§ PROSPETTIVE

IL FONDAMENTO COSTITUZIONALE DELLA COOPERAZIONE




Michele Carducci



1. Economia e valori costituzionali
Una lettura sistematica e completa dei princìpi costituzionali che possono guidare l'interprete nella considerazione dei problemi dell'economia contemporanea e della realtà dell'impresa non può prescindere da una serie di valutazioni preliminari sul progetto di società che la Costituzione italiana del 1948 ha voluto promuovere. Un progetto che conserva pienamente la sua attualità ed è ancora ben lungi, nonostante le critiche cui da più parti è stato sottoposto, dall'essere pienamente realizzato.
Infatti, è difficile disconoscere la pregnante e drammatica attualità del disegno di liberazione umana racchiuso nei principi fondamentali della Costituzione. Oggi che il dramma della persona umana si consuma nelle guerre etniche e religiose, nell'esplosione dei nazionalismi, negli atteggiamenti di protezionismo economico e sociale nei confronti dei soggetti più deboli, nella diffusione dei fenomeni di cosiddetta "nuova povertà".
Non inutile sembra, pertanto, una rapida ricognizione di quei princìpi che consentano di orientarsi nella considerazione delle problematiche economico-sociali contemporanee.
Nella Costituzione italiana, così com'è e non come si vorrebbe che fosse, senza riserve mentali e senza letture parziali, è innegabile che traspaia una concezione della vita associata, nelle sue varie forme ed esplicazioni, che vede al suo centro la persona umana come fondamento dell'azione individuale e collettiva, fulcro di un complesso di diritti che non si cristallizzano in formule codificate, ma si riconnettono al fluire della prassi.
Questa concezione della vita associata trova consacrazione esplicita nell'art. 2 della Costituzione italiana. Questa norma, infatti, sancisce la stretta correlazione fra il godimento dei diritti, definiti inviolabili, e l'adempimento di doveri, qualificati inderogabili, di solidarietà politica, economica, sociale. Correlazione ribadita, tra l'altro, nell'art. 4, lì dove si coniuga il riconoscimento del "diritto al lavoro" con il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività che concorra al progresso materiale e spirituale della società.
L'art. 2, quindi, si pone come chiave di volta di tutto l'impianto normativo costituzionale, non solo nei confronti del cittadino ma soprattutto nei confronti dell'autorità, che diviene partecipe, per la prima volta nella storia del nostro Paese, di un progetto di ristrutturazione della società che faccia del rispetto della persona umana l'obiettivo costante del suo operare.
Non è difficile immaginare come una simile cornice di valori costituzionali non potesse non tradursi anche nel settore sempre più strategico dell'economia. Del resto, anche su questo fronte, è sempre la Costituzione a fornirci i criteri di guida e comprensione della nuova realtà.
E' l'art. 3 a riaffermare la pari dignità sociale di ogni persona umana, prefigurando una società in cui la struttura socio-istituzionale è contrassegnata da valori personalistici e non economicistici, dalla subordinazione delle logiche economiche ai fini sociali, di umanizzazione e di partecipazione effettiva dei lavoratori alla vita associata, all'organizzazione, al potere politico, economico e sociale, in tutte le sue forme. Tant'è che la Repubblica, ossia la comunità dei cittadini in tutte le sue espressioni, risulta impegnata a ristrutturare la società, in modo da eliminare proprio quegli ostacoli di ordine economico-sociale che impediscono di fatto il pieno svolgimento della personalità umana. In questa prospettiva, l'art. 3 Cost. riassume in termini dettagliati
il fine della trasformazione sociale contenuto nella proclamazione dell'art. 2, traducendone la portata innovativa sul fronte di tutti i rapporti sociali, giuridici, economici.
In questo riassunto si registra una coniugazione di valori e di prospettive presente anche in atti internazionali come la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo nonché in tutti quei documenti che racchiudono la riflessione sulla condizione contemporanea dell'uomo nella società.
Si pensi alla Dottrina sociale cristiana, a partire dal rifiuto del conflitto come condizione naturale della società, espresso dalla Rerum Novarum di Papa Leone XIII, fino all'idea della solidarietà come virtù dell'uomo contemporaneo, contenuta nella Sollicitudo rei socialis di Papa Giovanni Paolo II.
Ma non si dimentichi tutta la riflessione che si sviluppa a partire dagli anni Quaranta intorno alla traduzione della politica economica come strumento di realizzazione dei diritti dell'uomo nella sua dimensione sociale.
E' del 1942, ad esempio, il Rapporto Beveridge che, in Gran Bretagna, getta le basi ispiratrici del primo progetto di politica sociale.
E' del 1954 lo studio di Luigi Einaudi sul "Buon Governo" come capacità di attivazione di un circuito economico garantito nella sua equità dalle politiche redistributive dello Stato, in attuazione del disegno ispirato dalla Costituzione.
Né è casuale che la cosiddetta "Costituzione economica", soprattutto negli articoli 41 e 42, abbia saggiamente coniugato le ragioni del profitto con quelle di una "utilità sociale" che, andando ben al di là della individualistica utilità marginale di memoria liberista, trova nelle ragioni dell'eguaglianza, della tutela dei diritti, del rispetto della dignità di ogni singola persona umana, il suo motivo ispiratore.
Economia, riconoscimento e tutela dei diritti, adempimento dei doveri di solidarietà non sono dunque fra loro disgiunti.
L'attivazione del cosiddetto Stato sociale non dovrebbe prescindere dalla loro coniugazione, se non a costo di scadere, come purtroppo è avvenuto, nell'assistenzialismo piatto e cieco, nel clientelismo ereditato dalla fase storica dello Stato parlamentare italiano, formalmente ispirato all'individualismo liberale oligarchico, nell'inefficienza amministrativa a danno del cittadino.
Economia, diritti e solidarietà racchiudono allora l'aspirazione a un livello superiore dell'agire umano individuale e sociale.
In questo quadro, che la Costituzione con coerenza offre al cittadino come operatore economico e come soggetto politico, il mercato non si presenta semplicemente come luogo della produzione e dello scambio, ma come momento di sintesi e di realizzazione di diritti inviolabili e di doveri inderogabili di solidarietà, non semplice meccanismo astratto governato da "mani invisibili", e quindi inconsistenti, ma rapporto umano segnato dalla dignità dell'individuo e dal rispetto di diritti che vivono nelle situazioni esistenziali condizionate dagli "ostacoli" al pieno sviluppo della persona.
Del resto, non mi pare da sottovalutare che la versione più recente della posizione liberista, quella rappresentata dal modello dell'"economia dell'offerta", secondo cui l'unico modo di accelerare lo sviluppo consiste nel suscitare investimenti privati che espandano la capacità produttiva, cioè l'offerta, nonostante alcune sue recenti semplicizzazioni propagandistiche, sia stata più volte revisionata in funzione della sua conciliazione con una politica di giustizia distributiva e sociale. Penso alle elaborazioni americane più recenti, da John Rawls a Friedrich von Hayek a Robert Nozick.
Per concludere, direi che la nostra Costituzione, più che fornire definizioni astratte della società e dell'economia, indica i valori storicamente irrinunciabili perché la società e l'economia rappresentino concretamente i luoghi del pieno sviluppo della persona umana.
La stessa impostazione, aliena da qualsiasi pretesa definizionistica, si riscontra nella lettura delle norme dedicate al fenomeno della cooperazione.

2. Il contenuto costituzionale della cooperazione
In via preliminare, la Costituzione italiana, all'art. 45, riconosce l'istituto della cooperazione, senza però fornirne una definizione esplicita, come, d'altra parte, si verifica spesso nel testo costituzionale.
La norma così recita: "La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità".
Il legislatore costituzionale, quindi, sembra rintracciare un contorno definitorio che rinvia ad una disciplina del fenomeno già esistente, di cui, nel nuovo contesto costituzionale, si deve garantire la "funzione sociale".
Nel contempo, però, questo rinvio concettuale produce un'apertura nozionistica che non consente di distinguere in modo sufficientemente chiaro i tipi di attività cooperative che potrebbero farsi rientrare nella previsione della norma.
E' appena il caso di ricordare, infatti, che né il Codice Civile né le leggi speciali contengono una definizione della cooperazione. L'art. 2511 Cod. civ. contraddistingue la società cooperativa per il suo "scopo mutualistico" e non lucrativo, ossia, secondo quanto contenuto nella Relazione al Codice civile n. 1023, per lo scopo "prevalentemente mutualistico". La legislazione speciale, compresa la recente legge 31 gennaio 1992 n. 59, non aggiunge nulla alla definizione civilistica.
Questi testi si limitano a prevedere alcuni requisiti minimi essenziali relativi, oltre al presupposto della mutualità, alla disciplina interna delle cooperative. Allo stesso tempo, non offrono appigli concettuali inconfutabili in merito alla tradizionale distinzione fra cooperative a mutualità cosiddetta "pura" e quelle a mutualità cosiddetta "spuria", perché non caratterizzate dalla funzione economico-sociale tipica, cioè a causa "mista".
Del resto, l'Assemblea Costituente in sede di elaborazione e discussione dell'articolo, approvò senza difficoltà la prima parte del primo comma dell'art. 45, e si soffermò a lungo, invece, sulla seconda parte, relativa alla disciplina dei controlli sul carattere e sulle finalità delle varie cooperative.
Con questo operato, il legislatore costituente implicitamente demandava alla legge ordinaria il compito di provvedere, attraverso appunto lo strumento del controllo, ad assicurare la rispondenza del fenomeno cooperativo al paradigma generale della "funzione sociale" e dell'assenza dei fini di speculazione privata.
Tant'è che la Corte costituzionale, in due recenti sentenze, ha rimarcato l'ordito logico contenuto nel testo costituzionale, osservando, in primo luogo, che "la protezione costituzionale della cooperazione trova giustificazione nella più stretta inerenza che la "funzione sociale" presenta nell'organizzazione cooperativistica rispetto a quella che la detta funzione riveste nelle altre forme di organizzazione produttiva e, in particolare, nella congiunta realizzazione del decentramento democratico del potere di organizzazione e gestione della produzione e della maggiore diffusione e più equa distribuzione del risultato utile della produzione stessa" (Sent. n. 408 del 1989); e riconoscendo anche che "l'art. 45 Cost. tutela il fenomeno della cooperazione nella sua "funzione sociale" e, quindi, non con riferimento ai soci della cooperativa e ai rapporti della medesima con essi, ma in relazione ad un interesse che trascende la sfera dei singoli soci, ponendosi genericamente come un interesse di pubblica utilità" (Sent. n. 61 del 1981).
Pertanto, in questo quadro, la ricerca di una definizione costituzionale del fenomeno cooperativo apparirebbe del tutto infruttuosa.
Questa conclusione lascia irrisolto, a nostro avviso, il problema, assai dibattuto in dottrina, se la normativa dell'art. 45 comma 1° della Cost. contenga una nozione unitaria o pluralistica della cooperazione; in altri termini, se induca all'accettazione di un modello di cooperazione a forma tipica, oppure lasci spazio a forme "atipiche", insindacabili sul piano costituzionale. Per tentare di tracciare quanto meno il contorno costituzionale di valutazione della questione esposta, mi pare che uno spunto significativo di riflessione potrebbe desumersi dalla lettura degli articoli 2 e 18 della Costituzione.
L'art. 2 riconosce, come si è accennato, una dignità costituzionale piena alle "formazioni sociali" come luogo di esplicazione della personalità umana. L'art. 18 puntualizza il riconoscimento fondamentale delle formazioni sociali, eliminando, nei confronti dell'espressione storicamente più tipica di libertà ad esse riconducibile, cioè quella di associazione, qualsiasi vincolo nei fini da perseguire, salvo il limite della legge penale.
All'interno di questo quadro, anche il fenomeno cooperativo si impianta come enucleazione del riconoscimento delle formazioni sociali. Tuttavia, lo stesso fenomeno, nella sua globalità considerato, risulta acquisito ad oggetto di un'apposita disciplina costituzionale contenente, tra l'altro, una riserva di legge.
Inoltre, proprio il fenomeno cooperativo è contemplato all'interno della cosiddetta "Costituzione economica", ossia nel Titolo III della Parte Prima del testo costituzionale, coniugandosi, al pari delle altre attività economiche, con quella "funzione sociale" che l'interesse perseguito deve garantire.
In questa prospettiva, una semplice associazione senza alcun fine di lucro probabilmente non potrebbe ascriversi alla categoria richiamata dall'art. 45 Cost., a meno che non risulti finalizzata all'esercizio di un'attività economica. Non per questo, però, essa si troverebbe sguarnita di una qualsiasi copertura costituzionale, potendosi, il fenomeno associativo non economico, ricondursi alla sfera della generale libertà di associazione. Basti pensare, per verificare l'importanza di questo assunto, alla variegata tipologia delle associazioni di volontariato e delle cooperative di solidarietà, fenomeno inedito nel panorama delle formazioni sociali, ma sicuramente non estraneo ai princìpi e alle libertà contemplate dal testo costituzionale.
Un'ulteriore considerazione può essere fatta per ribadire che la terminologia adottata in Costituzione ha carattere tecnico-giuridico ben delimitato.
La stessa Costituzione si fa carico della promozione del coordinamento delle attività economiche private "a fini sociali" (come recita l'ultimo comma dell'art. 41, sancendo una riserva di legge che determini programmi e controlli volti a questo obiettivo).
Nel contempo, il testo dell'art. 46 individua un'apposita riserva di legge per la disciplina del diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende. Risulterebbe difficile non cogliere in questi richiami un implicito distinguo fra l'iniziativa economica privata che deve essere coordinata nelle sue singole espressioni, fino ad arrivare alla istituzionalizzazione della cogestione, e quella particolare attività che fa della mutualità la sua stessa ragion d'essere.

3. La "funzione sociale" della cooperazione
Alla luce di questa necessariamente sintetica prospettazione, è utile richiamare l'attenzione sui caratteri specifici del fenomeno cooperativo.
- La cooperazione come esercizio collettivo di impresa in forma mutualistica e, quindi, come affermazione della socializzazione della produzione e del potere imprenditoriale;
- il "carattere di mutualità", la cui essenza si è fatta anche consistere nel modo democratico di gestione dell'impresa;
- l'assenza di "fini di speculazione privata", che attiene all'ente cooperativo, che non può, quindi, agire soltanto nella motivazione dell'obiettivo di conseguire il profitto;
- la "funzione sociale della cooperazione".
Si tratta di caratteri inscindibili perché si abbia la cooperazione così come delineata nell'art. 45 della Costituzione.
Il richiamo alla funzione sociale, prescindendo dal complesso e articolato dibattito dottrinale, sembra voler offrire un riconoscimento a monte di un carattere strutturale della fattispecie giuridico-economica cooperativa, di per sé idoneo per il perseguimento delle finalità contenute in Costituzione. Questa conclusione è suggerita dal raffronto con i precetti contenuti negli altri articoli della "Costituzione economica". Per la Costituzione, infatti, l'iniziativa economica privata e la proprietà privata non solo non possono svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, ma soprattutto debbono essere indirizzate, con legge ordinaria, allo svolgimento di un ruolo di carattere sociale che altrimenti non risulterebbe necessariamente perseguito.
Per la cooperazione, invece, la Costituzione adopera una formula differente: "La Repubblica riconosce la funzione sociale". La "funzione sociale", in altri termini, non è obiettivo del legislatore, bensì una qualità intrinseca del fenomeno cooperativo stesso. In questo caso, pertanto, c'è una sorta di identificazione precostituita, perché fisiologica alla fattispecie giuridica richiamata, tra finalità prioritarie della Costituzione economica e caratteristiche strutturali del fenomeno cooperativo.
E' significativo osservare che negli stessi termini si esprimono altri testi costituzionali più recenti di quello italiano. In particolare, si può ricordare la Costituzione portoghese, la quale, all'art. 61, riconosce a tutti, tra i diritti economici, "il diritto alla libera costituzione di cooperative, purché siano osservati i princìpi cooperativi", ed individua, come profilo organizzatorio dell'economia, all'art. 82, quello del "settore cooperativo e sociale" sempre in "conformità dei principi della cooperazione", attribuendo allo Stato il compito di stimolare e sostenere la creazione e le attività delle cooperative, in conformità all'art. 86. In questa prospettiva, si comprende perché il legislatore costituente si sia astenuto da qualsiasi definizione giuridica della cooperazione: elemento determinante, nella prospettiva costituzionale, è la constatazione dell'esistenza di una "funzione" (quella sociale dell'attività cooperativa) comune alle finalità della Costituzione stessa.
Si comprende, a questo punto, come la stessa riserva di legge, pur espressa dall'art. 45 Cost., non rivesta lo stesso significato tipico delle altre norme costituzionali. La "funzione sociale", infatti, non dovrà essere definita di volta in volta da singole leggi ordinarie.
Questa puntualizzazione è importante per affrontare il problema dell'avvicinamento delle legislazioni dei Paesi dell'Unione Europea per la formazione di un diritto cooperativo comunitario.
Com'è noto, la tematica investe, a livello comunitario, una serie di obiettivi che, soprattutto con il Trattato di Maastricht, dovrebbero rappresentare la premessa dell'attivazione dell'Unione Europea. Basti pensare alla questione della partecipazione dei lavoratori alle scelte dell'impresa, oggetto di numerosi interventi comunitari e contenuto delle proclamazioni di principio del Protocollo aggiuntivo del Trattato di Maastricht sulla politica sociale.
La transnazionalizzazione dei rapporti economici e di impresa non può non richiedere una riconsiderazione delle prospettive di partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale, soprattutto allo scopo di favorire, tra l'altro, proprio quella "funzione sociale" che l'attività economica privata non può trascurare tra i suoi obiettivi. Appare chiaro che lì dove la "funzione sociale" si presenta come caratteristica intrinseca dell'attività economica stessa, come appunto si verifica con le cooperative, il processo di armonizzazione comunitaria dovrebbe risultare facilitato.
Non a caso, erano queste le premesse di una quantità di iniziative maturate a livello europeo: dal "progetto di legge per una società cooperativa europea" del 1989, ad una serie di risoluzioni del Parlamento Europeo sul sostegno del movimento cooperativo a livello comunitario.
Tuttavia, bisogna osservare che tali iniziative non sono ancora sfociate in provvedimenti concreti di disciplina comunitaria. E' però emblematico che alcuni indirizzi contenuti nelle risoluzioni del Parlamento Europeo abbiano poi costituito oggetto del progetto di Statuto della Società Europea, presentato nel 1989, che contiene, tra l'altro, un ampio riconoscimento della partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale; a testimonianza, pertanto, della indissolubile connessione fra "funzione sociale" della cooperazione e "funzione sociale" dell'attività economica privata gestita in collaborazione con i lavoratori.
A questo punto del discorso, non mi pare superfluo osservare che la prospettiva della rilevazione della "funzione sociale" della cooperazione richiami l'attenzione dell'interprete verso una dimensione di valore imprescindibile per cogliere anche la portata delle spinte provenienti dal processo di unificazione europea.
A conclusione di queste considerazioni generali di descrizione della cornice costituzionale del fenomeno cooperativo e dell'economia sociale, non si può non ricordare che approfondite riflessioni meriterebbero non solo l'ultimo comma dell'art. 45, per il quale "La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato", significativamente inserito nella stessa norma che ribadisce la strutturale "funzione sociale" della partecipazione del lavoro all'impresa, ma anche l'esperienza, inedita ma fortemente significativa, della cooperazione "sociale" e di "solidarietà", che investe, tra l'altro, un problema di riconsiderazione delle competenze regionali in materia di assistenza.
In ogni caso, l'indagine costituzionale sul fenomeno cooperativo consente di constatare ancora una volta come la "Costituzione economica" non sia estranea al complessivo progetto di società e Stato racchiuso nei princìpi fondamentali della nostra Costituzione. Progetto in cui la dignità della persona umana, e non dell'individuo in sé e per sé considerato, si pone come valore universale, come perno di tutte le opzioni di regolamentazione dei rapporti sociali, politici ed economici.


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