§ L'ALTRA STORIA

I MERIDIONALI CHE RIFECERO L'ITALIA




A. P.



Per quarant'anni, dal 1932 al 1972, fu il principe laico della finanza milanese, e meglio ancora italiana. Ebbe il tempo e la vitalità di conoscere tutto e tutti, dalle trincee della prima guerra mondiale al boom economico degli anni Sessanta. Nel 1919 entrò nel microscopico ufficio da giornalista di Benito Mussolini, a Milano; trent'anni più tardi era al desco di Palmiro Togliatti. Fu tra i primissimi, nel nostro Paese, a capire le opere di John Maynard Keynes. Ma il faro intellettuale di tutta la sua vita e di tutta la sua azione restò Benedetto Croce. Di se stesso, in una di quelle serate in cui amava far tardi con gli amici e parlare a ruota libera, diceva ironicamente di essere soltanto "un mercante di denaro". Fu molto di più, e l'Italietta piccola piccola dei nostri giorni avrebbe rimosso la sua memoria, se non fossero giunte due biografie che hanno rinverdito la leggenda del "the fabulous italian banker", come lo avevano definito gli americani. Due libri per i due volti del mitico Raffaele Mattioli. Da un lato, il meridionale che si era fatto da sé e che aveva il culto dell'amicizia, delle affinità elettive assaporate lungo una vita, e alle quali per tutta la vita rimase fedele. Questo è il volto de La disputa sul Nuovo Mondo, un prodigioso libro di Antonello Gerbi, amico e collaboratore strettissimo di Mattioli, pubblicato un po' di anni fa dalla Ricciardi, la casa editrice della famiglia Mattioli. Dall'altro lato, l'uomo che ebbe, fra il 1931 e il 1933, un ruolo decisivo nella trasformazione del sistema bancario e delle strutture istituzionali dell'economia italiana: ed ecco l'accurata ricerca condotta su fonti in grandissima parte inedite da Giorgio Rodano, in Il credito all'economia, edito anch'esso da Ricciardi. Che un uomo di banca, (tale fu Gerbi per quarant'anni della sua vita), avesse la libertà mentale di dedicare tre decenni di ricerche a un testo così dotto e raffinato, la ricostruzione dell'antichissima disputa se l'America valesse o meno il Vecchio Continente, non deve sorprendere. Nel clan Mattioli - e Gerbi ne faceva parte dal primo momento - letteratura e bilanci aziendali, storia e rendiconti annuali, reinterpretazioni del Manzoni e disquisizioni sul tasso d'interesse facevano esistenzialmente e intellettualmente parte di un unico mondo. Nel quale si sviscerava la storia, per non doverla rivivere.
Abruzzese della fascia marina, nato a Vasto nel 1895, Mattioli sale al Nord nell'immediato anteguerra. La sua è una leva di meridionali d'ingegno che son destinati a diventare i primi attori dell'economia italiana. I templi della finanza meneghina vedranno officiare questi "terroni" aguzzi, colti, raffinati, lavoratori instancabili e sublimi, spiriti creatori di levatura europea e mondiale.
Arriva al Nord e sarà amicissimo di Mattioli il siciliano Enrico Cuccia, il futuro mitico amministratore delegato di Mediobanca, uomo di cultura eccezionale, ma che con gli amici - anche i più vicini e confidenti - parla soltanto di economia; sarà uno dei "grand commis" dello Stato, quello che afferrerà al volo le intuizioni di Mattioli, il presidente dell'Iri, Alberto Beneduce, nato a Caserta; il suo braccio destro e futuro Governatore della Banca d'Italia, voluto da Luigi Einaudi, sarà il pugliese Donato Menichella; presidente di Mediobanca sarà l'avellinese Adolfo Tino, uno che era stato espulso dai gerarchi dall'ordine dei giornalisti e che era stato costretto a ripiegare nel lavoro d'avvocato; verrà a dirigere l'ufficio studi della Banca Commerciale Italiana, padrino Mattioli, un palermitano asciutto e segaligno, d'acume vivacissimo, Ugo La Malfa, che giovanissimo aveva attirato l'attenzione di Giovanni Amendola per la sua passione e per l'intelligenza di studente e politico democratico. Nasce e si consolida un gruppo formidabile, che sarà un punto di riferimento intellettuale e operativo per le generazioni future.
Mattioli si laurea a Genova, alla Scuola superiore di commercio, con Attilio Cabiati, del quale divenne assistente alla "Bocconi" di Milano. Lì fa amicizia con il figlio del rettore, Piero Sraffa, che gli farà conoscere il giovane dirigente comunista Antonio Gramsci, del quale più tardi Mattioli salverà e conserverà in cassaforte i Quaderni dal carcere.
Mattioli divide il suo tempo fra la Bocconi e il lavoro redazionale alla rivista Bancaria, sulla quale pubblica un articolo che suscita l'attenzione di Giuseppe Toeplitz, il celeberrimo amministratore delegato della Comit. Toeplitz lo assume nella sua segreteria, ponte di comando di una banca che è stata tutt'uno con il decollo industriale dell'Italia. Infatti, dalla Comit sono venuti i quattrini senza i quali non poche industrie italiane non avrebbero potuto avvicinare il passo dei giganti industriali dell'Europa del tempo.
Si tratta di una costruzione precaria, assieme virtù e miseria della cosiddetta "banca mista". La Comit raccoglie i risparmi del piccolo e modesto mondo operaio e contadino, artigiano e impiegatizio dell'epoca, e li immobilizza nelle intraprese industriali di lungo periodo. La recessione economica prodotta dalla crisi del 1929 fa tremare dalle fondamenta questo edificio. Ci sono lunghe notti in cui Toeplitz guarda i suoi più diretti collaboratori, Raffaele Mattioli e Giovanni Malagodi, il futuro segretario del Partito liberale, con la morte negli occhi: se il giorno dopo un paio di clienti si fossero presentati per ritirare i loro depositi, in banca non sarebbe restata una lira e sarebbe stato necessario chiudere gli sportelli...
Sia pure a malincuore, Toeplitz prende la decisione di recarsi da Mussolini a chiedere aiuto: il crollo della Comit sarebbe una mazzata terribile per l'assetto industriale del Paese. Di economia, in realtà, Mussolini non capisce granché, però ha il fiuto degli uomini e delle cose. A chiarirgli l'entità dei problemi c'è, appunto, Beneduce, un ex seguace di Francesco Saverio Nitti, che ha deciso di servire al meglio lo Stato, qualunque colore politico esso abbia. Mussolini è solito ricevere Beneduce al mattino, mentre sta facendosi la barba. E' il suo momento di relax. Pur avvolto nella schiuma, comprende che le sorti della Comit e quelle dell'economia nazionale sono indissolubilmente legate.
Dà così disco verde all'ingresso in prima linea dello Stato nell'economia. Nasce l'Iri, strumento prezioso della democrazia italiana quando nel dopoguerra si tratterà di "ricostruire" le condizioni di redditività industriale del Paese. E' la risposta occidentale alla devastante crisi degli anni Trenta, nell'Italia di Mussolini come nell'America di Franklin Delano Roosevelt.
La Comit è salva. Nel suo libro, Rodano pubblica e commenta puntualmente i documenti di questo snodo nevralgico della nostra storia economica. Troppo legato all'immagine e al ruolo che era stato della Comit nel primo quarto di secolo, Toeplitz lascia e se ne va. Nella carica di amministratore delegato gli succede Mattioli.
A trentasette anni Mattioli prende in mano il timone. Nascono così lo stile e, insieme, la leggenda del "fabulous banker" italiano. Stile di lavoro, innanzitutto. In banca tutte le mattine fino alle 14. Pranzo a casa, che è dietro l'angolo, e poi di nuovo in banca fino alle 21, e magari più tardi. Le finestre del suo studio sono sempre chiuse, rigorosamente, d'estate come d'inverno. Lavoro tutti i giorni, compresi il sabato e la domenica mattina. Le ferie? Neanche a pensarci, eccezion fatta per una scarna settimana d'agosto ("E' lo stile di lavoro della mia generazione. Anch'io lavoro tutti i sabati e le domeniche mattina", ricorda il senatore Leo Valiani, amico e sodale di Mattioli).
E fanno parte dello stile di lavoro i criteri con cui scegliere i quadri aziendali. Ad esempio, Antonello Gerbi, assunto da Mattioli nel 1932 e più tardi capo dell'Ufficio studi. Gerbi è un ebreo imparentato con Claudio Treves, una delle figure più limpide del riformismo socialista. Un giorno che è arrivato a Londra, chiedono a Mattioli quali novità ci siano in banca: "Ho assunto un filosofo domato", risponde soddisfatto.
Altro assunto destinato a diventare famoso è Sergio Solmi, il futuro capo dell'Ufficio legale. Solmi è uno che la sera, tornato dal lavoro, si getta sulle pagine più preziose della letteratura francese e ne distilla saggi elegantissimi, ad esempio La salute di Montaigne, pubblicato nel 1942, e naturalmente dedicato a Mattioli.
Mattioli è avverso al regime, anche se ha vissuto dall'interno l'avventura nazionalista da cui il fascismo prese le mosse. Ufficiale decorato, è stato fra coloro che hanno seguito Gabriele D'Annunzio nell'impresa fiumana. In quell'occasione fece da tramite fra il Comandante e Mussolini, allora direttore del Popolo d'Italia.
Il suo era stato l'interventismo democratico comune alla maggioranza della gioventù intellettuale del tempo. Quando, molti anni più tardi, il figlio Maurizio gli dirà che "non dovevamo intervenire", Mattioli gli risponde: "No, non potevamo non intervenire. Erano gli altri che non dovevano fare la guerra". Dov'è, assieme, la constatazione che l'Italia era una potenza di second'ordine nel gioco europeo, ma che da quel gioco non poteva e non doveva estraniarsi.
Eccettuato quel viaggio da Fiume a Milano, Mattioli non incontrerà più Mussolini. Avrà invece a che fare con lui. Nel 1935, al tempo delle sanzioni contro l'Italia che aveva aperto le ostilità con l'Etiopia, Mussolini escogita come misura di ritorsione una moratoria dei debiti italiani verso i Paesi che hanno attuato quelle sanzioni. Il ministro delle Finanze convoca i più importanti banchieri italiani e chiede loro che cosa ne pensino. Mattioli risponde con tutta l'energia di cui è capace che è assolutamente contrario. Alla fine della riunione, Arturo Osio, il grande dirigente della Banca Nazionale del Lavoro, lo prende sottobraccio e gli soffia all'orecchio: "Raffaele, ti sei giocato il posto". E invece la mattina seguente arriva una telefonata dal ministro: "Mattioli, il Duce vuole un memorandum nel quale siano esposte le sue argomentazioni". Mattioli prepara e spedisce. Mussolini lo legge e vi scrive di suo pugno: "Mattioli ha ragione". E lascia cadere le misure di ritorsione.
Quando arrivano le ignobili misure di discriminazione antisemita, Mattioli convoca Gerbi nel suo ufficio: "Caro Gerbi, abbiamo un posto vacante al Banco italiano Lima del Perù. Lei ha qualcuno da suggerirmi?", gli dice allusivamente. Gerbi capisce al volo e parte. Tornerà dieci anni più tardi, nel 1948, con la prima edizione spagnola della Disputa in valigia. Quando l'occupazione tedesca spacca in due il Paese, la Comit diventa un centro di accoglienza degli oppositori. Trova ospitalità nei locali della banca, nei mesi più drammatici tra il '44 e il '45, Leo Valiani, uno dei capi della Resistenza. L'ufficio romano di Mattioli, a piazza Sant'Apostoli, (e lo ricorderà più volte Giorgio Amendola), diventerà un centro di raccordo dell'antifascismo.
A guerra finita, Mattioli legge su Voce operaia un articolo di Franco Rodano in difesa dell'Iri. Lo trova di grande interesse: Rodano viene così assunto all'Ufficio studi romano della Comit, dove lavorerà a fianco di Raimondo Craveri, il genero di Benedetto Croce. "Era successo a Rodano quel che era successo a Mattioli vent'anni prima: d'essere assunto in banca per avere scritto un brillante articolo", commenterà Valiani. Attraverso Rodano, Mattioli conosce Togliatti. Lo incontra più volte nella villa romana della moglie di Rodano. I due uomini sono fatti per capirsi: vengono entrambi da lontano, hanno il gusto delle pagine pregiate e delle citazioni erudite. Togliatti è a capo di un partito dell'estrema sinistra, ma nella conversazione privata è un misurato e attento ascoltatore delle ragioni degli altri. Quanto a Mattioli, è quello che, anni prima, a chi gli tesseva l'elogio dei fuoriusciti e degli oppositori del fascismo, rispondeva: "Di veramente seri ce n'è uno solo, Gramsci".
Nel 1947 Mattioli scrive a Togliatti una lettera che è un vero e proprio manifesto di politica economica. Sono anni in cui l'Italia sta cercando disperatamente di sollevarsi dalla guerra. Per riuscirvi, scrive Mattioli al segretario del Pci, deve essere in grado di "fare i conti". E per fare i conti, occorre domare l'inflazione, l'illusione che il crescere dei redditi nominali equivalga a una crescita dei redditi reali.
E' una vera e propria lezione di economia politica che il grande banchiere indirizza al rappresentante dei ceti deboli della società; perché proprio contro i ceti deboli l'inflazione, la più ingiusta delle tasse, imperversa. Togliatti, testimoniano i suoi amici, lesse la lettera e la mise in archivio senza aggiungervi un solo commento, cosa che non faceva mai. Dopo la morte di Mattioli, Amendola rivelerà che ad ogni elezione politica Mattioli veniva invitato a candidarsi da indipendente nelle liste del Pci. Il suo rifiuto era cortese.
Per lui la politica era quella che aveva imparato alla scuola di Croce, criterio etico-politico, amore per il proprio Paese, volontà di fare e di costruire, di prendere la vita giorno per giorno "in tutta la sua divinità" e, nello stesso tempo, saper puntare in alto.
Il binomio Gerbi-Mattioli, interrotto dagli anni dell'esilio sudamericano dell'autore della Disputa, si ricompone al momento della stesura delle celeberrime "Relazioni" annue della Comit. Nell'idea di Mattioli, queste Relazioni devono essere tanto inappuntabili dal punto di vista delle cifre analizzate e discusse, quanto avere il ritmo di un componimento letterario. Mattioli èquello che la sera, dopo dieci ore di lavoro in ufficio e tre o quattro ore di conversazione con gli amici (conversazioni che Riccardo Bacchelli ha rievocato in un testo famoso, Le notti di via Bigli), si rincantucciava e si metteva a tradurre i sonetti di Shakespeare e le pagine più complesse di Coleridge o di Goethe.
Lucio Villari ha giustamente incluso alcuni brani di queste Relazioni in una sua antologia sul Capitalismo italiano del Novecento, pubblicata diversi anni fa. Ma forse meriterebbero di essere inclusi anche in un'antologia, modernamente intesa, dello scrivere in splendido italiano.
L'editrice Ricciardi era stata presa in mano da Mattioli, con i soldi suoi, nel 1951. I famosi settanta volumi progettati da lui divennero ben presto un centinaio. Il primo fu un'antologia delle opere di Croce. Mattioli li seguiva uno per uno, con sconfinato amore. A Napoli trasformò l'abitazione-biblioteca di don Benedetto, a Palazzo Filomarino, in una fondazione di cui diverrà presidente alla morte del grande critico italiano. Alla stessa Comit diede stimolo a una collana di studi di storia economica di cui furono pubblicati una trentina di titoli.
I libri si ammonticchiavano sul tavolo circolare situato accanto alla sua scrivania, nell'ufficio di piazza della Scala. La prima cosa che esibiva ai suoi visitatori erano i dorsi delle impeccabili edizioni Ricciardi, stampate dalla splendida tipografia Valdonega di Verona. La sua ricerca di bibliofilo accanito era proseguita negli anni: i 3.500 volumi dell'eccezionale collezione di testi economici del '700 e dell'800 vennero poi donati dalla famiglia Mattioli alla "Bocconi".
In quell'ambiente il libro restava lo strumento di misura e di comunicazione per eccellenza. Sandro Gerbi, figlio e devoto legatario dell'eredità letteraria di Antonello, mostra ancora oggi una preziosa edizione settecentesca del Trattato della moneta dell'abate Ferdinando Galiani, con una spiritosa dedica di Mattioli a Gerbi padre.
Nel 1972 Mattioli, divenuto nel '60 presidente della Comit, si congeda. E' un saluto di gran classe, in cui gli ammiccamenti ironici non riescono a celare una profonda commozione. "Mi hai interrotto l'applauso", lancia a Pasquale Saraceno che stava prendendo la parola dopo di lui. "Anche se mi mettessi a sedere sul seggio dell'usciere, resterei sempre il presidente della Comit", aveva detto un giorno. E invece appena un anno dopo, il 25 luglio 1973, muore. Nella casa natale di Vasto lo commemorano gli amici di tutta una vita, da Leo Valiani a Giulio Einaudi.
Con lui se ne va un gran ceppo di meridionali che per pienezza di esperienza e per ardire di immaginazione avrebbe trovato difficilmente eredi nell'intera borghesia italiana. Se ne va il tempo dell'intelligenza appassionata, dello spirito pronto, del coraggio intellettuale, del lavoro senza frontiere. E anche quello delle conversazioni fino a tarda notte, dei dibattiti e confronti tra menti creative, tra scopritori di talenti, tra scrittori raffinati e lettori attenti e intuitivi. Uno dopo l'altro, la morte falciò una generazione di meridionali che avevano rifatto l'Italia dandole prestigio internazionale e spessore morale di prim'ordine.
Beneduce, che doveva liquidare le imprese passive italiane, le portò in attivo, ne fece uno strumento di produzione di ricchezza e di sviluppo attraverso l'Iri e fu punto di riferimento persino per i Paesi scandinavi, che pure erano all'avanguardia del welfare con una socialdemocrazia efficiente e moderna. Menichella governò la Banca centrale col fermo rigore e con l'onestà personale e intellettuale dello spirito crociano. Tino fu il fulcro di una politica di sviluppo ancora oggi fondata sulla potenza economica e sulla riservatezza. Costoro, e i loro staff, rifecero un'Italia che si era frantumata due volte, dopo la prima guerra mondiale e dopo la guerra civile che fu lo sbocco "naturale" della seconda. Forse non è inutile ricordarlo, oggi, mentre si minaccia di lasciare uomini e terre del Sud alla deriva mediterranea.


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