"Morì
in fondo a quel cunicolo seduto presso la base di una colonna calcitica
che era già antichissima quando egli la raggiunse, con gli
arti inferiori fortemente flessi e leggermente spostati sulla sinistra,
con il tronco, poggiando il dorso sulla roccia, inclinato verso destra,
con gli arti superiori conserti e quindi con gli avambracci disposti
parallelamente. Elaborazioni elettroniche delle immagini del cranio
hanno permesso di evidenziare le caratteristiche morfologiche di arcaicità
a cui si mescolano aspetti più progressivi dello scheletro
postcraniale e del femore. La morfologia del bacino attribuisce lo
scheletro al sesso maschile e la stima della statura e dell'età
indica rispettivamente 160-165 centimetri e 30-35 anni".
Di chi sta parlando il professor Vittorio Pesce Delfino, docente di
Antropologia all'Università di Bari" Di "Altamura
Uno", uno dei più straordinari reperti paleontologici
del mondo. Altamura Uno è lo scheletro di un uomo rinvenuto
dagli speleologi del Cars di Altamura e del Cai di Napoli all'interno
di una grotta carsica, ad una profondità intorno ai dieci metri.
La straordinarietà della scoperta è dovuta soprattutto
al fatto che una stalagmite ultramillenaria ha rivestito l'intero
scheletro "con uno strato continuo e sigillante che rappresenta
una promessa unica per i biologi molecolari perché potrebbe
aver permesso la conservazione migliore possibile del Dna". Pesce
Delfino mette in evidenza che la stalagmite ha "decorato"
i reperti con una miriade di sferule cristalline causate dalla presenza
di livelli d'acqua che hanno depositato i sali di calcio in corrispondenza
delle parti ossee a raggio di curvatura più pronunciato (rilievi
orbitali, denti, margini dell'apertura nasale): "La stessa formazione
stalagmitica ha saldato e immobilizzato i vari pezzi, difendendoli".
Accanto e intorno ad Altamura Uno, ossa di animali. E, discosto, in
una cavità di non facile accesso, è stato osservato
un secondo scheletro umano, "Altamura Due": una calotta
cranica, frammenti di ossa di arti, alcuni segmenti della colonna
vertebrale: "La sua collocazione sotto un lastrone di crollo
ne ha di fatto impedito un esame ravvicinato". Secondo Pesce
Delfino, la calotta cranica presenta caratteri di forte arcaicità,
anche più pronunciati di quelli corrispondenti sul primo individuo.
"Tuttavia attualmente non esiste alcun elemento che permetta
di pronunciarsi sull'attribuzione dei due scheletri allo stesso orizzonte
paleontologico e sulla coincidenza delle modalità con cui i
due scheletri siano venuti a trovarsi nella grotta. Non sappiamo quindi
se i due uomini siano contemporanei e se finirono nella grotta per
la stessa causa".

Molta cautela, dunque, per questo secondo scheletro. Mentre per quel
che riguarda il primo non pochi dati sono stati ottenuti ancora prima
di intervenire fisicamente sul deposito, e in attesa di un progetto
organico di recupero e di ricerca scientifica. Il recupero, intanto:
che pone enormi problemi di ingegneria "e nel contempo offre
condizioni ideali per la datazione assoluta con metodo geologico e
radiometrico". Le preoccupazioni di Pesce Delfino sono più
che giustificate. Svante Paabo, dello Zoologisches Institut dell'Università
di Monaco, e Bryan Sykes, dell'Institute of Molecular Biology, dell'Università
di Oxford, due tra i massimi esperti in paleobiologia molecolare,
sono pronti a collaborare con gli specialisti di Bari e di altri istituti
di ricerca italiani, se saranno superate le vischiosità burocratiche
del ministero dei Beni Culturali e Ambientali, contro le quali ha
protestato anche Viviano Domenici, nel luglio scorso, con una "lettera"
scritta dall'Homo erectus al ministro competente: "Ministro,
voglio uscire dalla grotta!". Ma in un Paese che non conosce
bene neanche i propri confini, e che si lascia portar via dall'Austria
un altro celebre scheletro che in realtà era ibernato in territorio
italiano, può accadere questo ed altro. Anche se Pesce Delfino
ha tutte le carte in regola per chiarire i termini della questione:
"La questione scientifica centrale sullo scheletro "Altamura
Uno" è rappresentata dalla possibilità che questo
reperto fornisca congiuntamente dati per chiarire se l'evoluzione
umana abbia seguito uno schema di trasformazioni continue ovvero un
andamento discontinuo, con rapide accelerazioni e lunghe pause; se
possa rappresentare un riferimento di taratura per l'orologio molecolare
dell'evoluzione e infine se possa essere definita la relazione tra
la cronologia e le modificazioni morfologiche [ ... ]. Prevediamo
il risultato della datazione assoluta per un'antichità del
reperto di 185 mila anni come valore più probabile nell'ambito
di un intervallo di tempo che va da 215 a 155 mila anni".
Siamo, insomma, intorno a duemila secoli! E siamo dentro un mistero
tutto da esplorare, da decrittare. Come mai, perché due uomini
(coevi, oppure no?) all'interno di un cunicolo carsico? E poiché
la grotta è stata esplorata solo in parte, è possibile
che, l'oltre", ci siano altri reperti del genere? Che, cioè,
si possa scoprire un vero e proprio "giacimento" di enorme
importanza, forse unico al mondo, anche se la sua unicità è
già conclamata dall'involucro stalagmitico che ci ha conservato
i resti di questi nostri remoti antenati? La risposta a questo e a
tutti gli altri quesiti può darla soltanto l'apertura di questo
cantiere aurorale della civiltà pugliese ed europea. In un
Paese nel quale per troppo tempo la ricerca, quella seria, è
stata guardata con scarso interesse, e talora persino con fastidio,
perché si preferiva disperdere i fondi in mille rivoli clientelari
che in moltissimi casi hanno prodotto il resto di niente, ora c'è
l'occasione di proporsi alla ribalta mondiale con un progetto di primissimo
ordine e di eccellente qualità, per il quale gli specialisti
dispongono di metodologie collaudate (come la procedura Shape Analytical
Morphometry) messe a punto con estremo rigore. Per lo studio scientifico
dei due "Altamura" si deve partire da lì, mettendo
da parte beghe ministeriali, compromissioni burocratiche e pressioni
e giochi poco chiari.
Si dice che, scoperto un giacimento archeologico, è necessario
scavare anche un poco più in là, in tutte le direzioni,
perché può saltar fuori qualcos'altro. Molto spesso
questi saggi danno risultati sorprendenti. E' una ragione in più,
dunque, per procedere al recupero di "Altamura Uno" e "Due",
e simultaneamente di proseguire nell'esplorazione del complesso carsico,
per la ricerca di altri eventuali reperti. L'unicità planetaria
di Massafra è ormai fuori discussione, e quanto messo in evidenza
dal professor Pesce Delfino lo conferma scientificamente. Non esiste
alcuna ragione per la quale non si vari, a strettissimo giro di tempo,
un progetto complessivo, che coinvolga studiosi dell'Università
barese e dei centri di ricerca stranieri specializzati. Massafra è
un patrimonio dell'uomo, ed è giusto che sia un'équipe
di paleobiologi molecolari internazionali ad interessarsi del caso.
Una volta tanto, le nostre burocrazie, paralizzate dall'inefficienza,
se non proprio dall'indifferenza per i problemi della cultura e della
scienza, e rese vischiose dalle competenze incrociate, dimostrino
di essere all'altezza della situazione. Se non altro, per smentire
l'opinione che le vede abilitate ad agire quasi esclusivamente in
una società da Terzo mondo.
D'altra parte, Massafra era venuta agli onori delle cronache della
storia della civiltà con una serie di scavi che avevano riguardato
quelli che sono stati definiti i "misteriosi signori delle grotte".
Fra i primi a parlarne, Sabatino Moscati, il quale aveva citato a
proposito alcuni versi di Montale: "La storia non è poi
/ la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte,
buche / e nascondigli. C'è chi sopravvive". Aveva chiosato
Moscati: questi versi sono la migliore introduzione all'analisi di
uno dei più grandiosi e illuminanti fenomeni della nostra storia.
Un fenomeno che ha il suo epicentro nell'Italia meridionale, ma che,
per il suo naturale inserirsi nelle alternative dell'habitat, può
comparire, e di fatto è comparso, ovunque: il "vivere
in grotta".
Sostiene Moscati: "Non può sfuggire che la denominazione
stessa di "civiltà rupestre", associandosi o sostituendosi
a quella di "vivere in grotte", segna uno sviluppo e una
modifica non trascurabile nell'impostazione del giudizio. Essa implica,
infatti, il riconoscimento del carattere "civile", e dunque
non solo popolare ma colto, non solo obbligato ma volontario, della
scelta che allontana l'uomo dalla città e lo conduce a dimorare
negli abitacoli che la natura ha scavato nelle pareti delle gravine.
Del resto, non si è forse perpetuata fin quasi ai nostri giorni
questa soluzione di vita nei celebri Sassi di Matera?". Soprattutto
l'insicurezza sociale condusse cospicui gruppi umani ad allontanarsi
dai centri più esposti e dalle vie più frequentate.
Non per nulla il maggiore sviluppo della civiltà rupestre nel
Sud d'Italia si verifica dalla caduta dell'impero romano fino all'epoca
bizantina e normanna: in altre parole, coincide con il Medioevo. Ma
il fatto rilevante è che quel gruppi, malgrado tutto, non si
estraniavano dal mondo circostante, cioè non costituivano una
società marginale, e meno che mai emarginata, come l'aggettivo
"eremitico" potrebbe, a torto, far ritenere. E gli scavi
condotti a Massafra offrono una felice conferma di tutto questo.
All'inizio dell'insediamento, intorno al VI secolo, "sta l'evidenza
di un ripostiglio monetale costituito da un centinaio di pezzi di
bronzo, coniati sotto i re vandali Trasamundo e Ilderico: il che offre
una testimonianza inattesa e unica di relazioni con l'Africa settentrionale.
Poi, intorno all'XI secolo, si verifica la maggiore fioritura dell'abitato.
Ed ecco gli ambienti con nicchioni ad arcosolio, come poi avverrà
nei trulli; ecco le stalle, i frantoi, le cisterne che segnano un'intensa
attività agricola e pastorale, una vita prospera che non ha
certo carattere trogloditico".
Inoltre, vanno prese in considerazione le testimonianze dell'artigianato,
con le ceramiche caratteristiche decorate a linee rosse sottili con
immagini di uccelli, di fiori, e con disegni geometrici. Vi sono anfore
e vasi invetriati che palesemente vengono da Bisanzio e dunque sono
conferma diretta di un commercio a largo raggio. Ma vi sono infine,
e diremmo soprattutto, le pitture rupestri che tanto hanno attratto
l'attenzione in passato e che, "curioso a dirsi, non hanno indotto
a riflettere sulla contraddizione che veniva a porsi tra una vita
presunta come "primitiva" e un'arte di cui si riconosceva
l'alto pregio".
Ma con ogni probabilità la soluzione era implicita nell'asserito
carattere monastico dei luoghi in cui le figurazioni comparivano:
cenobi, dunque, quasi minuscole isole di cultura volontariamente trasferite
in aree di ritiro e di isolamento. Oggi possiamo dire che quelle pitture
riflettono senza alcun dubbio l'esistenza di santuari; ma che questi
non erano cattedrali nel deserto, essendo inclusi in centri con strade
e piazze, con edifici pubblici e privati, anche se di una tipologia
urbanistica diversa da quella alla quale siamo abituati a pensare.
Oltre tutto, le stesse strutture architettoniche degli edifici cultuali,
pur con tutte le semplificazioni e gli adattamenti popolareschi, rispecchiano
i modelli similari del mondo bizantino e mediterraneo. Cioè,
di un mondo colto, al cui sviluppo l'architettura rupestre partecipa,
e di cui quindi risulta pienamente consapevole. E ciò vale
non meno per i motivi pittorici, nei quali "l'elemento della
devozione locale non manca, ma è pur sempre subordinato ai
modelli dell'ecumene bizantino e della tradizione crociata".
Massafra è, sotto questo profilo, un formidabile baricentro.
Ma si deve guardare alle pitture delle chiese rupestri da Massafra
a Mottola, da Laterza a Faggiano, da Ginosa a Grottaglie. Ed ecco
i cicli tipicamente bizantini di Sant'Andrea, di Santa Margherita
o Marina, di Santa Caterina d'Alessandria, di San Ciriaco, di San
Paolo il Semplice, di Sant'Antonio Abate, dei Santissimi Quirico e
Giuditta.
Ed ecco anche i nuclei devozionali crociati dei Santissimi Guerrieri
Giorgio, Procopio, Teodoro, Demetrio, e altri. Queste aree agiografiche
presuppongono una tradizione di cultura non eremitica, ma connessa
a larghissimo raggio con il mondo mediterraneo. Che poi i portatori
di questa cultura fossero stranieri o locali, residenti o itineranti,
conta davvero molto poco. Quel che è importante è che
l'insediamento rupestre non costituisce una rottura con la tradizione
ambientale, né un suo irrigidirsi marginale fuori del flusso
della storia. E infatti nelle aree rupestri i motivi figurativi non
soltanto giungono, ma si sviluppano, si trasformano, si rinnovano
con il ritmo stesso delle aree urbane, pur tanto difformi nel modo
dell'esistenza.
Pertanto, l'antica interpretazione della civiltà rupestre come
frutto esclusivo del movimento monastico cede il passo ad una più
complessa e completa visione della realtà storica. L'immagine
dei monaci che, sbarcati a schiere sulle coste adriatiche meridionali
per sfuggire all'ira iconoclasta, si andavano ad attestare lungo i
roccioni tufacei aggirando e respingendo gli insediamenti cittadini,
(e questa è un'immagine diffusa e radicata in particolare nel
secolo scorso), è sostituita dalla più veritiera visione
di un mondo costituito anche di agricoltori, pastori, mercanti, guerrieri:
in altre parole, di tutti gli strati sociali che potevano e volevano
trovare posto in questo modello alternativo di vita.
Nessuna sorpresa se queste grotte presentano segni evidenti di frequentazione
preistorica. Sarebbe stato semmai impensabile che così non
fosse, perché si tratta di insediamenti naturali, su cui potevano
concentrarsi più o meno l'interesse e l'afflusso secondo le
circostanze, ma mai preclusi - appunto - alle frequentazioni. Va anzi
precisato che soprattutto la preistoria (e in questo senso davvero
senza alternativa, poiché la città non esisteva ancora)
si rivela, col progredire delle ricerche, ricca di testimonianze:
e valga per tutti l'esempio della Madonna della Scala, a Massafra,
dove sono stati rinvenuti oggetti appartenenti a un arco di tempo
che va dal V al Il millennio a.C.
Va anche messo in rilievo che la riduzione degli insediamenti rupestri
dal XIV secolo in poi non impedisce un loro sviluppo nuovo e significativo,
quello dell'architettura spontanea o "contadina", che rinnova
in forme diverse i vincoli di solidarietà propri delle vicinie
e delle corti rupestri. E proprio su questo filo conduttore giungiamo
ai nostri tempi e ai Sassi di Matera: non eredità di trogloditismo,
bensì ultima manifestazione di una civiltà millenaria.
Appunto: quella del "vivere in grotta". Che era nota anche
in Cappadocia, e non a caso. E che fu diffusa anche in Salento, un
poco ovunque, ma particolarmente sulle coste (Roca Vecchia insegni):
e non a caso neanche per questa terra-ponte del Mediterraneo.

Straordinari, d'altro canto, i rapporti tra Oriente e Puglia, anche
se molti misteri che sottendono non sono stati ancora risolti. E'
il caso delle stele daunie, di cui ci siamo già occupati sulle
pagine di questa rivista, e sulle quali torniamo perché oggi
disponiamo di un luogo di studio (il Museo Nazionale del Castello
Svevo di Manfredonia) e di un catalogo completo (realizzato da Maria
Luisa Nava, con l'analisi delle 1.600 stele recuperate).
La scoperta di questo patrimonio d'arte, di storia, di cultura, si
deve al caso. Nel senso che ancora una volta fu l'aratro a precedere
l'archeologo, riportando improvvisamente alla luce una testimonianza
di oltre 2500 anni fa. In un campo alla periferia di Mattinata, nel
Gargano, fu rinvenuta una piccola stele di pietra che raffigurava
l'immagine stilizzata di un guerriero armato di un grosso pugnale.
In un primo momento l'oggetto non venne riconosciuto e finì
per rinforzare una delle tante muricce a secco che circondano i campi
coltivati dello sperone pugliese. In seguito fu riscoperta e identificata
come una tipica stele dei Dauni, un popolo che nel primo millennio
avanti Cristo abitò la Puglia settentrionale e del quale gli
antichi storici ci hanno lasciato scarsissime notizie. Le testimonianze
archeologiche della Daunia sono rappresentate prevalentemente da vasellame
ceramico decorato in stile geometrico, e da queste stele (intere o
frammenti) recuperate negli ultimi quattro decenni circa.
La storia della scoperta ebbe inizio nel 1960, quando Matteo Sansone,
farmacista di Mattinata e poi ispettore onorario della Soprintendenza
per l'arca garganica, segnalò agli archeologi l'esistenza di
una stele antropomorfa che, secondo lui, denotava caratteristiche
di notevole antichità. Era la prima volta che gli studiosi
si trovavano di fronte a un reperto con quelle caratteristiche, e
per qualche tempo lo attribuirono, sbrigativamente, all'epoca bizantina.
Fino al giorno in cui una foto della stele finì nelle mani
di Silvio Ferri, docente dell'Università di Pisa, che ne riconobbe
l'importanza e iniziò una vera e propria caccia alla stele.
Impresa tutt'altro che facile, perché da sempre i contadini
del luogo incontravano nei campi quelle lastre di forma regolare e
da sempre le utilizzavano per rinforzare i muri a secco, per murarle
come gradini o pavimenti di stalle. Furono ispezionati chilometri
di muri, visitati tutti i cascinali della zona, interrogati più
contadini possibile. Risultato: una collezione di stele che rivelarono
un panorama culturale fino ad allora sconosciuto.
L'area più direttamente interessata si rivelò quella
della Piana di Siponto, anticamente occupata da una laguna. Qui le
stele venivano rinvenute prevalentemente in corrispondenza di leggeri
rilievi (denominati "coppe"), che in quel tempo rappresentavano
le parti emergenti dalle acque. La vasta raccolta dei materiali precisò
le caratteristiche salienti dei reperti. Le stele sono formate da
lastre di pietra calcarea tagliate in forma di parallelepipedo con
dimensioni che vanno dai 40 ai 130 centimetri di altezza e dal 3 ai
12 centimetri di spessore. Le due facce larghe della lastra sono incise
in modo da disegnare una figura umana - di fronte e di schiena - riccamente
vestita, carica di ornamenti o di armi. L'incisione che crea l'immagine
è molto sottile e spesso appena visibile, in quanto originariamente
le figure erano definite con l'aiuto dei colori rosso e nero, oggi
appena percettibili sulle stele meglio conservate. La decorazione,
oltre a rappresentare minutamente l'abito e gli ornamenti, in molti
casi è completata da "scenette" collocate di solito
nelle zone libere del torace: immagini dove agiscono uomini e animali,
reali o fantastici, che documentano diversi aspetti della vita quotidiana,
episodi mitologici e cerimonie riferibili al culto dei morti e al
mondo degli Inferi, che sembrano illustrare usanze descritte dagli
autori antichi come tipiche delle popolazioni del Mediterraneo orientale.
Si riconoscono usi delle popolazioni della Tracia raccontati da Erodoto,
esseri femminili con serpenti in testa, del tutto simili alle Erinni,
giochi funebri che ricordano quelli descritti da Omero, chimere, cavalli
alati, molti mostri che popolarono la mitologia greca. C'è
anche una scena, più volte riprodotta sulle stele, che è
stata interpretata come una versione daunia dell'episodio omerico
del riscatto del corpo di Ettore: ed è la più chiara
testimonianza del legame della cultura di quest'area con i popoli
al di là dell'Adriatico.
Ha scritto la curatrice dello splendido catalogo: "Il mondo daunio
appare singolarmente collegato al Mediterraneo orientale, in una comunione
di riti e credenze, che trascende la sfera delle possibili e probabili
influenze dovute agli scambi commerciali e culturali, ponendo altresì
il problema della genesi e della primitiva formazione di questo popolo
e giustificando l'ipotesi, sostenuta da Silvio Ferri, di un'originaria
provenienza alla fine del Il millennio avanti Cristo dall'Oriente
Egeo, area con la quale i Dauni della piena età del Ferro si
mostrano sempre culturalmente legati in una strettissima comunanza
spirituale".
Ma il mistero permane, perché dall'altra parte dell'Adriatico
non si trova niente che ricordi il mondo daunio e che giustifichi
l'ipotesi di una sua origine orientale, che peraltro sembra proprio
indiscutibile. Allora? Allora non resta che continuare ad interrogare
le stele della Daunia, queste 1.600 testimonianze uniche anch'esse
al mondo: e sperare che prima o poi possano rispondere alle nostre
domande.