§ GEOECONOMIA

CULTURA DA EXPORT




Marcello Pacini
Direttore della Fondazione Agnelli



Mentre il dibattito politico italiano appare sempre più ripiegato su se stesso, nel mondo sono in atto trasformazioni di grande portata, due delle quali possono creare rischi per i Paesi dell'Occidente industrializzato e, quindi, anche per l'Italia.
Il primo fenomeno è la competizione sui mercati mondiali, che non coinvolge più soltanto le imprese, ma, in un'economia tendenzialmente globalizzata, anche gli Stati e i loro territori. Il secondo è la progressiva perdita di sovranità degli Stati nazionali in materia economica.
E' certamente la crisi del welfare state il sintomo più vistoso della perdita di autonomia dello Stato di fronte alle logiche dell'economia mondiale. Vi è un ampio consenso fra gli studiosi nel decretare che il welfare state europeo non sopravviverà alla globalizzazione dell'economia. L'eclisse del welfare toglie irreversibilmente allo Stato alcuni strumenti usati con frequenza e intensità nei decenni passati per dare risposte ai contraccolpi che, soprattutto sul piano occupazionale, le trasformazioni dell'economia mondiale provocavano all'interno delle società nazionali.
La convergenza dei due fenomeni - la competizione permanente fra i territori e la perdita di jus imperii degli Stati nazionali in materia economica - pone lo Stato in una situazione paradossale: esso si trova in una condizione di grande debolezza, privo dei suoi tradizionali poteri e strumenti, proprio in una fase in cui la sua storica funzione di preservare ai suoi cittadini prosperità e condizioni di vita civile è messa alla prova da alcune conseguenze negative della competizione. I processi di adeguamento dei sistemi produttivi nazionali e locali alle logiche economiche mondiali non sono indolori, e possono portare disoccupazione e tensioni sociali.
Improponibili vecchie soluzioni di welfare, esclusa la scelta protezionista, ci si deve domandare: che cosa fare in Italia per rispondere ai rischi che la competizione permanente comporta per il Paese, per le sue economie territoriali, per i cittadini? Una prima risposta è di realizzare politiche geoeconomiche in grado di ricreare le condizioni competitive dei territori italiani, promuovendo al loro interno una situazione di efficienza diffusa, così da rendere conveniente l'esercizio di attività economiche e di attirare nuovi investimenti.
L'efficienza diffusa di un territorio comprende fattori di natura non essenzialmente economica, ma fondamentali per lo sviluppo economico e che diventano vantaggi comparati nella competizione: dalla risorsa "sapere" alle infrastrutture di trasporto e di comunicazione, dalla ricerca scientifica alla qualità urbana e ambientale.
La creazione di efficienza diffusa nei territori deve necessariamente coinvolgere una molteplicità di attori, che vanno ben al di là degli operatori economici. Per quanto riguarda lo Stato, poiché si tratta di intervenire su territori e su economie reali, ciascuno con le proprie specificità, esso non potrà più agire secondo logiche accentrate e dirigiste. Sarà invece uno Stato che conserverà alcuni orientamenti strategici, ma affiderà ai governi regionali e ai governi cittadini molte funzioni di intervento sul territorio.


Ma questo non basta. La necessità di adattarsi in modo quasi simbiotico alle caratteristiche delle economie territoriali affida alla scuola e alle università, alle istituzioni dì ricerca, alle associazioni imprenditoriali e a quelle del lavoro, alle Camere di commercio, in generale, al tessuto della società civile, compiti geoeconomici importanti. E vede naturalmente l'Unione europea e le sue agenzie protagoniste di azioni geoeconomiche a favore dei territori degli Stati membri.
Una tale moltitudine di soggetti richiede un consenso sulle strategie generali e una cultura condivisa. Alla costruzione di una cultura geoeconomica per l'Italia noi intendiamo dare il nostro contributo col programma di ricerca Prospettive geoeconomiche.
Una seconda risposta, complementare alla precedente, è promuovere la presenza dell'economia italiana sui mercati internazionali.
Ciò implica un ripensamento dei ruoli del ministero degli Affari Esteri, del ministero del Commercio con l'estero e delle agenzie collegate, rafforzando la priorità delle strategie geoeconomiche. Non si chiede naturalmente di mettere in secondo piano gli interessi geopolitici e strategici dell'Italia, ma di riconoscere che essi si limitano oggi alla dimensione regionale europea e mediterranea. Al contrario, gli interessi geoeconomici italiani oggi hanno un orizzonte mondiale. Affinché le rappresentanze pubbliche italiane, ad iniziare da quelle diplomatiche, agiscano per sostenere gli interessi geoeconemici dell'Italia e dei suoi territori, occorre seguire due linee complementari.
In primo luogo, ridurre in modo progressivo e graduale le rappresentanze dallo spazio dell'Unione europea. La rappresentanza italiana all'interno di questo spazio è ormai assicurata dalla società civile e a livello istituzionale dai governi regionali e cittadini.
In secondo luogo, indirizzare le risorse così liberate verso le nuove priorità, dando l'adeguato rilievo agli interessi geoeconomici del Paese in un orizzonte mondiale. In particolare verso l'Asia, l'area dove vi sono le più grandi possibilità di sviluppo, ma anche quelle dove l'Italia è meno presente.


Geoeconomia / In Asia la sfida del futuro

"Prospettive geoeconomiche" nasce da una preoccupazione: nella competizione globale sui mercati, l'Italia è in condizioni di relativo svantaggio. Una concorrenza sempre più serrata oppone non soltanto le imprese ma i sistemi territoriali regionali dei vari Paesi; e quelli di vecchia industrializzazione competono con difficoltà con quelle emergenti, in particolare del Sud-Est asiatico, come dimostrano i dati sulla disoccupazione crescente nei Paesi Ocse. Ma i territori più esposti sono i diversi Sud del Nord. E in particolare il nostro Mezzogiorno, il cui tasso di disoccupazione "segna una frattura nettissima con il resto del Paese".
Fino a poco tempo fa, lo Stato si faceva carico di questi svantaggi, creando lavoro "protetto" o integrando il reddito dei disoccupati. Ora quegli strumenti tradizionali hanno perso efficacia. Da un lato, l'economia è sempre più una "variabile indipendente" rispetto all'intervento pubblico; dall'altro, le prospettive di welfare state sono sempre meno sostenibili.
Per questo è urgente dotarsi di una mentalità nuova, che affronti anche i problemi sociali in termini geoeconomici. Lo Stato non deve certo abbandonare a se stesso le aree meno competitive del Paese: ma, anziché erogare sussidi o creare occupazione fittizia, deve aiutarle a competere meglio, promuovendo una generale condizione di efficienza nel territorio e intervenendo sui fattori di svantaggio.
Il rapporto delle varie regioni italiane con l'economia internazionale è gravemente squilibrato. Il Mezzogiorno, in particolare, vive quasi in condizione di isolamento. Mentre la Lombardia, con il 15,6% della popolazione, produce il 30,1% dell'export italiano, la Sicilia con una popolazione dell'8,7% esporta l'1,4%, la Campania con una popolazione del 9,9% esporta il 2,6%, la Puglia con una popolazione del 7,1% esporta il 2,2. Ma anche dalle regioni "forti" il flusso delle merci è ancora diretto in prevalenza verso l'Unione europea, mentre nei prossimi anni i mercati più interessanti saranno quelli dei Paesi in sviluppo, in particolare asiatici. In tutti questi Paesi, invece, la nostra presenza è inferiore alla media del 5%, che è la quota italiana nel mercato mondiale.
Per aiutare l'Italia, e soprattutto le regioni meridionali, a recuperare il ritardo, la prima condizione è identificare i fattori di svantaggio. E il primo fattore è di tipo culturale. Il nuovo filone di ricerca mira in primo luogo a diffondere tra le élites economiche e politiche una "coscienza geoeconomica". Gli operatori pubblici e privati devono riuscire a costruirsi in tempi rapidi una "nuova mappa" dei mercati mondiali, delle zone economiche e dei loro legami, e in questo scenario globale approfondire capillarmente la conoscenza dei mercati più interessanti, su scala planetaria.
Esistono già numerosi "Rapporti" (su Cina, Vietnam, India, Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Filippine, Indonesia, Pakistan, ecc.), integrati dagli atti di convegni (sull'economia e sulla politica nel Mediterraneo, sull'Europa Centrale e Orientale, sul Sud-Est asiatico). Ma decisivo è il ruolo dei poteri pubblici, che devono creare in ogni zona del Paese condizioni generali di efficienza, migliorare le istituzioni educative, sviluppare la ricerca scientifica e le infrastrutture; e nelle regioni meridionali, oltre a questo, combattere l'illegalità organizzata, che è di gran lunga il primo dei loro svantaggi competitivi.


Infine, gli operatori economici, soprattutto piccoli e medi, vanno sostenuti con una presenza più efficace delle rappresentanze nazionali all'estero. In prospettiva, l'Italia deve abituarsi a considerare l'Unione europea uno "spazio domestico" e a competere sui mercati di tutto il mondo individuando gli spazi che si aprono nei Paesi emergenti.


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