Mentre il dibattito
politico italiano appare sempre più ripiegato su se stesso,
nel mondo sono in atto trasformazioni di grande portata, due delle
quali possono creare rischi per i Paesi dell'Occidente industrializzato
e, quindi, anche per l'Italia.
Il primo fenomeno è la competizione sui mercati mondiali, che
non coinvolge più soltanto le imprese, ma, in un'economia tendenzialmente
globalizzata, anche gli Stati e i loro territori. Il secondo è
la progressiva perdita di sovranità degli Stati nazionali in
materia economica.
E' certamente la crisi del welfare state il sintomo più vistoso
della perdita di autonomia dello Stato di fronte alle logiche dell'economia
mondiale. Vi è un ampio consenso fra gli studiosi nel decretare
che il welfare state europeo non sopravviverà alla globalizzazione
dell'economia. L'eclisse del welfare toglie irreversibilmente allo
Stato alcuni strumenti usati con frequenza e intensità nei
decenni passati per dare risposte ai contraccolpi che, soprattutto
sul piano occupazionale, le trasformazioni dell'economia mondiale
provocavano all'interno delle società nazionali.
La convergenza dei due fenomeni - la competizione permanente fra i
territori e la perdita di jus imperii degli Stati nazionali in materia
economica - pone lo Stato in una situazione paradossale: esso si trova
in una condizione di grande debolezza, privo dei suoi tradizionali
poteri e strumenti, proprio in una fase in cui la sua storica funzione
di preservare ai suoi cittadini prosperità e condizioni di
vita civile è messa alla prova da alcune conseguenze negative
della competizione. I processi di adeguamento dei sistemi produttivi
nazionali e locali alle logiche economiche mondiali non sono indolori,
e possono portare disoccupazione e tensioni sociali.
Improponibili vecchie soluzioni di welfare, esclusa la scelta protezionista,
ci si deve domandare: che cosa fare in Italia per rispondere ai rischi
che la competizione permanente comporta per il Paese, per le sue economie
territoriali, per i cittadini? Una prima risposta è di realizzare
politiche geoeconomiche in grado di ricreare le condizioni competitive
dei territori italiani, promuovendo al loro interno una situazione
di efficienza diffusa, così da rendere conveniente l'esercizio
di attività economiche e di attirare nuovi investimenti.
L'efficienza diffusa di un territorio comprende fattori di natura
non essenzialmente economica, ma fondamentali per lo sviluppo economico
e che diventano vantaggi comparati nella competizione: dalla risorsa
"sapere" alle infrastrutture di trasporto e di comunicazione,
dalla ricerca scientifica alla qualità urbana e ambientale.
La creazione di efficienza diffusa nei territori deve necessariamente
coinvolgere una molteplicità di attori, che vanno ben al di
là degli operatori economici. Per quanto riguarda lo Stato,
poiché si tratta di intervenire su territori e su economie
reali, ciascuno con le proprie specificità, esso non potrà
più agire secondo logiche accentrate e dirigiste. Sarà
invece uno Stato che conserverà alcuni orientamenti strategici,
ma affiderà ai governi regionali e ai governi cittadini molte
funzioni di intervento sul territorio.

Ma questo non basta. La necessità di adattarsi in modo quasi
simbiotico alle caratteristiche delle economie territoriali affida
alla scuola e alle università, alle istituzioni dì ricerca,
alle associazioni imprenditoriali e a quelle del lavoro, alle Camere
di commercio, in generale, al tessuto della società civile,
compiti geoeconomici importanti. E vede naturalmente l'Unione europea
e le sue agenzie protagoniste di azioni geoeconomiche a favore dei
territori degli Stati membri.
Una tale moltitudine di soggetti richiede un consenso sulle strategie
generali e una cultura condivisa. Alla costruzione di una cultura
geoeconomica per l'Italia noi intendiamo dare il nostro contributo
col programma di ricerca Prospettive geoeconomiche.
Una seconda risposta, complementare alla precedente, è promuovere
la presenza dell'economia italiana sui mercati internazionali.
Ciò implica un ripensamento dei ruoli del ministero degli Affari
Esteri, del ministero del Commercio con l'estero e delle agenzie collegate,
rafforzando la priorità delle strategie geoeconomiche. Non
si chiede naturalmente di mettere in secondo piano gli interessi geopolitici
e strategici dell'Italia, ma di riconoscere che essi si limitano oggi
alla dimensione regionale europea e mediterranea. Al contrario, gli
interessi geoeconomici italiani oggi hanno un orizzonte mondiale.
Affinché le rappresentanze pubbliche italiane, ad iniziare
da quelle diplomatiche, agiscano per sostenere gli interessi geoeconemici
dell'Italia e dei suoi territori, occorre seguire due linee complementari.
In primo luogo, ridurre in modo progressivo e graduale le rappresentanze
dallo spazio dell'Unione europea. La rappresentanza italiana all'interno
di questo spazio è ormai assicurata dalla società civile
e a livello istituzionale dai governi regionali e cittadini.
In secondo luogo, indirizzare le risorse così liberate verso
le nuove priorità, dando l'adeguato rilievo agli interessi
geoeconomici del Paese in un orizzonte mondiale. In particolare verso
l'Asia, l'area dove vi sono le più grandi possibilità
di sviluppo, ma anche quelle dove l'Italia è meno presente.
Geoeconomia / In Asia la sfida del futuro
"Prospettive
geoeconomiche" nasce da una preoccupazione: nella competizione
globale sui mercati, l'Italia è in condizioni di relativo svantaggio.
Una concorrenza sempre più serrata oppone non soltanto le imprese
ma i sistemi territoriali regionali dei vari Paesi; e quelli di vecchia
industrializzazione competono con difficoltà con quelle emergenti,
in particolare del Sud-Est asiatico, come dimostrano i dati sulla
disoccupazione crescente nei Paesi Ocse. Ma i territori più
esposti sono i diversi Sud del Nord. E in particolare il nostro Mezzogiorno,
il cui tasso di disoccupazione "segna una frattura nettissima
con il resto del Paese".
Fino a poco tempo fa, lo Stato si faceva carico di questi svantaggi,
creando lavoro "protetto" o integrando il reddito dei disoccupati.
Ora quegli strumenti tradizionali hanno perso efficacia. Da un lato,
l'economia è sempre più una "variabile indipendente"
rispetto all'intervento pubblico; dall'altro, le prospettive di welfare
state sono sempre meno sostenibili.
Per questo è urgente dotarsi di una mentalità nuova,
che affronti anche i problemi sociali in termini geoeconomici. Lo
Stato non deve certo abbandonare a se stesso le aree meno competitive
del Paese: ma, anziché erogare sussidi o creare occupazione
fittizia, deve aiutarle a competere meglio, promuovendo una generale
condizione di efficienza nel territorio e intervenendo sui fattori
di svantaggio.
Il rapporto delle varie regioni italiane con l'economia internazionale
è gravemente squilibrato. Il Mezzogiorno, in particolare, vive
quasi in condizione di isolamento. Mentre la Lombardia, con il 15,6%
della popolazione, produce il 30,1% dell'export italiano, la Sicilia
con una popolazione dell'8,7% esporta l'1,4%, la Campania con una
popolazione del 9,9% esporta il 2,6%, la Puglia con una popolazione
del 7,1% esporta il 2,2. Ma anche dalle regioni "forti"
il flusso delle merci è ancora diretto in prevalenza verso
l'Unione europea, mentre nei prossimi anni i mercati più interessanti
saranno quelli dei Paesi in sviluppo, in particolare asiatici. In
tutti questi Paesi, invece, la nostra presenza è inferiore
alla media del 5%, che è la quota italiana nel mercato mondiale.
Per aiutare l'Italia, e soprattutto le regioni meridionali, a recuperare
il ritardo, la prima condizione è identificare i fattori di
svantaggio. E il primo fattore è di tipo culturale. Il nuovo
filone di ricerca mira in primo luogo a diffondere tra le élites
economiche e politiche una "coscienza geoeconomica". Gli
operatori pubblici e privati devono riuscire a costruirsi in tempi
rapidi una "nuova mappa" dei mercati mondiali, delle zone
economiche e dei loro legami, e in questo scenario globale approfondire
capillarmente la conoscenza dei mercati più interessanti, su
scala planetaria.
Esistono già numerosi "Rapporti" (su Cina, Vietnam,
India, Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Filippine, Indonesia, Pakistan,
ecc.), integrati dagli atti di convegni (sull'economia e sulla politica
nel Mediterraneo, sull'Europa Centrale e Orientale, sul Sud-Est asiatico).
Ma decisivo è il ruolo dei poteri pubblici, che devono creare
in ogni zona del Paese condizioni generali di efficienza, migliorare
le istituzioni educative, sviluppare la ricerca scientifica e le infrastrutture;
e nelle regioni meridionali, oltre a questo, combattere l'illegalità
organizzata, che è di gran lunga il primo dei loro svantaggi
competitivi.
Infine, gli operatori economici, soprattutto piccoli e medi, vanno
sostenuti con una presenza più efficace delle rappresentanze
nazionali all'estero. In prospettiva, l'Italia deve abituarsi a considerare
l'Unione europea uno "spazio domestico" e a competere sui
mercati di tutto il mondo individuando gli spazi che si aprono nei
Paesi emergenti.