§ VISTI DA LONTANO

DIE ITALIENER




Friedhelm Gröteke
Giornalista di "Die Zeit"



L'opinione pubblica italiana si è finora confrontata molto poco col problema dell'adesione all'Unione monetaria europea. Al di là delle Alpi soltanto un fatto è sicuro: gli italiani desiderano liberarsi prima che possono di una lira funestata dalle spinte inflazionistiche. E attendono con entusiasmo la nuova moneta europea, sulla quale è impressa l'immagine del leggendario marco forte. Ritengono perciò che sia del tutto ovvio che gli altri Paesi e la Commissione di Bruxelles ricompenseranno alla fine la buona volontà di Roma e passeranno sopra i punti deboli rispetto ai quali il Paese non ha seguito i criteri di convergenza di Maastricht per poter entrare nell'Unione monetaria.
Stando a quel che si sente ripetere spesso, l'Italia sarebbe in definitiva un partner economico indispensabile per l'Unione europea e in modo particolare per l'industria tedesca. Il giudizio del ministro delle Finanze tedesco, Theo Waigel, secondo il quale l'Italia non ha alcuna possibilità di farcela, ha avuto per gli italiani l'effetto di una doccia fredda. Con le sue dichiarazioni più o meno sconsiderate, Waigel ha suscitato un'ampia discussione. Certo, il ministro del Tesoro britannico, Kenneth Clarke, si riferiva anche ai politici italiani quando ha dichiarato: "Waigel ha detto in realtà solo ciò che tutti noi ci diciamo ufficiosamente da lungo tempo". Ma finora nessuno aveva voluto dichiarare ufficialmente questa amara verità. Dopo le prime e un po' furibonde polemiche contro Waigel e altri rappresentanti del Governo tedesco, che con le loro maldestre dichiarazioni hanno scosso un delicato equilibrio, nella maggior parte dei mezzi d'informazione è emersa la convinzione che un appello alla ragione sarebbe stato salutare. E ciò, specialmente dopo che il Governo italiano aveva reso noto un debole bilancio preventivo per il 1996, bilancio il cui ottimismo, visti il tasso d'inflazione, il gettito fiscale e la crescita, non veniva condiviso da alcun istituto italiano di studi congiunturali. Con bilanci di quel tipo, l'Italia non ha praticamente alcuna possibilità di partecipare all'Unione monetaria. Infatti, secondo il Piano triennale, raggiungerà una condizione necessaria, cioè un deficit di non più del 3% del Pil, solo alla fine del 1998. Ma allora sarà troppo tardi, perché i Paesi saranno stati scelti già all'inizio di quell'anno, e certamente dopo i risultati del bilancio 1997. Per quell'anno i piani prevedono ancora un deficit del 4,2%.
Per tener fede agli accordi di Maastricht, nel '96 è necessario, in aggiunta ai risparmi già previsti, un ulteriore miglioramento del bilancio che si aggiri attorno ai 20-25 miliardi di marchi, da ottenersi con nuove entrate e/o con riduzioni della spesa. Ma anche se il buco finanziario fosse tempestivamente ridotto, l'Italia non avrebbe comunque dei buoni numeri. Sebbene l'allora ministro del Tesoro, Guido Carli, avesse fatto introdurre nel Trattato di Maastricht condizioni più miti, per Roma il traguardo rimane sempre remoto. La condizione principale da rispettare è quella di un debito pubblico non superiore al 60% del Pil. Secondo i calcoli del governo, anche se l'Italia diventasse lì per lì un modello di economia finanziaria, nel '99 rimarrebbe ancora del 100% al di sotto dei valori imposti da Maastricht; e anche se ci fosse una progressiva estinzione del debito, ancora nel 2005 il Paese mancherebbe il traguardo di un buon 15%.
Nell'eventualità di un'Unione monetaria, ciò avrebbe importanti conseguenze. Per tener fede ai suoi impegni, l'Italia avrebbe un enorme fabbisogno aggiuntivo di capitale. E affinché continui ad esserci un afflusso di capitali, l'Italia dovrebbe imporre per lungo tempo tasse più alte rispetto agli altri Paesi dell'Ue. Nelle sue condizioni attuali, invece, è un Paese difficilmente valutabile per i partner europei. Né può essere capito attraverso la statistica. La Lombardia è più ricca della Svizzera, mentre il Sud può essere considerato l'ospizio dei poveri d'Europa. L'Italia è il sesto Paese più industrializzato del mondo, ma persino le Borse del Sudafrica, della Corea del Sud e dell'Australia sono finanziariamente più forti del mercato azionario milanese. Il mercato finanziario è debole e senza regole, e arriva perciò solo all'1% della vendita globale dei titoli, mentre la quota di partecipazione dell'Italia al commercio mondiale è di quattro volte superiore. Nella struttura industriale domina il controllo familiare paleocapitalistico. Più del 60% delle banche è in mano pubblica. Il Paese ha ufficialmente l'11-12% di disoccupati, ma al Sud è senza lavoro un giovane su due, mentre al Nord vige la piena occupazione. Non si trovano più operai specializzati e molte imprese assumono lavoratori provenienti dai Balcani. Nel Sud investono ormai solo le grandi imprese o le imprese statali, cui non può nuocere molto la criminalità organizzata. Le altre "si adattano".
Mancano le infrastrutture. Per alcune aziende del Nord è più vantaggioso andare a investire nell'Est europeo che nel Sud d'Italia. Il Mezzogiorno contribuisce alle esportazioni italiane solo per il 5%, il Nord per più dei due terzi. Escluso dal boom delle esportazioni favorito dalla bassa quotazione della lira, il Sud continua ad arretrare. Per capacità d'investimento, l'Italia è sul gradino più basso della scala europea. Dovrebbero essere investiti capitali enormi, ma le casse dello Stato sono vuote. Nessun Paese industrializzato spende così poco in formazione professionale, ricerca e sviluppo. L'Italia dispone, con le sue 200 mila piccole e medie imprese, di un ceto medio imprenditoriale molto più grande di quello tedesco. Ma abbandonato a se stesso. E l'improvvisazione, quest'arte esercitata magistralmente dagli italiani, non può più continuare ad aiutarli a risolvere l'enorme e crescente quantità di problemi.
L'europeizzazione dell'Italia è nelle mani delle élites politiche del Paese. Rinviare la soluzione dei problemi farà soltanto aumentare il prezzo del compito da affrontare.


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