§ POETI SALENTINI

UN CANTO PER LA TERRA




AA. VV.



I. Tra natura e cultura: Donato Moro

Senza voler instaurare un'ennesima "linea poetica" nella cultura letteraria del Novecento italiano, non si può comunque sottacere che da quella terra, in terra di Puglia, che è il Salento, hanno tratto linfa vitale diversi poeti - da Girolamo Corni a Vittorio Pagano, da Vittorio Bodini a Giovanni Francesco Romano, da Flora Russo a Lucia Congedo Serra, da Nicola G. De Donno a Donato Moro, a Lucio Romano - ormai ben riconoscibili nel più ampio panorama della lirica italiana del nostro secolo.
Prendiamo Donato Moro, che in Segni nostri (Manduria-Bari-Roma, Lacaita editore, 1993) ha raccolto una novantina di liriche composte tra i primi anni Quaranta e gli anni Ottanta, testimonianza quindi di un percorso ideativo e creativo svoltosi nell'arco di un lungo periodo di vita; una vita così simile per più di una generazione di uomini di cultura che dal Sud hanno dovuto portare a maturazione i loro genuini talenti spesso peregrinando attraverso altre terre, altre città, altri paesaggi italiani. Se vogliamo è poi, questa, una condizione tipica dei poeti italiani, a partire dal padre Dante, fino, per il Novecento, a Pirandello, a Quasimodo, a Gatto. E più questo peregrinare porta all'incontro con altre culture, altre etnie, altre mentalità, più alcuni di questi poeti tentano di non recidere il cordone ombelicale che li lega al grembo originario della loro terra, della loro natura, della loro nascita. Ancor di più oggi, al fine di rompere i lacci di un'omologazione invadente e massiccia, questo riferirsi a un'identità di linguaggio, in particolare il dialetto, di paesaggio naturale, di fondamenti etnico-antropologici, diventa uno dei tratti più salienti e persuasivi, e sul piano delle tematiche e su quello delle forme espressive, della poesia e della narrativa d'oggi.
Per Donato Moro, dunque, è il Salento che occupa il suo spazio immaginario, che gli offre i comunitari "segni" per riconoscersi in un originario, e originale, microcosmo abitato da figure familiari, da animali, da piante, da oggetti; un microcosmo che diventa anche spazio d'anima, respiro fisico, mitografia essenziale e realistica, priva di enfasi e di retorica. Si veda l'inizio di Salento.

Càlcare cagliato ai piedi degli ulivi
riserbo di muri a secco
incolta rassegnazione di fichi,
polvere di eremiti contadini
di capre portate alla cerca con la cavezza
di spoglie stemperate di cicale.

Lo stile nominale di questi versi sta lì a dirci su quali fondamenti, da sempre, si configura la condizione di una terra; la cultura salentina è cultura della terra, cultura e natura sono strettamente relate, ma non in una dimensione idilliaca; la natura è anche (c'è stato un Leopardi di mezzo) matrigna, e poco generosa, e dura.
E si veda pure un'altra lirica, La mia terra, ideata nel 1946 e ripresa e resa compiuta nel 1968, che, a mio parere, risulta essere una poesia "programmatica", esemplare sia per i temi trattati, sia per le soluzioni di lingua e stile, che qui rappresentano una cifra espressiva estensibile a tutto il corpus del libro. Se ne legga la prima strofa:

La mia terra è l'ultima delle terre che vivono gli uomini
piana come l'Ionio in bonaccia negli immensi meriggi
e i venti vi dilagano tra fervidi soli.
Fuma rossa la campagna
rugosa la parola su bocche screpolate.

Da un punto di vista reale e realistico di quel "mia terra" si traguarda l'immagine "l'ultima delle terre", che la colloca lontana nel tempo e nello spazio, ai limiti d'ogni apparenza concreta e reale. E' un processo, questo, tramite il quale il Moro inventa quei miti che, come afferma Oreste Macrí nella prefazione, "concentrano in assoluto iconico sentimenti, emozioni, pensieri dell'uomo col suo ambiente umanizzato, magicamente ... ". E' certamente una mitologia che nasce da un incrocio tra memoria collettiva ed esperienza personale, e che la parola poetica tende a universalizzare, e rappresentare, attraverso i suoi oggetti, le sue metafore, i suoi quadri; e certamente è plausibile parlare di iconicità, di colori, di cromatismi (in genere il "nero" e il "bianco"), di luce. Si veda ad esempio Non piove raggio di luna ... :

Non piove raggio di luna nelle cave dei tufi,
acqua non calma l'arsura delle pietre arroventate.

Le bianche case basse sulla mia terra
sono branchi spauriti in cerca d'erba.

Si veda in particolare il secondo distico e si noti come l'immagine delle case ha una concentrazione descrittiva marcatissima, vicina, visivamente, a certi quadri post-impressionistici, dove l'analogia case-branchi scatta non solo per arricchimento di polisemìa, ma anche per quelle sue connotazioni di un mondo in penuria e di pena che investe e l'elemento antropologico e quello animale-vegetale.
Accennavo più sopra al "nero" e al campo semantico in cui tale colore (che poi colore non è) si colloca; abbiamo così, in rapida scorsa, lo "scialle nero" della mamma che "piange", e le sue "vesti nere"; il "vestito nero" della raccoglitrice di sale; la "veste nera" della vecchia che "tende le mani"; 'Tonda nera" che accompagna il polparo scrutando gli "anfratti neri" della scogliera, il "nero fiume" di pianto che bagna il volto della donna amata; gli "occhi neri" delle contadine.
E' un facile simbolismo questo che si esercita sull'insistente presenza del "nero"? Certo esso può valere come connotazione di una visione generale delle cose e del mondo, di una filosofia del vivere; ma direi che per Moro è soprattutto una oggettiva caratteristica della realtà, anche minuta, povera, umile, di quell'universo di cose reali e vissute che è stato ed è per lui il Salento; una realtà che parla da sé, si mostra da sé per quello che è; al poeta resta certo il montaggio di quelle immagini del reale, oltreché la scelta, ovviamente, giacché in questa poesia non abbiamo la pretesa naturalistica di mostrare un mondo in attesa di riscatto sociale, economico, politico.
C'è, però, mi pare, determinante, come un rispetto religioso, un affiato che, proprio in senso etimologico, vuole legare tra loro uomini, animali, piante, colture, oggetti. Il poeta, umilmente, si pone come sacerdote di una memoria da salvare, con la quale non vada perduto tutto il valore umano e sacrale di quel mondo:

Basse le, Gallinelle fra le pale
del grande ficodindia
notte cava sulla cisterna vuota
la masseria merlata muro d'ombre,
l'Orsa è scomparsa dietro nube fonda
e c'è la tramontana.

Ecco le prime gocce
su foglie secche,
riapro il canale con la zappa
alla pioggia che viene.

In questa lirica, Alla pioggia che viene, quel gesto di accoglimento dell'elemento naturale, che leggiamo negli ultimi versi, assume ieraticamente il significato di un rituale. Ma la natura è un "tutto che scorre" ed in questa eraclitea visione del mondo il poeta legge "la misura più vera della vita" (in Eterno:

Respira fra le nubi e la pianura
la misura più vera della vita.
Nulla mai resta,
la casa di campagna è diroccata
e sullo specchio infranto si rimira
la nube delle allodole incantata
).

Il destino dell'uomo si commisura, pertanto, ad una saggezza senza tempo o immemorabile, alle immutabili leggi del cosmo e della natura. Si devono così cercare i "segni" "nascosti dietro tortuosi muri", ed è in essi che per Moro natura, memoria, interpretazione e cultura si incontrano:

Noi li cerchiamo per crescere nei punti
per ritrovare il centro fra spine e rami
secchi
per capire noi stessi a cui non basta
né l'acqua amara né amore della madre.

(A Nino Della Notte)

Giorgio Taffon

II. Una schietta voce di poesia: Giovanni Francesco Romano

"Il vento e le stagioni"
Il gusto dell'essenzialità, forse maturato nella frequentazione dei lirici greci e del primo Ungaretti, il dono della grazia musicale educato al monito verlainiano della nuance, la capacità di isolare l'immagine e di farla balenare in puntigliosa pregnanza simbolica, la sapienza della costruzione circolare con perentorio suggello ritmico: ecco gli elementi che il lettore di altri versi di Giovanni Francesco Romano può assumere come presagi della raccolta postuma di poesie haiku, uscita a Lecce, nel 1990, con un'intelligente e affettuosa introduzione di Aldo Bello.
Metro fra i più antichi della poesia giapponese, l'haiku configura un esile organismo di tre versi appena, e solo un poeta autentico, capace di concentrazione lirica e di fulminei raccordi analogici, può preservarlo dai rischi della banalità, dell'inopia e della slegatura.
Le haiku di Romano sono deliziose: ilari o meste, argute o meditative, esse sono attraversate da una doratura di sorriso che le fa lievitare nello stupore di una fantasia fanciulla, intesa a ricostruire il senso aurorale del mondo. Suggestioni del fanciullino pascoliano, meno corrotto della coscienza del suo stato anagrafico? Magistero occulto del Govoni dell'Inaugurazione della Primavera, più inoltrato nella festevolezza dell'affabulazione naturalistica? Sembra che Romano abbia cercato altrove i suoi modelli e li abbia trovati negli autori giapponesi di haiku (Kikako Takarai, Matsuo Bashô,
Chioni Fukuda, Reikan): forse da loro ha appreso la difficile arte del prosciugamento lessicale e sintattico, la castità incantevole delle linee disegnative, la tecnica della condensazione e della rarefazione, la naturalezza nel rimuovere le scorie della convenzione letteraria per conferire alla parola non so che innocenza primigenia. Sta di fatto che in queste liriche di Romano (poeta coltissimo) la materia culturale non è residuo inerte, ma propellente fantastico, sostanza attiva nel processo trasfiguratore.
Strutturato in quattro sezioni, corrispondenti alle stagioni dell'anno, il volume ha un'unità sinfoniale: suggerisce l'idea di un poema le cui parti trovano il collante più forte nel motivo della natura, colta preferibilmente nell'éclat epifanico o nella magia metamorfica.
Ecco qualche esempio, fra i tanti:

A contemplarci
dall'alto il luminoso
sguardo di Dio (Sole di primavera);

Il verme pigro
ora danza nel sole
con ali d'oro (Il verme)

Sono versi che lasciano trasparire il volto di un poeta assorto in una contemplazione religiosa delle apparenze fenomeniche, per cogliere dietro di esse segnali e messaggi di realtà più fonde e misteriose, che consentono un'interpretazione univoca e globale dell'esistenza, secondo un processo conoscitivo proprio di certe filosofie orientali.
La natura, dicevo, occupa lo spazio maggiore; ma non esaurisce la tastiera tematica del testo, che è assai ricca e varia. Netto rilievo vi assumono gli affetti familiari, la malinconia esistenziale legata alla coscienza del declino d'ogni cosa terrena, il vagheggiamento della bellezza muliebre, il sodalizio amicale. Alla varietà dei temi corrisponde quella dei timbri e dei toni, ad esorcizzare il rischio dell'uniformità e della piattezza.
Signore della tecnica versificatoria (una connotazione che spiega la felicità dei risultati conseguiti nelle prove di versione dagli antichi epigrammisti di Grecia), Romano alterna, nei suoi haiku, i quinari e i settenari agli endecasillabi, traendo da essi effetti melodici di suggestiva finezza, che concorrono all'atmosfera sospesa e incantata della rappresentazione. I loro registri sommessi hanno il senso di una delega all'eloquenza.

"Superstite, io rammento"
La premessa di Donato Moro al secondo volume postumo di G. F. Romano (Lecce, Manni, 1993) è così generosamente espansa nell'economia del saggio e così lucida nel separare la testimonianza amicale dalle ragioni della critica, che quasi viene meno ogni spazio ad altre ipotesi interpretative e valutative.
Del resto la poesia di Romano non è fra quelle che provocano avventure ermeneutiche e discordanza di giudizi: è poesia chiara, senza nodi semantici da sciogliere, franca e leale nel suo progetto di relazionalità.
Temperamento crepuscolare (si noti l'alto indice di frequenza delle immagini afferenti ai topoi del crepuscolarismo storico: la condizione del superstite, la vita chiusa, l'agonia delle cose, il vagheggiamento di un rifugio, la giornata spoglia di ogni éclat vitalistico), Romano ha intuito i rischi che la sua disposizione psicologica comportava per la dizione poetica ed ha esorcizzato la "sciatta elegia" che in molti testi dei crepuscolari storici fu prova di scarsa coscienza stilistica. Romano ha avvertito la necessità di una mediazione letteraria che nobilitasse la materia affettiva attraverso riconosciuti blasoni, ma al tempo stesso la preservasse dalle patologie del sentimentalismo querulo e languente. Si trattava di legittimare la condizione crepuscolare, liberandola dai suoi angusti confini stagionali e proponendola come una categoria dell'esistenza, capace di disporsi nel linguaggio della modernità.
Era un problema di stile, e Romano l'ha risolto con discrezione e finezza, scegliendo i suoi modelli tra i lirici della Grecia antica (è sua una splendida versione degli epigrammi di Leonida di Taranto, Anite e Nosside) e più ancora fra i poetae novi del nostro Novecento ermetico. Ungaretti, il Quasimodo della prima stagione, Gatto, De Libero, Solmi, Luzi: ecco i maestri dai quali ha appreso la tecnica della concentrazione analogica, dell'immagine folgorante, della sfumatura musicale, della pregnanza semantica, e l'arte di preservare la polpa verbale dai processi infiammatori trattenendola in quel calore latente che, per dirla col Sinisgalli, "garantisce vita millenaria ai fossili e alle mummie". Ma Romano è un allievo capace di autonomia e di scelte ben sue. Ad esempio, distingue risolutamente fra poesia pura e poesia ermetica, (nel senso più stretto che il Flora attribuì a questo aggettivo), rifiuta, per onestà mentale, l'oscurità programmatica, così come si distanzia dallo sperimentalismo di laboratorio.
E' questa, a mio avviso, la ragione per cui la prima impressione positiva che il lettore trae dal libro di Romano riguarda non tanto il cosiddetto "contenuto", quanto la dizione, il timbro, l'allure dei versi con la loro musica lieve e struggente (solo in pochissimi casi arresa alla pericolosa categoria del grazioso), con la loro scorrevolezza danzante, che può sembrare facilità solo a chi non sappia recepirla come frutto di macerata ricerca. Quanto ai temi della raccolta, essi son quelli che Saba collocherebbe tra i più antichi e difficili del mondo: l'amore col suo corteo di speranze e di disinganni, l'amicizia sentita con trasporto di gentilezza quasi muliebre (bellissima, per castità di forme e intensità di affetti, la lirica dedicata ad Enzo Esposito), la nostalgia del caro tempo giovanile, la corrispondenza coi morti, gli affetti domestici, la ricerca di Dio. Temi antichi, ma il poeta, assai spesso, li chiama a nuova vita, li restituisce a non so che verginità, e riesce a renderli coinvolgenti, anche quando più faticoso, e perciò più palese, risulta il processo di mediazione letteraria cui accennavo pocanzi.
Barbey d'Aurevilly, il quale, come tutti i superbi, aveva sortite di deliziosa umiltà, scrisse: "Forse io non sono che un mascherone nel tempio dell'arte. Ma sono nel tempio".
Di Romano potremmo dire: sta nel tempio della poesia, e poco importa misurare la distanza che lo separa dall'altare maggiore.
Vissuto, schivo e tormentato, in provincia, egli non ebbe i riconoscimenti che meritava; ed ora ben fanno gli amici a chiedere riparazioni. I tempi sembrano propizi: le nuove generazioni tornano ad interrogare i poeti e, grazie a Dio, sono disposti ad apprezzare anche quelli che non hanno depositato l'anima nelle formule dell'engagement ideologico.
Renato Filippelli


Gli "Epigrammi" di Leonida, Anite e Nosside.

Torna in mente, davanti alle traduzioni dal greco (Lecce, Manni, 1994) di Giovanni Francesco Romano, certa felice tradizione classicistica del Liceo "P. Colonna" di Galatina, nel quale i Duma, i D'Onofrio, gli Specchia ed altri profondevano doni preziosi adottando discretamente il principio dello z=low, cioè della aemulatio, della gara col modello, che porta alla versione artistica dai fini non pratici, ma estetici: un tradurre come "vertere", che vale effettuare una sorta di "trasmigrazione" del testo originale, a cui accostarsi su un piano e tecnico e metafisico, lavorando a pari livello, con doveri e responsabilità sia verso lo scrittore originario sia verso il nuovo pubblico, che vale insomma rendere soprattutto i valori stilistici dell'originale, il suo effetto estetico complessivo, il suo "spirito". Modi, si vede, improntati a cautela, a prudenza, che sono condizioni di buona scuola.
Ecco, frutto d'una tale scuola è Giovanni Francesco Romano, poeta armoniosissimo, che, nel tradurre, realizza una carica stilistica non inferiore alla sua carica affettiva, ridisegnando la presenza umana che nell'originale è implicita come occhio che guarda e in lui si fa esplicita come sentimento che partecipa.
Il quadro si apre con Leonida da Taranto, il cui epigramma così denso di sapore alessandrino, è strutturato su triadi di concetti, con impiego di vocaboli nuovi, di precisi termini tecnici, con una lingua elaborata e dai continui giuochi verbali fin troppo appariscenti, caratterizzato infine dalla singolarità dei contenuti spesso sorprendentemente vicini al vivere quotidiano di misere e laboriose esistenze.
Seguono Anite e Nosside, il cui tratto distintivo è quello di cogliere con forza espressiva, nel breve giro dell'epigramma, un momento di vita, uno stato d'animo.

E se verso Mitilene,
lieta di danze, navighi, straniero,
per infiammarti al fiore
delle grazie di Saffo,
dì che cara alle Muse io nacqui a Locri.
Va', non scordare: Nosside il mio nome!

Il componimento, che riproduce lo schema canonico dell'epigramma funerario, chiaro nella sua esterna cornice, è giunto a noi sovraccarico di congetture diverse e contrastanti. Poi l'orizzonte esegetico s'è appianato: a chiusura del suo libro, Nosside avverte dunque il bisogno di lasciare un documento della sua sconfinata ammirazione nei confronti di Saffo. L'ammirazione si stempera, nel breve giro di un distico, in un commosso saluto dove in filigrana è da leggere anche un giudizio acutissimo sulle singolari qualità poetiche della grande Saffo. Un saluto immaginariamente scolpito sulla pietra a ricordo di sé (anche Nosside fu amica delle Muse), ma specialmente a ricordo della maestra amata e sognata che qualche secolo prima aveva con diverso vigore fantastico esaltato nel suo canto immortale il medesimo ideale di vita: il primato di Amore sopra ogni altro bene. Ma Nosside non pretende di proclamarsi uguale a Saffo; avverte soltanto l'orgoglio della sua, quale che sia, dimensione di poetessa nell'ambito del genere epigrammatico.
E veniamo all'operazione traduttiva di Romano, che, tanto per intenderci, si pone tra il Fraccaroli di serriana memoria e Quasimodo, tra Fraccaroli cioè che rimaneggia e Quasimodo che ricrea, tra due estremi insomma poco rispettosi del valore essenziale della parola antica, tutti presi come sono dal cosiddetto contenuto poetico, dall'immagine, che essi trascrivono con variata (nel complesso scarsa) fedeltà. Per il Fraccaroli e in genere per i traduttori-filologi (ma non si trascuri la luminosa presenza di un Leopardi!) rimando al catalogo di scontentezze di Serra, da cui lo stesso Quasimodo avrà derivato nel suo Chiarimento la convinzione che i poeti dell'antichità, "affidati alle avventure di versificazione anche di grecisti insigni, sono arrivati a noi con esattezza di numeri, ma privati del canto". L'osservazione può essere giusta; ma quale il rimedio? Tradurre, considerando l'originale come pretesto, suggerimento, stimolo a emulare, sicché alla fine si abbia una nuova poesia da porre a fianco o di fronte al testo primo? E' chiaro però che facilmente in questo modo si finisce col tradire l'autenticità di modi e immagini degli antichi poeti. Si fanno delle variazioni su questo o quel tema, ecco tutto; ma dov'è più il segno distintivo, la postilla decisa, la nota inconfondibile dei vari componimenti? Saffo, Alceo, Erinna, Anacreonte, Alemane ... e Ibico, Teognide, Praxilla ecc. hanno tutti lo stesso volto nella traduzione di Quasimodo, quello appunto del traduttore che si è loro sostituito in tutto e per tutto, facendo quasi violenza a quel sacrario d'innocenza che è la parola antica e caricandola di segni estranei, indizi evidenti di una sensibilità troppo diversa, troppo indifesa dalle suggestioni offerte da qualche prestigioso sortilegio decadente. Siamo di fronte, credo, a un caso particolare di narcisismo, per cui quel che conta non è più l'originale, ormai deformato e disperso, ma l'interpretazione, che è qualcosa d'altro, che è soprattutto Quasimodo.
Ma ecco ora Giovanni Francesco Romano con la sua viva testimonianza di traduttore onesto, che solo intende farei penetrare nel mondo autentico dei tre epigrammisti: partendo infatti da una sincera (di base) esigenza storico-filologica, egli è attento a gustare delle parole il significato proprio, la dimensione esatta, dei testi il senso primo, e tutto ciò trascrive, mantenendo, quasi per un miracolo di gusto e intuito, la freschezza e la necessità dell'originale. Questo è tradurre, che non vuol dire dunque mortificare o annullare il testo primo, ma semplicemente svelarlo nella sua concretezza storica, assumendo nello spazio e nel tempo i suoi caratteri di natura, mediante i quali lo riconosciamo come espresso da Leonida o da Anite o da Nosside. Si salva così quel titolo di dignità umana, che è sempre rispetto della dignità dell'altro.
Enzo Esposito


III. Il nuovo codice lirico di Flora Russo

Di Flora Russo resiste la scommessa sulla durata dei significati, dei segni letterari e dei linguaggi, scommessa che è in rapporto con la frequenza dell'invenzione, donde la pura ipotesi simbolica che non ha bisogno alcuno di punti esterni di verifica, bastando l'interna coerenza sistematica. Certo, pretendere di definire una costanza nella situazione che i testi poetici di volta in volta offrono può risultare anche più di quanto sia lecito: opportuno allora che si accolga ogni presenza con adeguata attenzione, dando il giusto peso e il degno riconoscimento alla vitalità del fenomeno che si registra.
Imprendiamo dunque un avvio determinato, essendo molteplici e di svariata valenza le sollecitazioni e i pretesti, che assicurano in fondo il carattere quasi sempre "onesto" dei testi poetici, perfino, al limite, di quelli più compromessi con un'idea della poesia come decorazione innocua e gradevole, consolatrice e gentile.
Certo, si deve esigere ben altro dalla poesia; ma è pure vero che la richiesta può ritornare vuota di risposta, quando cioè la risonanza viene da un modello del mondo come ipotesi metamorfica, come struttura drammatica, in quanto rappresentazione dello scontro con le opposizioni, con gli inganni, le remore dello stato attuale delle cose.
Un esempio di scatto in questo senso è possibile darlo: e non è piccolo trofeo.
Azzurre latitudini (1992) è il titolo delle terze poesie d'amore di Flora Russo, la cui ispirazione vi trova approdi quasi (o forse) definitivi. Ecco, si può dire che il discorso lirico - dopo gli esiti di Nuda (1978) e de La voglia pura (1986) - vi risulta composto e risolto con l'assunzione in profondo delle forme espressive della situazione psicologico-esistenziale ed onirica, con il recupero pieno e armonico dell'analogia, dell'immaginismo cromatico, della sentenza.
L'analogia tesse un intreccio di richiami da un'immagine all'altra in virtù di un'adesione patetica alla realtà: partecipazione più scoperta e ostensiva in Nuda, più dissimulata, ma non remota, in La voglia pura.
L'immaginismo si tempera entro la trama riflessiva, si risolve in singole immagini; e le immagini, una per una, danno forma e canto non più alle situazioni solamente affermate, ma ai movimenti interni della meditazione. E perciò la sentenza sveste l'abito della perentorietà, la sua condizione di mottetto, assume un accento casto e trattenuto, diviene strutturalmente il termine più acuto di una disvelata vicenda umana.
Le fondamentali ragioni di tale itinerario sono la scoperta della realtà, la conquista del modulo classico nei tratti essenziali di un'educazione operosa ed elettiva tesa ad assorbire in sé, giustificare, condurre alla massima chiarezza inventiva e verbale i sensi difficili e le sottili esperienze tecnico-stilistiche dell'ultimo "ismo" o "post-ismo". In virtù di certa felice mediazione tra magia visiva e modulo classico la Russo ha potuto e saputo eludere simbolismi e finzioni allegoriche, giovandole - nel senso dell'analogia come rapporto visivo - la franca dissociazione dialettica fra sogno e realtà.


"Sei lirica assoluta / di vento circolare / nei limiti dell'anima";

"Sei cielo che si versa / dentro un circolo chiuso";

"Non altro sei. / Soltanto questo essere / parola vera / e rapida carezza / che fermenta la vita / E questo chiaro / dolce nei tuoi occhi / di alba nuda / sopra i miei capelli / che il vento, dentro il cuore, / mi dissemina";

"Memoria è solo musica / di ore respirabili, / impronta che hai lasciato / su lunghi calendari / di passeri, di sole";

"Nella tua luce: / la pena desser vivo, / come riso trattenuto";

"Ora, sei solo il verbo / della mia solitudine".

Un campionario essenziale e prezioso dei fitti eventi lirici che sono base portante, esaustiva del "canzoniere d'amore" della Russo, "così estatico e così divorante", per usare la stessa maniera qualificativa di Mario Luzi.
Vi convergono - non c'è dubbio - le forme peculiari del lirismo novecentesco con gli esatti e chiari aspetti che le contraddistinguono:

"Di giorno, prende forma il tuo sorriso / d'amore tutto nudo, posseduto, / la tua mano d'olivo nella nebbia / del mio nido di cielo. / E se distolgo gli occhi dal tuo viso / che vive solo dentro la memoria / d'un sogno che ho inventato per sentire / che esisti, che sei mio, / rimane dentro il cuore la parola / che scende a capofitto nello spazio / di questa voglia dolce che mi prende / di stringerti vicino. / E se la notte scende per dormire / sui tuoi capelli teneri, di suoni, / con stelle che riaccendono la luce, / rimane dentro l'anima l'essenza".

Si coglie in questi versi un respiro calmo ed ampio, che avviluppa ogni tratto espressivo nella sua andatura regolare; e si coglie una vitalità sempre accesa che pervade ogni spunto animandolo agevolmente. Così, esemplari risultano questi altri versi: "Lo ridurrò, nel cuore, / a pagina di libro / il morso che m'hai dato. / Domani lo farò. / Non ora che i tuoi occhi / convergono nel mare d'amore che travolge, / s'infila nella manica, / felice di frugare / negli angoli più lirici". Una sensualità che poteva sboccare nel torbido viene invece tutta purificata da un pacato sorriso, che la fa serena e le dà accenti di una compostezza quasi classica.
Le conferme giovano, sicché è acquisto critico ormai sicuro che la poesia di Flora Russo con l'autorità che le viene da certo duttile impianto o stemma classico, si pone oggi di fronte ed entro una crisi che è franca ricerca di fonde verità che resistono, di ancoraggi fermi nel tempo e nello spazio, di illusioni che si risolvono in speranze e in invocazioni all'uomo, nel segno dell'amore, in un ordine di comunicazione universale. "Tendo le mani e le ritiro vuote, / perché la forma tua è solo luce / di fari che riaccendono nell'ombra / i lirici sospiri d'abbandono. / E quello che mi scorre dentro il sangue, / sentendo il tuo calore metafisico, / in questa notte fredda che rimarca / l'assenza tua di pino nella selva / dei sogni nudi e casti che ti canto, / lo sa soltanto l'anima / che ascolta / i palpiti dispersi nella tua".
Ancora una tessera per il mosaico definitorio: è poesia piena di consapevolezza, nitida, equilibrata, con un suo reale potere di canto. Flora Russo vi è profondata con la consapevolezza appunto dei propri vissuti e della loro ricostruzione continua nel presente attraverso la riflessione e la creatività poetica, con un'intima fiduciosa fedeltà alla propria natura e con una sofferta analisi delle proprie emozioni, fiduciosa fedeltà e sofferta analisi che si esprimono in un linguaggio poetico ricco e variegato, a volte come lirico lampo dell'anima, a volte sinuoso e accumulativo, a volte quasi a sembrare addirittura prosastico e gnomico.
Sara Esposito


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