Tre anelli
al Re degli Elfi
sotto il cielo che risplende,
Sette al Re dei Nani
nelle loro rocche di pietra
Nove agli Uomini Mortali
che la triste morte attende
Uno all'Oscuro Sire
chiuso nella reggia tetra
Nella Terra di Mordor,
dove l'Ombra nera scende.
Un Anello per domarli,
Un Anello per trovarli,
Un Anello per ghermirli
e nel buio incatenarli,
nella Terra di Mordor
dove l'Ombra cupa scende.
Vivendo in un'epoca
di fervore scientifico, con il dono di una ricca immaginazione Verne
innestò sul tradizionale romanzo di avventure motivi ispirati
ai problemi che la scienza del suo tempo veniva studiando, da quelli
aeronautici a quelli astronomici e geologici. Il giro del mondo in
80 giorni, Il viaggio al centro della terra, Ventimila leghe sotto
i mari e la mirabile vicenda, in L'isola misteriosa, di cinque uomini
gettati dalla sorte su un'isola deserta (ma segretamente abitata dal
Capitano Nemo che diventa il loro genio protettore) che riescono a
costruire una vita civile: questi, i suoi capolavori. Gli eroi di
Verne (tra i quali sintomaticamente c'è quasi sempre un ingegnere
o un medico dalle conoscenze e dalle risorse quasi inesauribili) vogliono
essere una dimostrazione delle grandi capacità di cui l'uomo
può disporre per risolvere le situazioni più disperate,
col sussidio di certe nozioni scientifiche e dell'ingegno, purché
sorretto dall'intrepidità del carattere e da un senso morale.
L'uomo di Verne è dunque un Robinson Crusoe diverso: dell'eroe
di Defoe ha le risorse umane, interne; con in più la fede nella
scienza, che lo porterà Dalla terra alla luna e Intorno alla
luna, primi esordi davvero sorprendenti dell'astronautica.
Filone fortunato, quello fantascientifico. Era stato Karel Capek,
nella commedia utopistica R. U. R., del 1921 (abbreviazione di Rossum's
Universal Robots), a creare il neologismo ecco "ròbot",
derivante dalla forma slava "ròbota" (fatica, lavoro),
poi entrato in tutte le lingue nel significato di automa, uomo-macchina.
L'azione di R. U. R. si svolge nell'avvenire, in un'isola sperduta
dell'oceano ove sorge l'officina del vecchio sapiente Rossum, che
inventa e costruisce migliaia di robots: soggetto palesemente ispirato
all'antica leggenda praghese del "Golem", l'automa che finì
per ribellarsi al suo padrone.
E fu un inglese del Kent, Herbert George Wells, a proiettare la sua
opera nella macchina del tempo aperta agli anni a venire. Un'esplorazione
del futuro fu il suo primo grande romanzo di anticipazione, con un
tipo di narrativa in cui coesistono motivi scientifici, o parascientifici,
elementi sociologici ed elementi fantastici.
La formula da lui elaborata consentiva intuizioni, previsioni sorprendenti,
e spesso esatte, sulla vita futura, collocate sullo sfondo di una
moralità fortemente polemica verso i vizi sociali dell'epoca,
e ispirate anche dalla fiducia nello sviluppo dell'umanità.
In The Time Machine (appunto, Un'esplorazione del futuro) un'ipotetica
macchina permette di viaggiare nel presente e nel futuro. Essa trasporta
il suo protagonista nell'anno 82701. L'evoluzione ha approfondito
le divisioni sociali, sicché le classi si sono trasformate
in due "tipi" di umanità: da una parte gli Eloi,
cioè la borghesia parassitaria che vive in misteriosi giardini
paradisiaci, dall'altra i Morlocchi, ossia la classe operaia diventata
una moltitudine di uomini-talpa, ripugnanti e intelligenti, che hanno
cura degli Eloi fino a quando non li mangiano. Il viaggiatore cerca
scampo in altri periodi di futuro: ma l'ultima scena rappresenta un'immensa
pianura gelata da cui emerge un gigantesco crostaceo. In breve, al
primo romanzo seguirono altri, fra i quali The IsIand of Doctor Moreau
("L'isola del terrore"): si narra di animali che la vivisezione
ha trasformato in semi-uomini; mentre nel celebre The War of the Worlds
("La guerra dei mondi") i marziani - esseri giunti al limite
estremo dell'evoluzione, enormi teste su corpi meccanici - invadono
la terra, divorano e distruggono gli uomini come questi fanno con
le bestie, fino a quando non intervengono i minimi "abitanti
della terra", i microbi, cui gli organismi dei marziani non possono
resistere.
Wells militò ad un certo punto tra i fabiani (movimento socialista
e non-violento inglese volto a "ricostruire la società
in accordo con le più alte possibilità morali"),
allineandosi comunque su posizioni avanzatissime, sconfinando a volte
in progetti o conclusioni stravaganti. Alcune, come la difesa apologetica
della poligamia e la polemica contro l'educazione umanistica, sono
riconducibili alle sue esperienze personali e al clima di positivismo
scientifico e alla scuola di Huxley cui si era formato. Maggiore attenzione
merita invece l'idea del "Grande Stato Universale", proposta
da lui, anche se suscita molte perplessità il suggerimento
di dividere i cittadini in cinque classi intellettuali affidate al
governo di scienziati appositamente preparati. Queste concezioni furono
esposte in una lunga fase della sua opera, in libri come Anticipations,
Mankind in the Making ("L'umanità in formazione"),
A Modern Utopia, fino a quando si concluse la sua parentesi fabiana.
Nel 1933 si incontrò con Roosevelt e Stalin per proporre il
suo "Grande Stato", ma in seguito la sua fede nella possibilità
di convincere l'umanità a seguire le vie della ragione cominciò
a vacillare. Delusione e sconforto si avvertirono nelle pagine dei
suoi ultimi libri, The Fate of Homo Sapiens ("Il fato dell'Homo
Sapiens") e Mind at the End of its Tether ("La mente sull'orlo
dell'abisso").
Alla ricerca
dei tesori perduti
Torniamo al passato. Alla letteratura e al badile degli archeologi
che ad essa, e alla tradizione orale, spesso e volentieri si rifà.
Un mito che ancora oggi affascina gli studiosi: Re Artù e i
Cavalieri della Tavola Rotonda furono, secondo la leggenda, i protagonisti
della resistenza romano-bretone agli invasori Sassoni, avvenuta nel
VI secolo dopo Cristo. Secondo una studiosa di miti arturiani, Elizabeth
Stewart, la mitica Camelot sarebbe sorta in Cornovaglia, presso Cadbury
Castle.
I rilevamenti archeologici hanno di fatto messo in luce la presenza
di un antico forte che sorse su una verde collina. Ma di Artù
nessuna traccia.
Proseguono anche le ricerche del Santo Graal, la coppa nella quale
Giuseppe d'Arimatea raccolse il sangue di Cristo durante la crocifissione.
I tedeschi stessi, alla vigilia della seconda guerra mondiale, condussero
alcune ricerche mirate al recupero del Graal. Questo, secondo alcuni
studiosi di medievalistica, potrebbe essere collocato presso un pozzo
abbandonato dai Druidi, in Britannia, vicino a Glastonbury, regione
nella quale si vuole sepolto, in un sonno magico, Re Artù.
Altri lo ritengono nascosto in Francia, sui Pirenei, o addirittura
nel Vicino Oriente.
L'Arca dell'Alleanza: racchiude tutto il potere della simbologia ebraica.
Citata per la prima volta nella Bibbia, nel Libro dell'Esodo, sta
alla testa delle tribù ebraiche guidate da Mosè. In
essa Mosè porrà le Tavole della legge (il segno dell'Alleanza
tra Dio e il suo popolo). Composta di legno d'acacia, lunga due cubiti
e mezzo, larga e alta un cubito e mezzo (circa 125 per 75 per 75 centimetri)
era ricoperta d'oro puro. Sulla sua sommità c'erano anche due
figure di cherubini che, dandosi le spalle, congiungevano le ali.
Secondo ricercatori americani ed europei, l'Arca potrebbe trovarsi
nascosta da qualche parte presso la città di Tanis, in Egitto,
dominata nel 925 a.C. dal faraone Soshenq I della XIII dinastia. Studiosi
e archeologi di Gerusalemme ritengono invece che si trovi in Palestina,
dopo che Gioas, re d'Israele, distrusse il Tempio di Gerusalemme tra
il 797 e il 767 a.C., occultando l'Arca e gli altri tesori presso
Samaria. Altri ancora la vogliono nascosta in Babilonia, quando Nabucdonosor,
re dei Caldei, tra il 587 e il 585 a.C. conquistò Gerusalemme
dopo un assedio durato diciotto mesi.
Altra ipotesi: fu portata dagli ebrei al sicuro, in Etiopia: ed ebrei
di pelle nera sono i Falascià. Lì sarebbe ancora tenuta
nascosta da un gruppo, o setta, in luoghi inaccessibili. Infine, c'è
la storia di una banca svizzera. Il defunto Negus Ailé Selassié
affermava di essere discendente della mitica regina di Saba. Quest'ultima
avrebbe avuto in dono l'Arca che, sempre secondo Selassié,
faceva ancora parte del suo tesoro imperiale. Se la storia è
vera, il luogo più probabile ove potrebbe trovarsi la mitica
Arca sono i capaci forzieri di una banca elvetica. O presso qualche
altro Paese interessato a mantenere il segreto. Scrittori di tutto
il mondo, sbizzarritevi!