§ RAPPORTI NEGLI OSPEDALI

PAZIENTI E STAFF SANITARIO




Italo Vittorio Tondi



"La felicità e l'angoscia, la gaiezza e la tristezza sono naturalmente contagiose. Portate la vostra gaiezza e la vostra forza al debole e al malato e voi sarete utili ad essi. Soltanto la vita può rigenerare la vita".
(Marc'Aurelio)

Del vecchio ma sempre attuale e pregnante problema in conferenze ed articoli mi sono già occupato. Limiterò il discorso soltanto agli aspetti eticodeontologici, lasciando nel cassetto quelli contrastati e scottantissimi della bioetica. A riprendere la parola mi inducono le persistenti veementi ed inindulgenti critiche che giornali e mass-media quotidianamente ci ammanniscono, di cui alcune ammantate da sentenze "in itinere" ed altre da sentenze passate "in giudicato". Non sarò aprioristico apologeta di una classe corporativa, ma sereno arbitro ed obiettivo interprete di alcune situazioni, disfunzioni, incidenti e reati, deprecabilissimi, realmente verificatisi. Premetto che se tutti noi, medici e paramedici, ottemperassimo ed operassimo secondo i precetti di Ippocrate e le norme dal Codice deontologico previste, l'articolo non troverebbe giustificazione. Da gregario prima e da primario e direttore sanitario poi, ho trascorso 42 anni della mia attività professionale negli Ospedali; penso ciò mi consenta alcune considerazioni e riflessioni.
Ricordo come, storicamente, l'assistenza al malato, improntata dapprima su di un piano caritativo-spirituale, sì da essere considerata un atto d'amore verso i sofferenti, abbia assunto successivamente un carattere tecnico-pratico, legato alla preparazione e alla esperienza e, attualmente, una veste decisamente scientifico-professionale, condizionata alla cultura, alle capacità tecniche e alla sensibilità dell'équipe assistenziale.
Al primitivo ed originario binomio quindi di vocazione-missione, cui seguì quello di arte-missione, è oggi subentrato il trinomio di arte-professione-missione, dovendosi ritenere la preparazione teorico-pratica e quella psicologica prioritarie.
"Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est": la saggia umana ed orante espressione benedettina è di sì alta significazione spirituale e di così profondo contenuto etico da farei sentire l'impegno e la responsabilità per una tra le più nobili attività per le quali l'uomo vive ed opera!
Preciso che per "staff assistenziale" è da intendersi quella microcomunità costituita da medici e paramedici (capo-sala, infermieri professionali, ostetriche, puericultrici, assistenti sanitarie e sociali, vigilatrici d'infanzia, cappellani, ecc.) e che quanto dirò sulla preparazione tecnico-psicologica vale per ciascuna di quelle componenti.
Molto espressiva è la similitudine che Iandolo fa di una équipe ospedaliera: "l'attività di una équipe sanitaria somiglia molto ad una orchestra. I vari orchestrali hanno ruoli di diversa importanza (si pensi alla differenza tra il primo violino ed il suonatore di timpano), suonano per tempi diversi, entrano in azione in momenti diversi; ma tutti svolgono una azione indispensabile, tutti sono convinti della importanza del ruolo e della necessità di obbedire al direttore d'orchestra".
Se autorità e potere sono in mano di un direttore d'orchestra chiamato Primario, egli dovrà servirsene con intelligenza, tatto, imparzialità ed umanità ed i suoi collaboratori, assecondandolo, dovranno avere per lui rispetto e stima, anche se talvolta non ne condividono pareri e decisioni, tutti dovendosi considerare anelli indispensabili di una catena di montaggio di una macchina chiamata assistenza.
La crisi dell'assistenza sanitaria negli Ospedali è un fenomeno riportabile a cause estrinseche ed intrinseche. Omettendo di parlare di quelle estrinseche che investono le Autorità, gli "addetti ai lavori" di alto rango e la stessa organizzazione (nelle sue diverse articolazioni) del SSN, con dirigenti e responsabili non sempre all'altezza dei compiti chiamati a svolgere e non per meriti professionale ma con criteri politico-demagogici eletti, mi soffermerò su una sinottica analisi di quelle intrinseche.
E' risaputo che i malati non gradiscono l'ospedalizzazione. Se poi, volenti o nolenti, finiscono con l'accedervi, su pressioni del curante o per motivi diagnostico-terapeutici, lasciano l'ambiente familiare con estremo disagio, anche nella incertezza e paura del nuovo. Nella loro accettazione è implicita o sottintesa la convinzione di un breve periodo di degenza col rapido ripristino della salute e, quindi, del ritorno a casa. Per altri, invece, può essere il segnale che un male oscuro si nasconda (di cui medici e familiari celano la presenza e l'entità) e vi accedono nella speranza che altri medici ed altre cure possano migliorarli o guarirli. Dalla Accettazione al reparto di destinazione il tragitto è breve, a meno che non subentrino difficoltà logistiche o contrastanti pareri diagnostici, che ritarderebbero, oltre ogni ragionevole limite, il ricovero.
Una volta in reparto, il paziente viene accolto da uno o più paramedici che comunicheranno ai medici l'avvenuto ingresso. Se l'impatto sarà di cortesia, simpatia, comprensione e di apertura verbale, sussisteranno già le premesse per un accattivante rapporto, in un clima confidenziale che non farà eccessivamente rimpiangere il nido domestico. Se il paziente verrà invece accolto con indifferenza, insensibilità, incomprensione per le sue sofferenze e, persino, con arroganza, è facile prevedere l'esordio di un rapporto conflittuale, di cui il primario dovrà tenere conto, ricomponendolo.
Occupato il suo letto e conosciuti i compagni di corsia, resta in ansiosa attesa del medico col quale darà l'avvio ad un confidenziale ed aperto dialogo, se questi, guardandolo negli occhi, lo ascolterà con attenzione ed interesse. Soddisfatto dell'approccio, pur nel disagio della situazione logistica, sarà un buon paziente, disciplinato, disponibile alle indagini e alle cure cui verrà sottoposto. Il primario dovrà farne la personale conoscenza il più presto possibile e sarà tenuto, come da regolamento, a visitarlo tutti i giorni della sua presenza in reparto, non demandando per più giorni ai colleghi tale compito-dovere. S'instituirà, allora, una "empatia dialogica", positiva ai fini prognostico-terapeutici.
Lo staff assistenziale dovrà avere cura della divisa, sulla quale dovrà essere ben visibile il cartellino di identificazione, della capigliatura e dell'igiene; dovrà usare un linguaggio sobrio e castigato, modi cortesi ed aggraziati, senza effusioni verso gli infermi di sesso diverso, comportamento sereno, affabile, senza manierismi ed esibizionismi; non dovrà, soprattutto, spersonalizzare il malato affibbiandogli un numero al posto delle generalità. Non dovrà poi ignorare di trovarsi di fronte a pazienti diversi per diagnosi e prognosi, per educazione e cultura, per ceto e censo, per religione, razza ed ideologie politiche.
Da una lettera scritta di recente al Direttore di un settimanale stralcio queste parole: "... Mi riferisco al trattamento che mi è stato riservato; scarsa disponibilità a darmi informazioni sull'intervento e sul mio stato di salute, modi sgarbati durante le prestazioni delle cure, persino villanie. Insomma, non mi sono sentita una persona ma un numero di letto".
Mi astengo, se vera, dal commentare quella segnalazione; spero soltanto che non venga coperta dal silenzio.
Riprendo il discorso per puntualizzare che tutta l'attività deve centralizzarsi sul "malato" che va considerato, nel rispetto della sua personalità e dignità, come unità somato-psichica, valutato nella entità e qualità del suo male, nelle sue sofferenze, nel suo temperamento e comportamento, nel suo stato civile, sociale e professionale; nelle sue preoccupazioni familiari, economiche e di lavoro.
Se l'attività multiforme dello staff assistenziale di un reparto, pur fortemente stressante, si svolgesse in simbiosi col malato, in sintonia ed armonia con le sue diverse componenti ed in una solidale collaborazione con le équipes delle altre Divisioni (quando il malato sia di interesse interdisciplinare) non si determinerebbero (almeno nella misura con cui vengono segnalate e propagandate) quelle disfunzioni, deficienze e rimostranze che rendono confuso, rissoso, controproducente il clima di un luogo di cura e che inducono molti pazienti ad abbandonarlo ed altri a rifiutarlo.
I componenti il team medico-paramedico devono dimostrare di essere in possesso di grande tolleranza e filiale comprensione per gli "anziani", il cui stato mentale, oltre a risentire il peso degli anni è aggravato da una condizione aterosclerotica e dalle preoccupazioni per il loro male, per cui sono spinti talvolta a reazioni abnormi. Molto comprensivi, solleciti ed affettuosi devono altresì appalesarsi nei confronti dei più sofferenti, per gli affetti da mali irreversibili e a lungo decorso, elettivamente per i moribondi, non lesinando loro parole di conforto, una carezza, uno sguardo dolce ed un sorriso.
"Un sorriso non costa nulla e produce molto - ha scritto padre Faber - arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona". Ed il grande clinico Cesare Frugoni, in una magistrale lezione di etica-deontologica ebbe a dire ai laureandi queste bellissime parole: "Dobbiamo essere consapevoli che per quanto ci si prodighi per i nostri ammalati non faremo mai abbastanza e che nessuna professione o missione ha, come la nostra, tanto contenuto ideale di bontà, di nobiltà, perché è divino rialimentare la fiamma della speranza, trasformare il pianto in sorriso, la disperazione in fede e arrestare la morte per ridare la vita". Parole sublimi, nelle quali è racchiuso e trasfuso tutto lo spirito, l'affiato e l'hetos di una Medicina umanizzata!
Lo staff assistenziale non può ignorare che:
a) il paziente subisce passivamente (di rado reattivamente) tutte le operazioni inerenti i prelievi di sangue, le cure spesso dolorose, gli interventi chirurgici ed i controlli strumentali più sofisticati;
b) quasi mai viene edotto (anche perché gli è impedita la lettura della cartella clinica) dei risultati delle indagini, della evoluzione della malattia, della sua entità e gravità, del periodo di degenza e della terapia;
c) la visita, quasi sempre, avviene allo scoperto, in presenza degli infermi della stessa corsia e i dati anamnestici vengono raccolti in pubblica confessione, senza una parvenza di "privacy";
d) spesso viene redarguito e sgridato per piccole insignificanti trasgressioni;
e) non deve essere chiamato col numero del letto, ma con le sue generalità;
f) ha diritto ad essere informato delle indagini e degli interventi, specie se a rischio, richiedendogli il cosiddetto "consenso informato", per iscritto;
g) per la sua tutela può intervenire il "Tribunale per i diritti dei malati".
Gli psicoanalisti e gli psichiatri fanno rilevare che nel rapporto col malato nasce quel processo definito "transfert", che si attualizza con una dipendenza interpersonale. "Applicato al paziente il transfert - scrive L. Ancona (Federazione Medica, n. 1, 1992) - rende conto del perché egli, verso chi lo cura, si trova in stato di intensa speranza, di fascinazione, di amore, oppure di sospetto, di delusione e di avversione; può essere animato nel contempo dalla aspettativa di essere aiutato oppure dal timore di non esserlo per incapacità o per volontà perversa; può quindi essere sottomesso, dipendente, oppure può essere reattivo, rivendicativo di ogni suo diritto che possa ritenere contestato".
Il "segreto professionale" (anche se in alcuni articoli del Codice deontologico se ne fa menzione) resta forse l'aspetto più drammatico e discusso della condotta eticodeontologica dello staff assistenziale. Stante le disparate posizioni e i discordi pareri, non resta che codificarlo nei punti essenziali. Premesso che il Codice internazionale di Etica Medica Mondiale afferma che "il medico deve al suo paziente il segreto assoluto su tutte le informazioni da lui ricevute o che egli conosce per la fiducia riposta in lui" è pressoché impossibile indicare i comportamenti nei molteplici casi patologici a diversa prognosi, ove si consideri che clinici, psicologi, giuristi, eticisti, religiosi ed antropologi esprimono giudizi diversificati.
A chi comunicare una diagnosi infausta o la inutilità di terapie per Vexitus più o meno prossimo? Ai soli familiari o soltanto al malato o anche a quelli col consenso di questi? E quali i riflessi e le lacerazioni di una comunicazione di prognosi infausta, di male inguaribile, di inutilità delle terapie? Quale sarà la risposta del malato, specie se nevrotico o neuroansioso? Potranno la rassegnazione, ancora la speranza o la religione, fargli accettare, innocuamente, la nostra sentenza? E se la cognizione di un male irreversibile ed inguaribile, la difficile situazione economica, familiare e sua lavorativa, acuissero il suo già scosso equilibrio neuropsichico fino ad indurlo ad atti inconsulti, di chi la responsabilità?
A dirimere dubbi ed incertezze e a deresponsabilizzare il medico, il nuovo Codice deontologico prevede che unico depositario ed arbitro della sua volontà e del suo destino deve essere il malato.
Per il segreto professionale nei riguardi della Magistratura è bene attenersi alle norme dal Codice deontologico previste e alle sentenze, anche se non univoche, per precedenti emesse analoghi episodi; E' a dire che per alcune malattie (infettivo-contagiose), il medico, nell'interesse della collettività, deve violare il segreto professionale denunciandole all'Autorità sanitaria.
Norme particolari sono previste per i malati di AIDS e per i sieropositivi, specie se medici... Ma di esse per la complessità della procedura mi astengo dal parlarne. Di grande importanza etica e legale è la recente introduzione del cosiddetto "consenso informato", che dovrà essere rilasciato dal paziente perché determinate indagini, prelievi ed interventi possano essergli praticati.
Nota dolentissima per me, che ho vissuto la vita di primario e quella di direttore sanitario, fu e rimane l'avvento dello sciopero del personale sanitario, che mi vide e mi vede "obiettore di coscienza". In un articolo (Voce del Sud, 19 febbraio 1944) scrissi in merito: "Assistere, confortare gli ammalati, vedere nei loro volti e leggere nei loro sguardi l'incredulità, il disappunto, l'amarezza e l'acuirsi delle loro sofferenze per ritardi, carenze e omissioni per chi è presente è un'angoscia indescrivibile. Vivere responsabilmente le drammatiche situazioni che vengono a determinarsi... ad essere nella impossibilità di rimediare... è dolorosissimo ed eticamente inumano".
Non mi si obietti che l'articolo 101 del Codice deontologico sancisce la "costituzionalità" dello sciopero; io mi chiedo se lo sia sul piano eticodeontologico e religioso. Se "scienza e coscienza" è l'emblema della nostra professione, io sono orgoglioso di non averlo imbrattato.
Ho analizzato, per sommi capi, i punti deboli, delicati ed oscuri, del comportamento eticodeontologico, e le rispettive cause, dello staff assistenziale negli ospedali. Anche se medico, per rimediarvi, non ho terapie miracolistiche da suggerire; penso, però, che la contestata ibrida situazione possa migliorare con:
a) la rigorosa selezione attitudinaria degli aspiranti medici e paramedici;
b) l'adeguamento delle strutture didattiche e l'insegnamento per gli universitari delle tre discipline previste dalla nuova Tabella XVIII: psicologia, psicologia medica e psicologia clinica per i paramedici con l'insegnamento e tirocini teorico-pratici di psicologia ed eticodeontologia;
c) l'incentivazione dei corsi di aggiornamento, permanente; il controllo rigido della frequenza alle lezioni e alle esercitazioni degli allievi, con la severità per l'esame finale e delle prove di concorso;
e) la raccomandazione ai Capo-reparti di creare un clima distensivo, di serena attività, di collaborazione e di grande solidarietà per gli infermi, dissipando dissapori tra i componenti lo staff e conflittualità coi pazienti;
f) la persistente, diurna e notturna, vigilanza e controllo delle Direzioni sanitarie, con la collaborazione, ove necessiti, del Tribunale per i diritti del malato.
La Medicina applicativa è oggi in crisi profonda, essendosi materializzata e tecnicizzata, snaturandosi di ogni contenuto di bontà, spiritualità ed umanità. Alle soglie del terzo millennio e al tramonto di un lungo sofferto vissuto ospedaliero, perché siano monito e lezione concludo con le nobilissime parole rivolte ai medici dal grande chirurgo brasiliano E. Vasconcelos: "La mano che carezza un sofferente perduto val più dell'elemosina delle parole; il gesto che esprime speranza e conforto vale più di innumerevoli verità. L'anima che cerca un'altra anima le dà la forza di rinascere fino a quando la disperazione è totale, quando è quasi inutile lo sforzo di elevare all'eterno il perituro. Nessuno come il medico depone tanta abbondanza di dolcezza nel bramoso cuore infranto dall'amarezza; nessun mestiere, nessun sacerdozio avvicina tanto l'uomo all'Uomo, l'uomo a Dio".


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