"La
felicità e l'angoscia, la gaiezza e la tristezza sono naturalmente
contagiose. Portate la vostra gaiezza e la vostra forza al debole e
al malato e voi sarete utili ad essi. Soltanto la vita può rigenerare
la vita".
(Marc'Aurelio)
Del vecchio ma
sempre attuale e pregnante problema in conferenze ed articoli mi sono
già occupato. Limiterò il discorso soltanto agli aspetti
eticodeontologici, lasciando nel cassetto quelli contrastati e scottantissimi
della bioetica. A riprendere la parola mi inducono le persistenti
veementi ed inindulgenti critiche che giornali e mass-media quotidianamente
ci ammanniscono, di cui alcune ammantate da sentenze "in itinere"
ed altre da sentenze passate "in giudicato". Non sarò
aprioristico apologeta di una classe corporativa, ma sereno arbitro
ed obiettivo interprete di alcune situazioni, disfunzioni, incidenti
e reati, deprecabilissimi, realmente verificatisi. Premetto che se
tutti noi, medici e paramedici, ottemperassimo ed operassimo secondo
i precetti di Ippocrate e le norme dal Codice deontologico previste,
l'articolo non troverebbe giustificazione. Da gregario prima e da
primario e direttore sanitario poi, ho trascorso 42 anni della mia
attività professionale negli Ospedali; penso ciò mi
consenta alcune considerazioni e riflessioni.
Ricordo come, storicamente, l'assistenza al malato, improntata dapprima
su di un piano caritativo-spirituale, sì da essere considerata
un atto d'amore verso i sofferenti, abbia assunto successivamente
un carattere tecnico-pratico, legato alla preparazione e alla esperienza
e, attualmente, una veste decisamente scientifico-professionale, condizionata
alla cultura, alle capacità tecniche e alla sensibilità
dell'équipe assistenziale.
Al primitivo ed originario binomio quindi di vocazione-missione, cui
seguì quello di arte-missione, è oggi subentrato il
trinomio di arte-professione-missione, dovendosi ritenere la preparazione
teorico-pratica e quella psicologica prioritarie.
"Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est":
la saggia umana ed orante espressione benedettina è di sì
alta significazione spirituale e di così profondo contenuto
etico da farei sentire l'impegno e la responsabilità per una
tra le più nobili attività per le quali l'uomo vive
ed opera!
Preciso che per "staff assistenziale" è da intendersi
quella microcomunità costituita da medici e paramedici (capo-sala,
infermieri professionali, ostetriche, puericultrici, assistenti sanitarie
e sociali, vigilatrici d'infanzia, cappellani, ecc.) e che quanto
dirò sulla preparazione tecnico-psicologica vale per ciascuna
di quelle componenti.
Molto espressiva è la similitudine che Iandolo fa di una équipe
ospedaliera: "l'attività di una équipe sanitaria
somiglia molto ad una orchestra. I vari orchestrali hanno ruoli di
diversa importanza (si pensi alla differenza tra il primo violino
ed il suonatore di timpano), suonano per tempi diversi, entrano in
azione in momenti diversi; ma tutti svolgono una azione indispensabile,
tutti sono convinti della importanza del ruolo e della necessità
di obbedire al direttore d'orchestra".
Se autorità e potere sono in mano di un direttore d'orchestra
chiamato Primario, egli dovrà servirsene con intelligenza,
tatto, imparzialità ed umanità ed i suoi collaboratori,
assecondandolo, dovranno avere per lui rispetto e stima, anche se
talvolta non ne condividono pareri e decisioni, tutti dovendosi considerare
anelli indispensabili di una catena di montaggio di una macchina chiamata
assistenza.
La crisi dell'assistenza sanitaria negli Ospedali è un fenomeno
riportabile a cause estrinseche ed intrinseche. Omettendo di parlare
di quelle estrinseche che investono le Autorità, gli "addetti
ai lavori" di alto rango e la stessa organizzazione (nelle sue
diverse articolazioni) del SSN, con dirigenti e responsabili non sempre
all'altezza dei compiti chiamati a svolgere e non per meriti professionale
ma con criteri politico-demagogici eletti, mi soffermerò su
una sinottica analisi di quelle intrinseche.
E' risaputo che i malati non gradiscono l'ospedalizzazione. Se poi,
volenti o nolenti, finiscono con l'accedervi, su pressioni del curante
o per motivi diagnostico-terapeutici, lasciano l'ambiente familiare
con estremo disagio, anche nella incertezza e paura del nuovo. Nella
loro accettazione è implicita o sottintesa la convinzione di
un breve periodo di degenza col rapido ripristino della salute e,
quindi, del ritorno a casa. Per altri, invece, può essere il
segnale che un male oscuro si nasconda (di cui medici e familiari
celano la presenza e l'entità) e vi accedono nella speranza
che altri medici ed altre cure possano migliorarli o guarirli. Dalla
Accettazione al reparto di destinazione il tragitto è breve,
a meno che non subentrino difficoltà logistiche o contrastanti
pareri diagnostici, che ritarderebbero, oltre ogni ragionevole limite,
il ricovero.
Una volta in reparto, il paziente viene accolto da uno o più
paramedici che comunicheranno ai medici l'avvenuto ingresso. Se l'impatto
sarà di cortesia, simpatia, comprensione e di apertura verbale,
sussisteranno già le premesse per un accattivante rapporto,
in un clima confidenziale che non farà eccessivamente rimpiangere
il nido domestico. Se il paziente verrà invece accolto con
indifferenza, insensibilità, incomprensione per le sue sofferenze
e, persino, con arroganza, è facile prevedere l'esordio di
un rapporto conflittuale, di cui il primario dovrà tenere conto,
ricomponendolo.
Occupato il suo letto e conosciuti i compagni di corsia, resta in
ansiosa attesa del medico col quale darà l'avvio ad un confidenziale
ed aperto dialogo, se questi, guardandolo negli occhi, lo ascolterà
con attenzione ed interesse. Soddisfatto dell'approccio, pur nel disagio
della situazione logistica, sarà un buon paziente, disciplinato,
disponibile alle indagini e alle cure cui verrà sottoposto.
Il primario dovrà farne la personale conoscenza il più
presto possibile e sarà tenuto, come da regolamento, a visitarlo
tutti i giorni della sua presenza in reparto, non demandando per più
giorni ai colleghi tale compito-dovere. S'instituirà, allora,
una "empatia dialogica", positiva ai fini prognostico-terapeutici.
Lo staff assistenziale dovrà avere cura della divisa, sulla
quale dovrà essere ben visibile il cartellino di identificazione,
della capigliatura e dell'igiene; dovrà usare un linguaggio
sobrio e castigato, modi cortesi ed aggraziati, senza effusioni verso
gli infermi di sesso diverso, comportamento sereno, affabile, senza
manierismi ed esibizionismi; non dovrà, soprattutto, spersonalizzare
il malato affibbiandogli un numero al posto delle generalità.
Non dovrà poi ignorare di trovarsi di fronte a pazienti diversi
per diagnosi e prognosi, per educazione e cultura, per ceto e censo,
per religione, razza ed ideologie politiche.
Da una lettera scritta di recente al Direttore di un settimanale stralcio
queste parole: "... Mi riferisco al trattamento che mi è
stato riservato; scarsa disponibilità a darmi informazioni
sull'intervento e sul mio stato di salute, modi sgarbati durante le
prestazioni delle cure, persino villanie. Insomma, non mi sono sentita
una persona ma un numero di letto".
Mi astengo, se vera, dal commentare quella segnalazione; spero soltanto
che non venga coperta dal silenzio.
Riprendo il discorso per puntualizzare che tutta l'attività
deve centralizzarsi sul "malato" che va considerato, nel
rispetto della sua personalità e dignità, come unità
somato-psichica, valutato nella entità e qualità del
suo male, nelle sue sofferenze, nel suo temperamento e comportamento,
nel suo stato civile, sociale e professionale; nelle sue preoccupazioni
familiari, economiche e di lavoro.
Se l'attività multiforme dello staff assistenziale di un reparto,
pur fortemente stressante, si svolgesse in simbiosi col malato, in
sintonia ed armonia con le sue diverse componenti ed in una solidale
collaborazione con le équipes delle altre Divisioni (quando
il malato sia di interesse interdisciplinare) non si determinerebbero
(almeno nella misura con cui vengono segnalate e propagandate) quelle
disfunzioni, deficienze e rimostranze che rendono confuso, rissoso,
controproducente il clima di un luogo di cura e che inducono molti
pazienti ad abbandonarlo ed altri a rifiutarlo.
I componenti il team medico-paramedico devono dimostrare di essere
in possesso di grande tolleranza e filiale comprensione per gli "anziani",
il cui stato mentale, oltre a risentire il peso degli anni è
aggravato da una condizione aterosclerotica e dalle preoccupazioni
per il loro male, per cui sono spinti talvolta a reazioni abnormi.
Molto comprensivi, solleciti ed affettuosi devono altresì appalesarsi
nei confronti dei più sofferenti, per gli affetti da mali irreversibili
e a lungo decorso, elettivamente per i moribondi, non lesinando loro
parole di conforto, una carezza, uno sguardo dolce ed un sorriso.
"Un sorriso non costa nulla e produce molto - ha scritto padre
Faber - arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona".
Ed il grande clinico Cesare Frugoni, in una magistrale lezione di
etica-deontologica ebbe a dire ai laureandi queste bellissime parole:
"Dobbiamo essere consapevoli che per quanto ci si prodighi per
i nostri ammalati non faremo mai abbastanza e che nessuna professione
o missione ha, come la nostra, tanto contenuto ideale di bontà,
di nobiltà, perché è divino rialimentare la fiamma
della speranza, trasformare il pianto in sorriso, la disperazione
in fede e arrestare la morte per ridare la vita". Parole sublimi,
nelle quali è racchiuso e trasfuso tutto lo spirito, l'affiato
e l'hetos di una Medicina umanizzata!
Lo staff assistenziale non può ignorare che:
a) il paziente subisce passivamente (di rado reattivamente) tutte
le operazioni inerenti i prelievi di sangue, le cure spesso dolorose,
gli interventi chirurgici ed i controlli strumentali più sofisticati;
b) quasi mai viene edotto (anche perché gli è impedita
la lettura della cartella clinica) dei risultati delle indagini, della
evoluzione della malattia, della sua entità e gravità,
del periodo di degenza e della terapia;
c) la visita, quasi sempre, avviene allo scoperto, in presenza degli
infermi della stessa corsia e i dati anamnestici vengono raccolti
in pubblica confessione, senza una parvenza di "privacy";
d) spesso viene redarguito e sgridato per piccole insignificanti trasgressioni;
e) non deve essere chiamato col numero del letto, ma con le sue generalità;
f) ha diritto ad essere informato delle indagini e degli interventi,
specie se a rischio, richiedendogli il cosiddetto "consenso informato",
per iscritto;
g) per la sua tutela può intervenire il "Tribunale per
i diritti dei malati".
Gli psicoanalisti e gli psichiatri fanno rilevare che nel rapporto
col malato nasce quel processo definito "transfert", che
si attualizza con una dipendenza interpersonale. "Applicato al
paziente il transfert - scrive L. Ancona (Federazione Medica, n. 1,
1992) - rende conto del perché egli, verso chi lo cura, si
trova in stato di intensa speranza, di fascinazione, di amore, oppure
di sospetto, di delusione e di avversione; può essere animato
nel contempo dalla aspettativa di essere aiutato oppure dal timore
di non esserlo per incapacità o per volontà perversa;
può quindi essere sottomesso, dipendente, oppure può
essere reattivo, rivendicativo di ogni suo diritto che possa ritenere
contestato".
Il "segreto professionale" (anche se in alcuni articoli
del Codice deontologico se ne fa menzione) resta forse l'aspetto più
drammatico e discusso della condotta eticodeontologica dello staff
assistenziale. Stante le disparate posizioni e i discordi pareri,
non resta che codificarlo nei punti essenziali. Premesso che il Codice
internazionale di Etica Medica Mondiale afferma che "il medico
deve al suo paziente il segreto assoluto su tutte le informazioni
da lui ricevute o che egli conosce per la fiducia riposta in lui"
è pressoché impossibile indicare i comportamenti nei
molteplici casi patologici a diversa prognosi, ove si consideri che
clinici, psicologi, giuristi, eticisti, religiosi ed antropologi esprimono
giudizi diversificati.
A chi comunicare una diagnosi infausta o la inutilità di terapie
per Vexitus più o meno prossimo? Ai soli familiari o soltanto
al malato o anche a quelli col consenso di questi? E quali i riflessi
e le lacerazioni di una comunicazione di prognosi infausta, di male
inguaribile, di inutilità delle terapie? Quale sarà
la risposta del malato, specie se nevrotico o neuroansioso? Potranno
la rassegnazione, ancora la speranza o la religione, fargli accettare,
innocuamente, la nostra sentenza? E se la cognizione di un male irreversibile
ed inguaribile, la difficile situazione economica, familiare e sua
lavorativa, acuissero il suo già scosso equilibrio neuropsichico
fino ad indurlo ad atti inconsulti, di chi la responsabilità?
A dirimere dubbi ed incertezze e a deresponsabilizzare il medico,
il nuovo Codice deontologico prevede che unico depositario ed arbitro
della sua volontà e del suo destino deve essere il malato.
Per il segreto professionale nei riguardi della Magistratura è
bene attenersi alle norme dal Codice deontologico previste e alle
sentenze, anche se non univoche, per precedenti emesse analoghi episodi;
E' a dire che per alcune malattie (infettivo-contagiose), il medico,
nell'interesse della collettività, deve violare il segreto
professionale denunciandole all'Autorità sanitaria.
Norme particolari sono previste per i malati di AIDS e per i sieropositivi,
specie se medici... Ma di esse per la complessità della procedura
mi astengo dal parlarne. Di grande importanza etica e legale è
la recente introduzione del cosiddetto "consenso informato",
che dovrà essere rilasciato dal paziente perché determinate
indagini, prelievi ed interventi possano essergli praticati.
Nota dolentissima per me, che ho vissuto la vita di primario e quella
di direttore sanitario, fu e rimane l'avvento dello sciopero del personale
sanitario, che mi vide e mi vede "obiettore di coscienza".
In un articolo (Voce del Sud, 19 febbraio 1944) scrissi in merito:
"Assistere, confortare gli ammalati, vedere nei loro volti e
leggere nei loro sguardi l'incredulità, il disappunto, l'amarezza
e l'acuirsi delle loro sofferenze per ritardi, carenze e omissioni
per chi è presente è un'angoscia indescrivibile. Vivere
responsabilmente le drammatiche situazioni che vengono a determinarsi...
ad essere nella impossibilità di rimediare... è dolorosissimo
ed eticamente inumano".
Non mi si obietti che l'articolo 101 del Codice deontologico sancisce
la "costituzionalità" dello sciopero; io mi chiedo
se lo sia sul piano eticodeontologico e religioso. Se "scienza
e coscienza" è l'emblema della nostra professione, io
sono orgoglioso di non averlo imbrattato.
Ho analizzato, per sommi capi, i punti deboli, delicati ed oscuri,
del comportamento eticodeontologico, e le rispettive cause, dello
staff assistenziale negli ospedali. Anche se medico, per rimediarvi,
non ho terapie miracolistiche da suggerire; penso, però, che
la contestata ibrida situazione possa migliorare con:
a) la rigorosa selezione attitudinaria degli aspiranti medici e paramedici;
b) l'adeguamento delle strutture didattiche e l'insegnamento per gli
universitari delle tre discipline previste dalla nuova Tabella XVIII:
psicologia, psicologia medica e psicologia clinica per i paramedici
con l'insegnamento e tirocini teorico-pratici di psicologia ed eticodeontologia;
c) l'incentivazione dei corsi di aggiornamento, permanente; il controllo
rigido della frequenza alle lezioni e alle esercitazioni degli allievi,
con la severità per l'esame finale e delle prove di concorso;
e) la raccomandazione ai Capo-reparti di creare un clima distensivo,
di serena attività, di collaborazione e di grande solidarietà
per gli infermi, dissipando dissapori tra i componenti lo staff e
conflittualità coi pazienti;
f) la persistente, diurna e notturna, vigilanza e controllo delle
Direzioni sanitarie, con la collaborazione, ove necessiti, del Tribunale
per i diritti del malato.
La Medicina applicativa è oggi in crisi profonda, essendosi
materializzata e tecnicizzata, snaturandosi di ogni contenuto di bontà,
spiritualità ed umanità. Alle soglie del terzo millennio
e al tramonto di un lungo sofferto vissuto ospedaliero, perché
siano monito e lezione concludo con le nobilissime parole rivolte
ai medici dal grande chirurgo brasiliano E. Vasconcelos: "La
mano che carezza un sofferente perduto val più dell'elemosina
delle parole; il gesto che esprime speranza e conforto vale più
di innumerevoli verità. L'anima che cerca un'altra anima le
dà la forza di rinascere fino a quando la disperazione è
totale, quando è quasi inutile lo sforzo di elevare all'eterno
il perituro. Nessuno come il medico depone tanta abbondanza di dolcezza
nel bramoso cuore infranto dall'amarezza; nessun mestiere, nessun
sacerdozio avvicina tanto l'uomo all'Uomo, l'uomo a Dio".