§ Preistoria di Puglia

I cantieri della civiltą aurorale




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta
coll.: Franco Sabatini, Elide Marongiu, Carlo Nastasi



"Morì in fondo a quel cunicolo seduto presso la base di una colonna calcitica che era già antichissima quando egli la raggiunse, con gli arti inferiori fortemente flessi e leggermente spostati sulla sinistra, con il tronco, poggiando il dorso sulla roccia, inclinato verso destra, con gli arti superiori conserti e quindi con gli avambracci disposti parallelamente. Elaborazioni elettroniche delle immagini del cranio hanno permesso di evidenziare le caratteristiche morfologiche di arcaicità a cui si mescolano aspetti più progressivi dello scheletro postcraniale e del femore. La morfologia del bacino attribuisce lo scheletro al sesso maschile e la stima della statura e dell'età indica rispettivamente 160-165 centimetri e 30-35 anni".
Di chi sta parlando il professor Vittorio Pesce Delfino, docente di Antropologia all'Università di Bari" Di "Altamura Uno", uno dei più straordinari reperti paleontologici del mondo. Altamura Uno è lo scheletro di un uomo rinvenuto dagli speleologi del Cars di Altamura e del Cai di Napoli all'interno di una grotta carsica, ad una profondità intorno ai dieci metri. La straordinarietà della scoperta è dovuta soprattutto al fatto che una stalagmite ultramillenaria ha rivestito l'intero scheletro "con uno strato continuo e sigillante che rappresenta una promessa unica per i biologi molecolari perché potrebbe aver permesso la conservazione migliore possibile del Dna". Pesce Delfino mette in evidenza che la stalagmite ha "decorato" i reperti con una miriade di sferule cristalline causate dalla presenza di livelli d'acqua che hanno depositato i sali di calcio in corrispondenza delle parti ossee a raggio di curvatura più pronunciato (rilievi orbitali, denti, margini dell'apertura nasale): "La stessa formazione stalagmitica ha saldato e immobilizzato i vari pezzi, difendendoli".
Accanto e intorno ad Altamura Uno, ossa di animali. E, discosto, in una cavità di non facile accesso, è stato osservato un secondo scheletro umano, "Altamura Due": una calotta cranica, frammenti di ossa di arti, alcuni segmenti della colonna vertebrale: "La sua collocazione sotto un lastrone di crollo ne ha di fatto impedito un esame ravvicinato". Secondo Pesce Delfino, la calotta cranica presenta caratteri di forte arcaicità, anche più pronunciati di quelli corrispondenti sul primo individuo. "Tuttavia attualmente non esiste alcun elemento che permetta di pronunciarsi sull'attribuzione dei due scheletri allo stesso orizzonte paleontologico e sulla coincidenza delle modalità con cui i due scheletri siano venuti a trovarsi nella grotta. Non sappiamo quindi se i due uomini siano contemporanei e se finirono nella grotta per la stessa causa".


Molta cautela, dunque, per questo secondo scheletro. Mentre per quel che riguarda il primo non pochi dati sono stati ottenuti ancora prima di intervenire fisicamente sul deposito, e in attesa di un progetto organico di recupero e di ricerca scientifica. Il recupero, intanto: che pone enormi problemi di ingegneria "e nel contempo offre condizioni ideali per la datazione assoluta con metodo geologico e radiometrico". Le preoccupazioni di Pesce Delfino sono più che giustificate. Svante Paabo, dello Zoologisches Institut dell'Università di Monaco, e Bryan Sykes, dell'Institute of Molecular Biology, dell'Università di Oxford, due tra i massimi esperti in paleobiologia molecolare, sono pronti a collaborare con gli specialisti di Bari e di altri istituti di ricerca italiani, se saranno superate le vischiosità burocratiche del ministero dei Beni Culturali e Ambientali, contro le quali ha protestato anche Viviano Domenici, nel luglio scorso, con una "lettera" scritta dall'Homo erectus al ministro competente: "Ministro, voglio uscire dalla grotta!". Ma in un Paese che non conosce bene neanche i propri confini, e che si lascia portar via dall'Austria un altro celebre scheletro che in realtà era ibernato in territorio italiano, può accadere questo ed altro. Anche se Pesce Delfino ha tutte le carte in regola per chiarire i termini della questione: "La questione scientifica centrale sullo scheletro "Altamura Uno" è rappresentata dalla possibilità che questo reperto fornisca congiuntamente dati per chiarire se l'evoluzione umana abbia seguito uno schema di trasformazioni continue ovvero un andamento discontinuo, con rapide accelerazioni e lunghe pause; se possa rappresentare un riferimento di taratura per l'orologio molecolare dell'evoluzione e infine se possa essere definita la relazione tra la cronologia e le modificazioni morfologiche [ ... ]. Prevediamo il risultato della datazione assoluta per un'antichità del reperto di 185 mila anni come valore più probabile nell'ambito di un intervallo di tempo che va da 215 a 155 mila anni".
Siamo, insomma, intorno a duemila secoli! E siamo dentro un mistero tutto da esplorare, da decrittare. Come mai, perché due uomini (coevi, oppure no?) all'interno di un cunicolo carsico? E poiché la grotta è stata esplorata solo in parte, è possibile che, l'oltre", ci siano altri reperti del genere? Che, cioè, si possa scoprire un vero e proprio "giacimento" di enorme importanza, forse unico al mondo, anche se la sua unicità è già conclamata dall'involucro stalagmitico che ci ha conservato i resti di questi nostri remoti antenati? La risposta a questo e a tutti gli altri quesiti può darla soltanto l'apertura di questo cantiere aurorale della civiltà pugliese ed europea. In un Paese nel quale per troppo tempo la ricerca, quella seria, è stata guardata con scarso interesse, e talora persino con fastidio, perché si preferiva disperdere i fondi in mille rivoli clientelari che in moltissimi casi hanno prodotto il resto di niente, ora c'è l'occasione di proporsi alla ribalta mondiale con un progetto di primissimo ordine e di eccellente qualità, per il quale gli specialisti dispongono di metodologie collaudate (come la procedura Shape Analytical Morphometry) messe a punto con estremo rigore. Per lo studio scientifico dei due "Altamura" si deve partire da lì, mettendo da parte beghe ministeriali, compromissioni burocratiche e pressioni e giochi poco chiari.
Si dice che, scoperto un giacimento archeologico, è necessario scavare anche un poco più in là, in tutte le direzioni, perché può saltar fuori qualcos'altro. Molto spesso questi saggi danno risultati sorprendenti. E' una ragione in più, dunque, per procedere al recupero di "Altamura Uno" e "Due", e simultaneamente di proseguire nell'esplorazione del complesso carsico, per la ricerca di altri eventuali reperti. L'unicità planetaria di Massafra è ormai fuori discussione, e quanto messo in evidenza dal professor Pesce Delfino lo conferma scientificamente. Non esiste alcuna ragione per la quale non si vari, a strettissimo giro di tempo, un progetto complessivo, che coinvolga studiosi dell'Università barese e dei centri di ricerca stranieri specializzati. Massafra è un patrimonio dell'uomo, ed è giusto che sia un'équipe di paleobiologi molecolari internazionali ad interessarsi del caso. Una volta tanto, le nostre burocrazie, paralizzate dall'inefficienza, se non proprio dall'indifferenza per i problemi della cultura e della scienza, e rese vischiose dalle competenze incrociate, dimostrino di essere all'altezza della situazione. Se non altro, per smentire l'opinione che le vede abilitate ad agire quasi esclusivamente in una società da Terzo mondo.
D'altra parte, Massafra era venuta agli onori delle cronache della storia della civiltà con una serie di scavi che avevano riguardato quelli che sono stati definiti i "misteriosi signori delle grotte". Fra i primi a parlarne, Sabatino Moscati, il quale aveva citato a proposito alcuni versi di Montale: "La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C'è chi sopravvive". Aveva chiosato Moscati: questi versi sono la migliore introduzione all'analisi di uno dei più grandiosi e illuminanti fenomeni della nostra storia. Un fenomeno che ha il suo epicentro nell'Italia meridionale, ma che, per il suo naturale inserirsi nelle alternative dell'habitat, può comparire, e di fatto è comparso, ovunque: il "vivere in grotta".
Sostiene Moscati: "Non può sfuggire che la denominazione stessa di "civiltà rupestre", associandosi o sostituendosi a quella di "vivere in grotte", segna uno sviluppo e una modifica non trascurabile nell'impostazione del giudizio. Essa implica, infatti, il riconoscimento del carattere "civile", e dunque non solo popolare ma colto, non solo obbligato ma volontario, della scelta che allontana l'uomo dalla città e lo conduce a dimorare negli abitacoli che la natura ha scavato nelle pareti delle gravine. Del resto, non si è forse perpetuata fin quasi ai nostri giorni questa soluzione di vita nei celebri Sassi di Matera?". Soprattutto l'insicurezza sociale condusse cospicui gruppi umani ad allontanarsi dai centri più esposti e dalle vie più frequentate. Non per nulla il maggiore sviluppo della civiltà rupestre nel Sud d'Italia si verifica dalla caduta dell'impero romano fino all'epoca bizantina e normanna: in altre parole, coincide con il Medioevo. Ma il fatto rilevante è che quel gruppi, malgrado tutto, non si estraniavano dal mondo circostante, cioè non costituivano una società marginale, e meno che mai emarginata, come l'aggettivo "eremitico" potrebbe, a torto, far ritenere. E gli scavi condotti a Massafra offrono una felice conferma di tutto questo.
All'inizio dell'insediamento, intorno al VI secolo, "sta l'evidenza di un ripostiglio monetale costituito da un centinaio di pezzi di bronzo, coniati sotto i re vandali Trasamundo e Ilderico: il che offre una testimonianza inattesa e unica di relazioni con l'Africa settentrionale. Poi, intorno all'XI secolo, si verifica la maggiore fioritura dell'abitato. Ed ecco gli ambienti con nicchioni ad arcosolio, come poi avverrà nei trulli; ecco le stalle, i frantoi, le cisterne che segnano un'intensa attività agricola e pastorale, una vita prospera che non ha certo carattere trogloditico".
Inoltre, vanno prese in considerazione le testimonianze dell'artigianato, con le ceramiche caratteristiche decorate a linee rosse sottili con immagini di uccelli, di fiori, e con disegni geometrici. Vi sono anfore e vasi invetriati che palesemente vengono da Bisanzio e dunque sono conferma diretta di un commercio a largo raggio. Ma vi sono infine, e diremmo soprattutto, le pitture rupestri che tanto hanno attratto l'attenzione in passato e che, "curioso a dirsi, non hanno indotto a riflettere sulla contraddizione che veniva a porsi tra una vita presunta come "primitiva" e un'arte di cui si riconosceva l'alto pregio".
Ma con ogni probabilità la soluzione era implicita nell'asserito carattere monastico dei luoghi in cui le figurazioni comparivano: cenobi, dunque, quasi minuscole isole di cultura volontariamente trasferite in aree di ritiro e di isolamento. Oggi possiamo dire che quelle pitture riflettono senza alcun dubbio l'esistenza di santuari; ma che questi non erano cattedrali nel deserto, essendo inclusi in centri con strade e piazze, con edifici pubblici e privati, anche se di una tipologia urbanistica diversa da quella alla quale siamo abituati a pensare. Oltre tutto, le stesse strutture architettoniche degli edifici cultuali, pur con tutte le semplificazioni e gli adattamenti popolareschi, rispecchiano i modelli similari del mondo bizantino e mediterraneo. Cioè, di un mondo colto, al cui sviluppo l'architettura rupestre partecipa, e di cui quindi risulta pienamente consapevole. E ciò vale non meno per i motivi pittorici, nei quali "l'elemento della devozione locale non manca, ma è pur sempre subordinato ai modelli dell'ecumene bizantino e della tradizione crociata".
Massafra è, sotto questo profilo, un formidabile baricentro. Ma si deve guardare alle pitture delle chiese rupestri da Massafra a Mottola, da Laterza a Faggiano, da Ginosa a Grottaglie. Ed ecco i cicli tipicamente bizantini di Sant'Andrea, di Santa Margherita o Marina, di Santa Caterina d'Alessandria, di San Ciriaco, di San Paolo il Semplice, di Sant'Antonio Abate, dei Santissimi Quirico e Giuditta.
Ed ecco anche i nuclei devozionali crociati dei Santissimi Guerrieri Giorgio, Procopio, Teodoro, Demetrio, e altri. Queste aree agiografiche presuppongono una tradizione di cultura non eremitica, ma connessa a larghissimo raggio con il mondo mediterraneo. Che poi i portatori di questa cultura fossero stranieri o locali, residenti o itineranti, conta davvero molto poco. Quel che è importante è che l'insediamento rupestre non costituisce una rottura con la tradizione ambientale, né un suo irrigidirsi marginale fuori del flusso della storia. E infatti nelle aree rupestri i motivi figurativi non soltanto giungono, ma si sviluppano, si trasformano, si rinnovano con il ritmo stesso delle aree urbane, pur tanto difformi nel modo dell'esistenza.
Pertanto, l'antica interpretazione della civiltà rupestre come frutto esclusivo del movimento monastico cede il passo ad una più complessa e completa visione della realtà storica. L'immagine dei monaci che, sbarcati a schiere sulle coste adriatiche meridionali per sfuggire all'ira iconoclasta, si andavano ad attestare lungo i roccioni tufacei aggirando e respingendo gli insediamenti cittadini, (e questa è un'immagine diffusa e radicata in particolare nel secolo scorso), è sostituita dalla più veritiera visione di un mondo costituito anche di agricoltori, pastori, mercanti, guerrieri: in altre parole, di tutti gli strati sociali che potevano e volevano trovare posto in questo modello alternativo di vita.
Nessuna sorpresa se queste grotte presentano segni evidenti di frequentazione preistorica. Sarebbe stato semmai impensabile che così non fosse, perché si tratta di insediamenti naturali, su cui potevano concentrarsi più o meno l'interesse e l'afflusso secondo le circostanze, ma mai preclusi - appunto - alle frequentazioni. Va anzi precisato che soprattutto la preistoria (e in questo senso davvero senza alternativa, poiché la città non esisteva ancora) si rivela, col progredire delle ricerche, ricca di testimonianze: e valga per tutti l'esempio della Madonna della Scala, a Massafra, dove sono stati rinvenuti oggetti appartenenti a un arco di tempo che va dal V al Il millennio a.C.
Va anche messo in rilievo che la riduzione degli insediamenti rupestri dal XIV secolo in poi non impedisce un loro sviluppo nuovo e significativo, quello dell'architettura spontanea o "contadina", che rinnova in forme diverse i vincoli di solidarietà propri delle vicinie e delle corti rupestri. E proprio su questo filo conduttore giungiamo ai nostri tempi e ai Sassi di Matera: non eredità di trogloditismo, bensì ultima manifestazione di una civiltà millenaria. Appunto: quella del "vivere in grotta". Che era nota anche in Cappadocia, e non a caso. E che fu diffusa anche in Salento, un poco ovunque, ma particolarmente sulle coste (Roca Vecchia insegni): e non a caso neanche per questa terra-ponte del Mediterraneo.


Straordinari, d'altro canto, i rapporti tra Oriente e Puglia, anche se molti misteri che sottendono non sono stati ancora risolti. E' il caso delle stele daunie, di cui ci siamo già occupati sulle pagine di questa rivista, e sulle quali torniamo perché oggi disponiamo di un luogo di studio (il Museo Nazionale del Castello Svevo di Manfredonia) e di un catalogo completo (realizzato da Maria Luisa Nava, con l'analisi delle 1.600 stele recuperate).
La scoperta di questo patrimonio d'arte, di storia, di cultura, si deve al caso. Nel senso che ancora una volta fu l'aratro a precedere l'archeologo, riportando improvvisamente alla luce una testimonianza di oltre 2500 anni fa. In un campo alla periferia di Mattinata, nel Gargano, fu rinvenuta una piccola stele di pietra che raffigurava l'immagine stilizzata di un guerriero armato di un grosso pugnale.
In un primo momento l'oggetto non venne riconosciuto e finì per rinforzare una delle tante muricce a secco che circondano i campi coltivati dello sperone pugliese. In seguito fu riscoperta e identificata come una tipica stele dei Dauni, un popolo che nel primo millennio avanti Cristo abitò la Puglia settentrionale e del quale gli antichi storici ci hanno lasciato scarsissime notizie. Le testimonianze archeologiche della Daunia sono rappresentate prevalentemente da vasellame ceramico decorato in stile geometrico, e da queste stele (intere o frammenti) recuperate negli ultimi quattro decenni circa.
La storia della scoperta ebbe inizio nel 1960, quando Matteo Sansone, farmacista di Mattinata e poi ispettore onorario della Soprintendenza per l'arca garganica, segnalò agli archeologi l'esistenza di una stele antropomorfa che, secondo lui, denotava caratteristiche di notevole antichità. Era la prima volta che gli studiosi si trovavano di fronte a un reperto con quelle caratteristiche, e per qualche tempo lo attribuirono, sbrigativamente, all'epoca bizantina. Fino al giorno in cui una foto della stele finì nelle mani di Silvio Ferri, docente dell'Università di Pisa, che ne riconobbe l'importanza e iniziò una vera e propria caccia alla stele. Impresa tutt'altro che facile, perché da sempre i contadini del luogo incontravano nei campi quelle lastre di forma regolare e da sempre le utilizzavano per rinforzare i muri a secco, per murarle come gradini o pavimenti di stalle. Furono ispezionati chilometri di muri, visitati tutti i cascinali della zona, interrogati più contadini possibile. Risultato: una collezione di stele che rivelarono un panorama culturale fino ad allora sconosciuto.
L'area più direttamente interessata si rivelò quella della Piana di Siponto, anticamente occupata da una laguna. Qui le stele venivano rinvenute prevalentemente in corrispondenza di leggeri rilievi (denominati "coppe"), che in quel tempo rappresentavano le parti emergenti dalle acque. La vasta raccolta dei materiali precisò le caratteristiche salienti dei reperti. Le stele sono formate da lastre di pietra calcarea tagliate in forma di parallelepipedo con dimensioni che vanno dai 40 ai 130 centimetri di altezza e dal 3 ai 12 centimetri di spessore. Le due facce larghe della lastra sono incise in modo da disegnare una figura umana - di fronte e di schiena - riccamente vestita, carica di ornamenti o di armi. L'incisione che crea l'immagine è molto sottile e spesso appena visibile, in quanto originariamente le figure erano definite con l'aiuto dei colori rosso e nero, oggi appena percettibili sulle stele meglio conservate. La decorazione, oltre a rappresentare minutamente l'abito e gli ornamenti, in molti casi è completata da "scenette" collocate di solito nelle zone libere del torace: immagini dove agiscono uomini e animali, reali o fantastici, che documentano diversi aspetti della vita quotidiana, episodi mitologici e cerimonie riferibili al culto dei morti e al mondo degli Inferi, che sembrano illustrare usanze descritte dagli autori antichi come tipiche delle popolazioni del Mediterraneo orientale. Si riconoscono usi delle popolazioni della Tracia raccontati da Erodoto, esseri femminili con serpenti in testa, del tutto simili alle Erinni, giochi funebri che ricordano quelli descritti da Omero, chimere, cavalli alati, molti mostri che popolarono la mitologia greca. C'è anche una scena, più volte riprodotta sulle stele, che è stata interpretata come una versione daunia dell'episodio omerico del riscatto del corpo di Ettore: ed è la più chiara testimonianza del legame della cultura di quest'area con i popoli al di là dell'Adriatico.
Ha scritto la curatrice dello splendido catalogo: "Il mondo daunio appare singolarmente collegato al Mediterraneo orientale, in una comunione di riti e credenze, che trascende la sfera delle possibili e probabili influenze dovute agli scambi commerciali e culturali, ponendo altresì il problema della genesi e della primitiva formazione di questo popolo e giustificando l'ipotesi, sostenuta da Silvio Ferri, di un'originaria provenienza alla fine del Il millennio avanti Cristo dall'Oriente Egeo, area con la quale i Dauni della piena età del Ferro si mostrano sempre culturalmente legati in una strettissima comunanza spirituale".
Ma il mistero permane, perché dall'altra parte dell'Adriatico non si trova niente che ricordi il mondo daunio e che giustifichi l'ipotesi di una sua origine orientale, che peraltro sembra proprio indiscutibile. Allora? Allora non resta che continuare ad interrogare le stele della Daunia, queste 1.600 testimonianze uniche anch'esse al mondo: e sperare che prima o poi possano rispondere alle nostre domande.


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