§ SPECCHIO DEL TEMPO

UN POPOLO, UN REICH, UN MARCO




Franco Molteni Rado



Nel dibattito aperto sull'identità della Germania di oggi e sul suo peso nell'Europa di domani, non si può far finta di aver perso la memoria di quale scia di lutti e di sangue abbia tenuto dietro in questo secolo alla vocazione imperiale tedesca. Ma proprio quelle terribili esperienze devono ora aiutarci a non correre il rischio di errori o di semplificazioni di giudizio sul presente, che potrebbero finire col ridare corpo e sostanza anche in avvenire ai peggiori incubi del passato. In altri termini: la Germania sarà in se stessa, e verso il resto dell'Europa, anche quella che gli altri Paesi, non ultima l'Italia, vorranno che essa sia.
E' almeno dall'epoca degli Svevi - nasce in quel tempo il grido: Ein Volk, Ein Reich, Ein Führer - che la fragile barca dell'Europa si trova a fare periodicamente i conti con la presenza del gigante tedesco. Guai se oggi come altre volte ci si dovesse dividere nuovamente nelle "due maledette parti" dei Guelfi e dei Ghibellini; vale a dire tra oppositori e sostenitori dell'imperatore, e magari solo in base a convenienze occasionali o a paure ancestrali.
Partiamo da un dato di fatto. Esiste oggi, come spesso in passato, una supremazia tedesca nel Vecchio Continente, che però non è stata conquistata sulla punta delle lance, ma con la forza della moneta: il marco. Certo, un'egemonia economica, sebbene meno cruenta, può risultare altrettanto oppressiva di un dominio imposto "manu militari". Tuttavia, la differenza non è irrilevante, se si vuole avere il realismo di vedere che quel marco forte non è il cavallo di Troia di un'antica, oggi sagacemente dissimulata, volontà di potenza. Esso potrebbe anche diventare questo strumento minaccioso. Ma finora è il frutto di scelte economiche e politiche severe, formatesi attraverso una battaglia di civiltà e di cultura, che incorpora al suo interno al positivo la lezione della "peste tedesca", come la chiamava Grosz quando tracciava le sue feroci caricature dei militari e dei capitalisti della Germania del primo Novecento.
Quel marco forte è innanzitutto il prodotto di una paura così duratura che sembra entrata nei cromosomi ereditari delle classi dirigenti tedesche di quest'ultimo mezzo secolo. La paura è quella del lassismo monetario, dell'inflazione incontrollata e del conseguente, ingestibile, disordine sociale. Insomma, ciò che i tedeschi mostrano di temere e di voler contrastare con la solidità della moneta è il ripetersi dell'esperienza di Weimar: la quale operò, fatalmente, come incubatrice del cancro nazista.
Si può obiettare che questa visione ha un implicito contenuto ricattatorio nei confronti del resto d'Europa: o accettate la dura legge del marco, oppure correte il rischio che la Germania riesploda sui vostri confini. E ancora si può far notare che tanta forza del marco può alimentare nei suoi padroni un delirio di onnipotenza, mentre ha già prodotto inquietanti tendenze di sciovinismo economico, come è stato ricordato a proposito del boicottaggio opposto a un'azienda come la Pirelli nel suo tentativo di sbarcare sul mercato tedesco delle imprese. Lo stesso Helmut Schmidt aveva denunciato con accenti forti il pericolo di una chiusura della Germania attorno al suo totem monetario, prendendo di petto soprattutto i signori della Bundesbank. L'allarme è tuttora giustificato perché con l'avvicinarsi delle scadenze dell'Unione monetaria europea dalla Germania giungono sempre più frequenti segnali che sembrano riproporre l'antico grido di battaglia, adeguatamente riveduto e aggiornato: Ein Volk, Ein Reich, Ein Mark.
Demonizzare questa minaccia non serve: per evitare che si traduca in realtà, occorre un grande sforzo di sagacia politica da parte del resto d'Europa. Specialmente, occorre riconoscere che quel marco forte non è soltanto un'arma puntata contro il Continente. Con la ferma cultura antinflazionistica e con l'organizzazione produttiva che lo sostengono, quel marco resta l'unico modello (teorico e pratico) di Europa monetaria praticabile, se non si vuole che il Vecchio Continente diventi un'area valutaria periferica, in un mondo dominato dal bipolarismo dollaro-yen. Con la firma del Trattato di Maastricht il resto dell'Europa sembrava essersi mostrato consapevole della necessità di una simile scelta strategica. Da un lato, mettendo in pratica il vecchio monito di Jacques Rueff, secondo il quale l'Europa si sarebbe costruita attraverso la moneta, oppure non si sarebbe fatta per nulla. Dall'altro lato, accettando per la moneta unica la "filosofia" direttamente mutuata dal rigido modello luterano del marco tedesco.
Le successive prese di distanza - Italia sciaguratamente in testa - dai parametri di Maastricht sono così cadute in un duplice torto di neghittosità e di provocazione. Da una parte, perché non hanno offerto alcun valido modello monetario alternativo. Dall'altra parte, perché hanno favorito le latenti tendenze isolazioniste dei tedeschi, irritati dalle contestazioni di chi non riesce a mettere ordine nei conti di casa propria. Per venir fuori da questa pericolosa fase di stallo è necessario oggi chiedersi non soltanto che cos'è la Germania, ma anche che cosa sono l'Italia e l'Europa.


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