L'Italia fuori
dalla moneta unica. E la Francia, invece, "deve" esserci.
Comunque, nessuno si faccia illusioni: neanche Belgio e Olanda avranno
giorni tranquilli, nessun trattamento di favore nei confronti di Bruxelles
e di Amsterdam, che per far parte del giro dovranno preventivamente
risolvere i rispettivi problemi di indebitamento pubblico. Dopo aver
lanciato, insieme col presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer,
l'offensiva per l'inasprimento delle regole di Maastricht, Waigel
è passato alla distribuzione delle pagelle e alle bacchettate
sulle dita, con conseguenti reazioni al ribasso dei mercati e con
irritazione dei governi, escluso quello italiano.
Niente è stato casuale. Alla vigilia del vertice europeo che
si doveva tenere a Palma di Majorca per discutere di riforme istituzionali,
e cioè per tracciare la mappa dell'Europa del Duemila, la Germania
ha lanciato ai partner un segnale raggelante: non contenta di avere
scatenato, esattamente un anno e mezzo prima, la più grande
confusione, e persino il panico nell'Unione, presentando il piano
Lamers con tanto di nomi e cognomi degli "eletti" alla grande
avventura, è ritornata alla carica con la politica degli attestati
di merito e delle esclusioni: da una parte i buoni, con qualche eccezione
di convenienza; dall'altra i cattivi. Quel che è peggio, è
che lo ha fatto impugnando il Trattato di Maastricht. E non, come
sarebbe stato più logico e anche legittimo, per invocarne il
più rigoroso rispetto, ma per andare oltre il suo dettato.
In parole concrete, per calpestarlo, ineludibilmente insieme al progetto
della moneta unica.
Di primo acchito, la posizione tedesca può sembrare ineccepibile
e nient'affatto nuova: infatti, da sempre Bonn afferma che la moneta
unica ci sarà soltanto se sarà stabile e forte come
la più stabile e forte d'Europa. Vale a dire, come il marco,
che per i tedeschi non è solo una moneta, ma il simbolo stesso
dell'unità nazionale, l'espressione "pulita" del
nazionalismo post-bellico; insomma, un bene da difendere costi quel
che costi. Le regole di Maastricht sono state inventate proprio per
offrire queste garanzie. Per darle, i governi dell'Unione europea
hanno optato per una semi-germanizzazione volontaria delle rispettive
economie, nella convinzione che il recupero di stabilità fosse
comunque nell'interesse generale, cioè l'unico modo per recuperare
stabilità, competitività internazionale, solido futuro
per l'Europa. Ma queste stesse regole, che Waigel e Tietmeyer brandiscono
un giorno sì e l'altro pure, dicono che chi aspirasse ad entrare
nella moneta unica dovrà avere, al momento della verifica del
1998, un deficit pubblico di "quasi il 3 per cento" del
Prodotto interno lordo e un rapporto debito/Pil del 60 per cento,
rapporto che, in alternativa estrema, deve "scendere a un ritmo
soddisfacente". E' appena il caso di ricordare che quando Maastricht
fu negoziata - e durissimamente - fra il '90 e il '91, il Belgio per
esempio aveva già un indebitamento intorno al 130 per cento.
Tutti quanti sapevano dunque, tedeschi compresi, che mai Bruxelles
avrebbe potuto raggiungere l'obiettivo del 60 per cento entro il Duemila,
visto che per farlo, a un ritmo medio di discesa del 2 per cento annuo,
ci avrebbe messo circa trentacinque anni.

In realtà, c'è un Paese dell'Unione, esattamente l'Irlanda,
che è riuscito a tagliare quasi del doppio (4-5 per cento annuo)
il suo indebitamento, scendendo dal 117 al 90 per cento del Pil in
un quinquennio. Il segreto del suo successo consente all'Irlanda,
insieme con la Germania e con il Lussemburgo, di essere giudicata
dai Quindici in possesso dei requisiti per la moneta unica. In applicazione
del dettato di Maastricht. Peccato che, dopo essersi arreso a malincuore
a Bruxelles al verdetto della schiacciante maggioranza dei ministri
finanziari dell'Unione europea, Waigel si sia poi "dimenticato"
di citare tra i Paesi virtuosi l'Irlanda nel suo rapporto sulla convergenza
dell'economia germanica.
Un'amnesia tutt'altro che casuale. Come tutt'altro che casuale è
la prevista ammissione della Francia, anche se Parigi non naviga in
acque migliori di quelle italiane in fatto di debito pubblico.
Perché la Germania tira la corda fin quasi a rischiare di spezzarla?
Perché spara ad alzo zero sul Belgio "altamente indebitato",
invitandolo "a privatizzare in modo più deciso" e
ricordandogli che neanche per la capitale dell'Europa "si faranno
eccezioni"? Perché tira in ballo l'Olanda, che ha una
moneta invidiabile e tutti i parametri in ordine, tranne il solito
debito (80 per cento), una catena al piede ineliminabile entro il
'98 senza le celeberrime interpretazioni flessibili? Perché
la mano tesa alla Francia, che invece nel '98 potrebbe essere l'unica,
in caso di crescita fiacca, a rischiare di avere un deficit - cioè
il parametro che davvero conta - sopra il 3 per cento?
Perché, più che con l'ortodossia, la Germania sembra
giocare allo sfascio dell'Unione monetaria europea, gettando lo scompiglio
tra i partner e sui mercati. Ai quali continua a dire, ormai non più
in termini ermetici: o accettate il diktat o non se ne fa niente.
Il che sarebbe probabilmente preferibile. E se questa è Europa...