§ MEMORIE DEL SECOLO

IL C'ERA UNA VOLTA... DELLA CONFINDUSTRIA




Gennaro Pistolese



La Confindustria - con essa ho diviso quarant'anni della mia vita di lavoro: fino al 1977 - ha tanti e pur contrastanti volti. Ogni nuova presidenza ne ha annunciato uno, sempre naturalmente ricco di promesse e di rinnovamenti, con preventivi sempre più entusiasmanti dei consuntivi. Con qualche rara eccezione, che però anch'essa c'è stata.
I volti anche in questo caso sono ovviamente due. E cioè quello che la Confindustria si attribuisce e l'altro che le viene attribuito. C'è sempre un contesto di mezzo, che siamo usi chiamare società, sistema, cultura, filosofia.
Il discorso a questo punto minaccia però di non doversi interrompere mai, fra l'altro anche per la vana ricerca di pur tanto essenziali testimonianze, che archivi, computers, bibliografie, raccolte di giornali e riviste pur emblematici molto approssimativamente riescono a vitalizzare.
Il volto, chiamiamolo esteriore, della Confindustria per me ha a che fare anche con tre palazzi, sette presidenti, alcuni esponenti della burocrazia di vertice della quale mi è occorso di far parte, un'identità di ideale e operativa rappresentanza dell'impresa, uno stile della casa, voluto ed inteso da una élite che allora c'era fermamente e rigorosamente. E soprattutto sapeva rendersi capillare.
I tre palazzi sono quelli di Piazza Venezia, il Grazioli di via del Plebiscito, quello dell'Eur, costruito ex novo e surrogatorio di altre soluzioni architettoniche che ebbero solo qualche gemito.
Il palazzo delle Assicurazioni in Piazza Venezia è stato per oltre un cinquantennio la sede della Confindustria, con il trapianto, in esso, di Gino Olivetti, Stefano Benni e poi di Volpi Di Misurata, Alberto Pirelli, Giovanni Balella, e a distanza anche se ravvicinata Donegani, Valletta, Falk, Marzotto, la Edison con i suoi due ingegneri di cui uno, Valerio, assorto e riservato alla Cuccia di oggi e l'altro, De Biase, comunicativo. E poi c'erano i grandi veterani come Ginori Conti, già isolato per l'età nei ricordi gloriosi, o come Giovanni Agnelli, con la sua grande storia, che in quegli anni lo vedeva sulle stesse piste di Lancia, Romeo, ecc.
Tutti grandi nomi, che con altri hanno fatto la storia della Confindustria, naturalmente senza dimenticare un Adriano Olivetti, o i primi veri boiardi delle aziende IRI, aderenti alla Confindustria fino al sopravvenire del ministero delle Partecipazioni Statali.
Questo palazzo, che allora era nel vero cuore di Roma, che aveva già avuto a che fare con un dirimpettaio Palazzo Venezia, che dopo doveva divenire anche sede di un "balcone" che un regime avrebbe tradotto in pulpito politico, era diviso dalla Confindustria con gli uffici delle Assicurazioni e con l'Associazione fra le società per azioni, con la quale le stesse imprese si identificavano per le loro adempienze fiscali.
Ho conosciuto per le mie funzioni tre livelli di piani: quello sotto i merli, quello al primo piano, quello solo provvisoriamente sperimentale al piano rialzato, che definii con un certo successo terminologico del "batiscafo".
Un batiscafo a Piazza Venezia: una piazza che ne ha viste tante: con un monumento a Vittorio Emanuele II, con un'architettura da organo, con un Altare della Patria che consacra la nostra storia, con una complessiva realizzazione costruttiva che ha a che fare con il nonno di mia moglie, con un rifugio antiaereo che ci ha fatto correre tutti nel bombardamento di Roma del 19 luglio del '43, con i tanti rituali fascisti che ci vengono presentati oggi con le fotografie sempre e comunque inaccettabili perché mutevoli nella conferma o nella smentita, con il suo trasformismo da parcheggio diffuso in suggestiva zona di verde e di fiori, con i grandiosi spiragli verso il Colosseo da un lato, verso il Campidoglio dall'altro, con l'imbocco invero più o meno angusto verso il Corso: ora inopinatamente chiamato Via del Corso. Sì, via e pure corso: contemporaneamente. Troppa abbondanza per il popolo romano, che una volta ha avuto anche un giornale con questo titolo e molto prima di tangentopoli e prima della "marcia su Roma" ha avuto anche un sindaco al quale aveva attribuito come complemento del nome quello di Pippo pappa (In altra occasione un solerte correttore di bozze aveva modificato il titolo in Pippo Paga: aveva avuto fiducia nel celere corso della giustizia!).
L'interno di questo palazzo era ammobiliato in funzione delle destinazioni dei singoli piani. Ad un certo punto vi ha fatto ingresso anche l'arredamento di stile littorio, che prima era estraneo e poi è stato estromesso. Così al primo piano è subentrato un arredamento più o meno apparentato con quello dei clubs aristocratici inglesi. Per il resto, è intervenuto il solito e graduato ammobiliamento di ufficio, con targhette personalizzate sugli usci, talvolta pure enfatizzate da titoli, come accade spesso nelle lapidi. Così che a livelli modesti qualche signore è divenuto dottore e qualche geometra ingegnere. Malignamente perciò qualcuno si è domandato da quando in qua la Confindustria rilasciasse lauree.
Ma la Confindustria del ventennio aveva anche una sua dependance a Palazzo Grazioli, dove aveva allogato il proprio dopolavoro. In essa dovette trasferirsi la Confindustria allorché il palazzo di Piazza Venezia venne occupato il 4 giugno del 1944 dalle truppe alleate, per insediarvi il governo civile di Roma del colonnello Poletti.
Durante l'occupazione tedesca chi manteneva la rappresentanza a Roma di una Confindustria obbligatoriamente trasferita a Roma (e quanti di noi non vollero farlo furono denunciati alla polizia, che alla fine in alcuni suoi strati capì che era meglio lasciarci perdere e così si fermarono alla lettera, perché fino ad allora avevano rinvenuto solo malati intrasportabili o assenti da tempo) si compiaceva anche con me del fatto che nella sala accanto si svolgeva una riunione del comitato nazionale di liberazione: con la presenza fra gli altri di un suo conterraneo che era stato in guerra - la prima mondiale - suo commilitone. Era Emilio Lussu e veniva a sapere anche cosa potesse essere la Confindustria. Una Confindustria con la filia del carabiniere, come mi è sempre piaciuto definirla, e filia significava ordine, stabilità, saldezza del contesto, sua immunità da ogni squilibrio dalla democrazia, coniugazione fra liberismo reale e socialità reale, con tanto di regole per quanto veramente serve.
L'Italia invece non ha né l'uno né l'altra. Di regole se ne sono contate 150 mila circa, ma qualcuno si è fermato certamente prima di completare l'elenco. Gli altri Paesi si contentano di qualche migliaio di regole, esaurendo gli impegni applicativi in pochi giorni e diciamo pure in qualche decade. Da noi un procedimento relativo al lavoro è stato rinviato al gennaio del'99: con la vita dì un lavoratore dì mezzo. Non si tratta dei palazzi di cui stiamo parlando, ma del Palazzo con la p maiuscola, in voga da quando Pasolini l'ha inventato. E pensare che non mi è mai piaciuto che questo Palazzo esistesse.
La Confindustria si è così ricostituita a Palazzo Grazioli. In questa ricostruzione i romani ed i meridionali liberati hanno dovuto fare da soli. L'industria romana ha dato quello che aveva, fra l'altro un presidente molto provvisorio, con una burocrazia che aveva raccolto taluni superstiti, taluni dei quali veramente essenziali perché superlativamente qualificati. Fra questi ve n'era uno, sardo, che almeno da un quarto di secolo - ed è per lui che questi miei tentativi di medaglioni si illudono di fornire la sensazione di un'introspezione profondamente e quanto mai sentita e reale - aveva confuso la sua vita con quella della Confindustria. Non credo che ve ne siano stati altri, anche ai vertici molto superiori al suo. Ce ne sono stati altri, in gran parte solo imitatori non di rango, ma ipocritamente imitatori. Orbene, questo sardo è stato un tessitore della Confindustria, e con pochi altri ha atteso che anche a Palazzo Grazioli giungesse il vento del Nord: in poche stanze, ancora damascate alle pareti, talune di rappresentanza dei Grazioli: dei fondatori della famiglia e poi dei non sempre felici superstiti.

Molti palazzi e non ancora "il Palazzo"
Ed in questo Palazzo cominciava ad esserci di tutto. C'è rientrata la Confindustria. Ci si è installato l'Artigianato, che dal ceppo di quello facente parte della Confindustria ne aveva raccolto una parte, perché l'altra era confluita in un'organizzazione parademocristiana ed un'altra ancora in una struttura socialcomunista, come si usava allora.
Ed al piano terra c'era pure un'organizzazione, l'Onarmo, che distribuiva minestre ai bisognosi ed un cortile che raccoglieva i giornalisti alla ricerca di notizie confindustriali, tante per un momento sindacale di fondazione: scala mobile, dibattito sui consigli di gestione, partenza dall'unità dei lavoratori e successiva multipla articolazione, ecc. C'erano pure giornalisti poi divenuti famosi, taluni principianti, ai quali era stato messo in mano un taccuino o un microfono generalmente disertato dalla timidezza di intervistandi, renitenti ed oggi invece tanto numerosi e pressanti. C'erano giornalisti che dovevano essere presenti per forza, perché il farsi vedere pubblicizzava le testate, e particolarmente le agenzie nascenti o decotte, e così via.
L'informazione economica nasceva così. Ne parliamo oggi, cinquant'anni dopo.
E' un giornalismo che ha avuto grossissimi antenati. Fra gli altri, editorialisti come Einaudi; editori come il Bersellini de Il Sole, che quest'anno ha celebrato i suoi 130 anni (io come direttore ne ho celebrato il centenario); fondatori di altri quotidiani, come Colombi di 24 Ore, Barzini jr. de Il Globo; di agenzie, dalla prima Stefani e poi ANSA, o della "Volta", o dell'Agenzia Economica e Finanziaria di Zambelli.
E' un giornalismo che ha creato i primi, i tanti giornalisti economici di ieri e di oggi, di quelli che redigevano una sola pagina economica perché non ce n'erano altre e la pubblicità era ai primi vagiti, di quelli che hanno creato il primo Centro di Documentazione, e così via. Si sono addirittura formati tanti manipoli e qualcuno di essi si è cimentato nella prima telematica finanziaria oltre trentacinque anni fa, ed in questo caso il richiamo di chi scrive potrebbe significare rozza immodestia.
Allorché il palazzo di Piazza Venezia è divenuto nuovamente disponibile, la Confindustria vi è ritornata, riattribuendo al palazzo Grazioli una funzione sussidiaria che le è sempre servita, e nella quale anche a me è occorso di ritornare per alcuni compiti che mi erano stati assegnati. I miei primi incarichi di direttore del settimanale della rinnovata Confindustria (si tratta de L'Organizzazione Industriale) li ho potuti esplicare disponendo di un davanzale di una finestra sul quale poggiavo le carte necessarie al mio lavoro. Un davanzale allora sostituiva una poltrona. Anni luce da quello che oggi rappresenta una poltrona!
E questa Piazza Venezia confindustriale è andata avanti così fino agli anni '70, allorché era cominciata la costruzione e stava per finire quella dell'EUR, essendosi rinunciato ad una costruzione in Piazza Verdi, il cui principale difetto sembra sia stato quello di non disporre di un adeguato parcheggio. Quella era un'altra piazza: appetita quanto? rimpianta? evitata per il fascino dell'EUR e delle intenzioni che questo EUR ha sempre manifestato anche con ispirazioni irrealizzate ed irrealizzabili?
E' una storia della quale è stato curioso con me Guido Carli, sopravvenuto presidente dopo che tanti anni prima era stato anche funzionario di questa Confindustria e pochi così lo ricordavano, perché quasi tutti non lo sapevano.
Per quanto poi riguarda il padre, l'ho conosciuto alla Confcommercio, di cui era consulente, già socialista ed accolto in essa da un suo dirigente anch'egli socialista ma poi divenuto fascista: Racheli. Io collaboravo ad un'autorevole rivista di questa organizzazione che lui curava, insieme ad un bravissimo giovane che poco dopo doveva divenire vice segretario generale del partito fascista, con compiti economici, allora definiti corporativi. E quest'ultimo ricordo con amicizia, perché prima di stima.
Palazzi, dunque, ambiti e perseguiti anche da altre grandi organizzazioni di categoria. La Confagricoltura, ad esempio, aveva acquistato da casa Savoia il grande palazzo di via Veneto, dove risiedeva da vedova la regina Margherita. L'aveva costruito l'architetto Kok, al quale si deve anche la sede della Banca d'Italia di via Nazionale. Il regime fascista ne aveva realizzato l'acquisto, favorendone il venditore e stabilendo il compratore. Nel '44 gli Stati Uniti, dopo che le organizzazioni fasciste erano state disciolte, sono subentrati nella proprietà e gli agricoltori si sono trasferiti in un altro palazzo, certo più modesto, ma sempre rappresentativo, in Corso Vittorio Emanuele.
La Confcommercio invece continua a possedere un palazzo in Trastevere. Il credito si divide fra palazzo Altieri e palazzo Doria.
Anche le Organizzazioni dei lavoratori hanno avuto la loro parte in palazzi. La CGIL è in Corso d'Italia, avendo ereditato la sede della Confederazione dei lavoratori dell'Industria. La CISL è alle spalle di Corso d'Italia con un'altro palazzo di costruzione però post-fascista. La UIL è in via Lucullo, in un palazzo che era stato dei lavoratori del Commercio, e nel quale anch'io ho lavorato nella seconda metà degli anni Trenta, come capo dell'ufficio corporativo.
Era stato pagato quattro milioni ed era frutto della parsimonia esemplare del suo presidente, Riccardo Del Giudice, dal quale tanto ho imparato e che tanto anima il mio ricordo: "un medaglione", il suo, da altri scritto, ma che a me piace soprattutto pensare. Ho ricordato la parsimonia, ma questa era anche di chi alla base e al vertice la considerava e praticava come valore da osservare. Almeno questo spaccato di storia può significare qualcosa. Per me, tanto.
In sostanza, questa storia di palazzi che è stata ed è riassorbita nell'ombra merita a mio giudizio di essere ogni tanto vivificata, perché da essi, dalle persone che vi hanno lavorato, scaturiscono le grandi vicende economiche e sociali del Paese, che hanno anch'esse una loro topografia di spazi contigui e partecipi di sedi istituzionali.

Presidenti della Confindustria
Ed eccomi con i sette big della Confindustria, fino a quasi tutti gli anni Settanta, avendo alle spalle gli inizi degli anni Trenta, allorché ho avuto la ventura di entrare in questa orbita e nella quale, pur avendo avuto io molto a che fare, il computer diciamo storiografico della Confindustria è molto avaro nei miei riguardi, perché di me riferisce soltanto che sono stato direttore della Gazzetta per i Lavoratori dal 1946 in poi, essendo stata voluta con questa denominazione - notate il "per" - da Angelo Costa. Si tratta di un periodico che ha la sua storia, rispecchia un tipo di relazioni industriali e quindi di cultura sfuggito all'attenzione della saggistica, ma che ha avuto qualcosa da dire e l'ha detta anche per le elezioni del '48, ha avuto contenuti anticipatori, oggi per lo meno da riesaminare. Una volta c'erano le collezioni della Domenica del Corriere, de L'Illustrazione Italiana, ecc. ecc. Oggi non credo sia reperibile una copia del settimanale che vengo ricordando.
Il primo "big" che mi riappare nell'immaginario medaglione che cerco di disegnare è Gino Olivetti, che nell'immediato dopoguerra, sul finire degli anni '10, ha cominciato da Torino a pensare e a realizzare la sua Confindustria, poi trasferitasi a Roma.
Ho conosciuto Olivetti quando l'assetto corporativo intervenuto nel 1934 (e penso che il ridimensionamento appunto di lui e di Rossoni, capo dei lavoratori, sia stato tra i motivi della ristrutturazione delle varie organizzazioni di categoria) l'aveva allontanato dalla dirigenza confindustriale, l'aveva trasferito al settore tessile come presidente dell'Istituto Cotoniero Italiano e vicepresidente della Corporazione Tessile: il presidente delle singole corporazioni, se non erro, era Mussolini.
Si sapeva che Mussolini non nutriva particolari simpatie per Olivetti. Lo definiva, si diceva, "melanconico signore", e ciò perché Olivetti indossava, con la frequenza allora solo dei ministri, il tight, con volto e pettinatura da fine Ottocento, e rappresentava il capitale: quello delle poche grandi famiglie, dure come si sa a morire, chiaramente per la loro fortuna che in certi momenti e in certi casi - bisogna riconoscere o meglio non escludere anche questo - si è coniugata con quella dello sviluppo, oltre che dell'occupazione.
In verità, la storia alla fine ammette ed esclude, rientrando così in quegli esami che non finiscono mai. Se difatti per la politica si dice che il mai non esiste, per la storia (e poniamoci anche la scienza) il mai non è neppure immaginabile.
Di Olivetti ricordo il paziente e costante approfondimento di tutto quanto fosse necessario per decidere, cioè per operare. Era a livelli non distanti da quelli di Einaudi, con il suo insegnamento di conoscere per decidere. Ebbene, Olivetti conosceva tutto quanto motivava, avrebbe motivato, la sua azione.
Ed ecco un caso che mi riguarda. Nel 1937 era di moda il tessuto autarchico, ma più generalmente si era immaginato e voluto che l'economia italiana dovesse fare tutto da sé: le sanzioni erano alle spalle, ma la nazione armata era anche anteposta ai cosiddetti imperativi, condizionandoli ed indirizzandoli come dolorosamente sappiamo.
C'era perciò il "lanital", un tessuto ricavato dal latte con questo nome e portato sul mercato dalla Snia Viscosa di Marinotti; c'era la canapa, che diceva la sua; c'era la seta, con gli avanti quasi indietro, ma con un proprio ente; e così via. C'erano però questi tessuti o presunti tali, nuovi arrivati, che si sfilacciavano e che erano invendibili. Se ne preoccupavano forse più dei produttori gli agenti di commercio che li dovevano vendere. Uno di questi mostrò a me, che allora ero alla Confederazione dei lavoratori del Commercio, uno di questi tessuti che essendo stato lavato presentava buchi da tutte le parti e mi disse che per ovviare alla circolazione di questo tipo di manufatti si doveva porre sempre sulla cimosa di ogni tessuto una indicazione della sua composizione. Allora non si parlava di questo tipo di marchio: oggi quell'agente di commercio è un milite ignoto da onorare.
La prima occasione per inserire tale argomento nel dibattito e nelle soluzioni possibili mi fu offerta da un convegno del tessile autarchico che ebbe luogo a Forlì. La relazione passò ovviamente agli atti e non rientrò nel novero di quelle direttive che, ad esempio, in agricoltura suggerivano in talune zone di produrre solo mele da mezzo chilo.
Un'occasione più ufficiale mi parve successivamente quella di una riunione della Corporazione tessile presieduta da Olivetti, dove ero presente e riproposi la suddetta soluzione. Olivetti, gelido, mi interruppe domandandomi se pensavo che la mia relazione a Forlì dovesse essere discussa in quella seduta. Continuava cioè la latitanza rispetto ad un problema che Olivetti conosceva anche nel modesto dettaglio da me fornito, ma che si voleva disattualizzare. Ma da allora le targhette auspicate ci accompagnano dovunque con una molteplicità strettamente tecnologica di indicazioni.
Come è dunque profondo anche questo mare e come è travagliata la navigazione: il passo della produzione e quello del mercato; la sintonia dei vari soggetti: imprenditore, lavoratore, consumatore. Ne discendono interrogativi, risposte, applicazioni, verifiche, aggiustamenti, tutti collocati su di una scala mobile, perennemente mobile.

Volpi Di Misurata e Giovanni Balella
E veniamo al binomio Volpi Di Misurata-Balella. Ho sempre pensato che l'anello di congiunzione fra i due fosse G.B. Codina, il fuoriclasse sardo di cui prima vi ho detto.
Di Volpi a Codina piaceva soprattutto la capacità di esercizio del rango che lui stesso si attribuiva, ma che anche gli altri non mancavano di attribuirgli.
Era chiamato il Doge di Venezia. Era stato negoziatore abilissimo ad Ouchy, Governatore della Tripolitania (1921) con Misurata da lui riconquistata, grande finanziere a livello internazionale, ministro delle finanze fra il 1925 e il 1928, non industriale ma industrialissimo, promotore per Venezia tra l'altro anche con il Festival del Cinema (alla cui inaugurazione presenziava con sahariana bianca e monocolo pendente) e così via.
Se percorreva Rue de la Paix a Parigi, frequenti erano le persone che lo salutavano togliendosi il cappello. Me lo diceva Codina che l'accompagnava ed appunto per Codina andava compreso anche il saluto che veniva rivolto al Presidente della Confindustria.
La Confindustria ha avuto, dunque, anche presidenti "made in Italy". E di questi cappelli può essere ricordato anche quello di Henry Ford che, come dicono le insegne pubblicitarie di oggi, al passar di un'Alfa Romeo se lo toglieva.
Volpi Di Misurata mi è piaciuto di meno, quando "al cambio della guardia" del presidente della Federazione Artigiani facente parte della Confindustria, avvenuto a Palazzo Venezia alla presenza di Mussolini, giunse in ritardo e trafelato, e alla domanda di Mussolini se avesse nulla da dire in termini di presentazione balbettò un no impercettibile, intimidito, e dimentico del fatto che era l'industria italiana che doveva dire la sua, sia pure nello stile e nei tanti limiti ufficiali di allora.
Ma quel cambio della guardia non l'ho dimenticato per le cose che ho scritto in altra occasione, anche in questa sede.
E vengo al secondo soggetto del duo, e cioè a Giovanni Balella, che fra l'altro con Volpi è stato capo dell'Esecutivo e poi agli inizi solo del '43, conclusivo del regime, ne è divenuto successore come presidente.
Durante la mia permanenza alla Confindustria, quale capo dell'Ufficio stampa e studi dell'Artigianato (aprile '38-settembre '43), ho visto Balella una sola volta, durante un colloquio che per me fu chiarificatore: mi presentavo a lui nella mia nuova veste, facendogli presente che avevo rinunciato -lasciando i lavoratori del commercio - alla funzione di membro della Corporazione del Legno, ma lui sapeva e me lo disse che l'Artigianato mi aveva designato a membro della Corporazione Carta e Stampa quale rappresentante dei fotografi (!) - per inciso dirò che queste Corporazioni, successivamente alla mia nomina, non si sono riunite mai, perché passate di moda (il sistema oltre tutto era anche volubile nelle scelte istituzionali, che dovevano sempre essere presiedute da Mussolini, a denominazione e composizioni però variabili: la rivoluzione continua ne aveva la specializzazione). Ma il colloquio fu anche chiarificatore perché mi fece capire che il mio proposito di dar vita ad una serie di libri dedicati ai "Commentari dell'industria", concordata con il mio editore Berlutti, non avrebbe potuto incontrare consensi confindustriali perché la stessa Confindustria preferiva produrre in casa quanto necessario: il che di fatto significava che non sarebbe stato prodotto nulla, perché così si usava allora, ed anche la Fiat, ad esempio, faceva la stessa cosa, con un ufficio stampa preoccupato solo di qualche comunicato ufficiale, e per il resto di evitare che la stampa si occupasse di questa tematica per conto suo. Per il resto c'era il cerimoniale da rispettare, e cioè che i rapporti personali sarebbero stati fuori posto.
E queste erano cose facili da capirsi, salve le conseguenze che ciascuno poteva trarne.
E poi c'è un Balella n. 2 ed un Balella n. 3.
Il n. 2 è un Balella che viene nominato presidente della Confindustria a sostituzione di Volpi Di Misurata che non ne sapeva niente, e che anzi frequentemente, da presidente, veniva accompagnato a casa in via XX Settembre, un palazzo poi acquistato dal nostro Istituto di Previdenza, proprio da Balella, suo segretario generale.
Balella, presidente della penultima ora del regime (volutamente inconsapevole del suo imminente domani) della Confindustria; Balella, estremamente capace e conoscitore operativo della Confindustria; Balella, ravennate e quindi usufruttuario naturale di tutti i benefici di quella che oggi si chiama bologneseria; Balella, che disponeva per le varie riunioni presiedute da Mussolini di formidabili dossiers, non come si usa adesso sulle persone, ma sui dati, e perciò impressionava Mussolini se sapeva dirgli il prezzo del pane a Taranto, mentre non altrettanto aveva saputo fare il Prefetto della provincia; Balella, che era divenuto una fonte come oggi sarebbe la Banca d'Italia; Balella, molto vicino e compartecipe della cultura di tipo Bottai; Balella, che per tutto ciò e sua sfortuna, forse immediatamente gradita ma successivamente biasimata, è stato così l'ultimo tormentato presidente fascista della Confindustria.
Ed a lui, come so, in quest'ultima fase è successo molto e di tutto. Teniamone conto: è stato un personaggio che estemporaneo membro del Gran Consiglio che ha deciso la fine del regime fascista - lui ne era membro di diritto in quanto presidente della Confindustria - ha avuto importanza nella storia di quegli anni. Un'importanza comune, ad esempio, con Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni, che come lui votò la sfiducia a Mussolini, avendo seguito gli stessi suggerimenti di Bottai ed altri, ma con la differenza che si pentì durante la notte - una notte che sempre porta consiglio, ma non al Gran Consiglio - e Balella, anche e soprattutto consigliato da chi aveva capito, certamente più di lui gli aveva suggerito di darsi alla latitanza.
Era di scena un'altra volta il mio amico sardo, che gli aveva detto brutalmente, ma con tanto di etichetta formale, che occorreva squagliarsi. Ciò avveniva la notte del 25 luglio fra i due palazzi di Piazza Venezia: due palazzi che in quelle giornate dovevano sintonizzarsi così, con un Mussolini che pure con le sue delusioni ed illusioni ritornava per l'ultima volta a Villa Torlonia e con un Balella che diventava clandestino e poteva fare a meno di essere presente e vittima alla fucilazione di Verona.
Di Balella clandestino mi sono state dette tante cose, ma l'unica che ho potuto constatare subito dopo la liberazione di Roma è che egli era tornato alla sua bella abitazione di Villa Borghese e che avendo intravisto un volto sia pure genericamente individuato - il mio - si infrattò subito in Villa Borghese. Ognuno allora era sospettoso degli altri, cominciando dai più innocui perché li si cancellava subito.
Ma del Balella di quegli anni e di quelli immediatamente precedenti ricordo due altre cose: quella di un Balella docente di diritto del lavoro della Facoltà di Scienze politiche alla Sapienza di allora, che ebbe a che dire - ma allora questa era una perifrasi di dati di fatto - con un proprio assistente o studente: il fatto veniva maliziosamente ricordato ancora tre lustri dopo, e quella di un Balella estremamente scrupoloso di riti, allora fascisti, che alla Farnesina di oggi, allora sede del partito fascista e del sacrario dei martiri fascisti, a Scorza, da Mussolini risvegliato come segretario del partito, che gli diceva che desiderava parlargli rispose che prima si sarebbe recato con gli altri a rendere omaggio al sacrario. Un Balella, dunque, puntuale, come quello dei dossiers di cui prima ho detto.
Dunque, questi saluti fascisti ci sono stati da parte dei Presidenti e dei massimi esponenti della Confindustria. C'era stato quello di Giovanni Agnelli, con la divisa da senatore come ricorda l'Avvocato, con la divisa però che non era se non quella fascista. C'erano stati gli esponenti della Confindustria con moschetto alla mostra del ventennale dei fasci al Palazzo dell'Esposizione di via Nazionale. E così via.
Questa segnaletica non ha la staticità delle fotografie immaginata da taluni, ma va continuamente riletta ogni qualvolta viene riproposta. E perciò apre sempre un discorso che ancora una volta - come ho detto in altra occasione - ripropone il ricordo come dialogo.
Balella ha purtroppo concluso la sua vita in maniera difficile economicamente e spiritualmente, più che insicura, in un intimo contrasto. Una fine che mi sconcerta. Un suo amico, quello che lo accolse durante la clandestinità nella sua casa di via Serpieri a Roma, mi ha parlato delle difficoltà finanziarie sopravvenute, e mi ha raccontato che lui, che sapeva miscredente, oggi si direbbe agnostico, ha voluto che il suffragio funebre - non so come e dove - fosse sottolineato da una musica di Beethoven. Per lui, per chi, per gli altri, e quali? Non lo so.
Questi sono del resto solo appunti per un'improbabile bibliografia e per confronti di ricordi che gli anni trascorsi rendono impossibili almeno in questo nostro ambito.
Comunque, chi vorrà sapere di più dell'ABC di un Bottai ritornato in Italia da reduce della Legione Straniera dovrà guardare nelle carte e negli appunti di Balella, se ci sono; chi vorrà sapere perché un Del Giudice, mio amico, è stato durante l'ultimo fascismo nominato presidente dell'Enios, di pertinenza confindustriale, vorrà ricordare che lo stesso è stato l'ultimo sottosegretario di Bottai all'Educazione Nazionale, ecc. Ma queste concatenazioni non significano nulla, danno l'illusione a chi le fa che si è capito e si sa qualcosa di più. Quel qualcosa però che non è mai servito a nulla: figuriamoci poi nelle dispersioni e distruzioni perpetrate dal tempo, che non ci farà mai comprendere quando c'è stato l'inizio e perché non ci sarà la fine, dato che nel nostro debito c'è pure quello dell'eternità. E' questo è un altro interrogativo, quanto mai angosciante, che rivolgo al mio caro direttore Aldo Bello, costretto purtroppo a leggermi perché è mio direttore.

Mitico e di ferro, ma non me ne sono accorto
Con Angelo Costa, suo primo e vero successore alla presidenza della Confindustria, il mio tentativo di dialogo, di aspiranti medaglioni può essere, deve essere, più ampio, non foss'altro perché ci sono di mezzo gli anni che vanno dalla fine del 1945 agli inizi degli anni '70. Ed allora non dovevo solo stare a guardare, ma anche fare al meglio la mia parte. Allora ne avevo sempre paura, ora sono cosciente e lieto di aver attraversato un tunnel. La vecchiaia serve per lo meno a questo.
Angelo Costa: non l'ho mai considerato un mito, perché gli sono stato molto vicino. Ho letto però in questi giorni di un "mitico" presidente della Confindustria: si trattava e si tratta di lui. Ho letto ancora in questi giorni di un presidente di ferro della Confindustria, e si trattava e si tratta sempre di lui. Devo dire che non me ne sono accorto, anche se può farmi piacere (non so tuttavia perché) che venga adottata questa terminologia.
Angelo Costa, secondo me, è stato soltanto lui, senza aggettivi, che non ha mai cercato, perché forte della sua fede e dell'osservanza che gli imponeva.
E' stato eccezionalmente intelligente? Ma è la fede che gli imponeva le dovute riconoscenze. E' stato sempre vigile e pronto, pure culturalmente? Ma non ne ha mai disceso diritti e pretese. E' facile parlare dei defunti, perché fra l'altro non ci possono contraddire. Ma Costa ha avuto certamente e prima di ogni altra cosa la fede dalla sua parte. Forse il cardinale Siri, il suo arcivescovo, se fosse vivo, ci potrebbe dire quello che non sappiamo dire di lui.
Ebbene, con la sua fede e con le concatenazioni relative, e senza alcuna implicazione confessionale, perché sapeva che era anche laico, anzi esclusivamente laico nell'esercizio di alcune sue responsabilità, è stato presidente della Confindustria dal 1945 alla prima metà degli anni '50 e poi dal 1966 al 1970 circa. Probabilmente queste categorie non hanno trovato in altre pur emblematiche espressioni altra pari manifestazione. I cosiddetti saggi che periodicamente ricercano i possibili candidati a questa presidenza la penseranno come me, e purtroppo per loro non possono dirlo. D'altra parte, anche le vicissitudini di queste settimane non mi incoraggiano a pensare, anzi a constatare, diversamente. Le grandi famiglie hanno del resto da tempo fatto il loro tempo, anche se nei due ultimi decenni se ne è tentato il risorgere.
Angelo Costa, invece, pur avendo al suo fianco una grande, articolatissima famiglia, con i coesistenti tutti coabitanti, con vocazioni religiose sotto lo stesso tetto, non ha mai rappresentato una famiglia. E' stata la sua forza di presidente che non ha mai imposto consensi e partecipazioni, ma questi ha avuto come naturale frutto di un seme. Il seme però era il suo.
Su di lui si sono scritti libri, si sono raccolti documenti, lettere che quasi ossessivamente indirizzava a De Gasperi o ai ministri, o ancora ai sindacalisti e così via.
Franco Mattei, suo vice segretario generale per gli affari economici e poi senza Costa direttore generale della Confindustria, uomo anch'egli esemplare, di cui sono stato pure collaboratore, ha fatto una selezionata raccolta di documenti, e molti certamente continueranno a fare capo ad essa.
Ma di Angelo Costa, per me irripetibile Presidente della Confindustria, in questo medaglioncino solo sommariamente abbozzato, mi piace cominciare a ricordare solo poche cose.
Non solo pensava, anzi pensava molto, ma aveva sempre fretta di esprimersi, se poteva, di farsi valere: tanto lunghi periodi di presidenza e addirittura il suo mai dopo verificatosi reincarico lo confermano.
Era aperto ai suoi collaboratori, che avendoli trovati alla Confindustria diceva che erano migliori di quelli delle sue aziende: a me è occorso di imporre i miei comunicati stampa preventivamente disposti come scalette per le sue conferenze stampa e ci si adattava pure stupito.
Aveva stima della controparte, forse non di tutti i suoi esponenti, ma di Di Vittorio certamente sì. Gli piaceva l'unità sindacale e voleva un sindacato forte. Era portatore prima di convinzioni e poi di entusiasmi. Ha voluto la Gazzetta per i Lavoratori, di cui ho detto prima, e dopo anche un tascabile periodico dal titolo Cronache Parlamentari, che aveva lo scopo di aprire le orecchie di tutti rispetto al lavoro parlamentare. Ne ho avuto il compito redazionale e l'ho assolto con un collega, Vittorio Zincone.
Ma di Costa ricordo e sono stato partecipe anche della sua fase di reincarico, che certamente lo ha trovato meno attivo della precedente. Per lui forse fu un servizio più che obbligato. In talune riunioni cui partecipavo come soggetto attivo, in attesa o in vista di decisioni, sbadigliava, ed io dovevo in questi casi rilevare che chi sbadiglia non decide.
Una volta nel '68 - anch'io ho avuto il mio '68, ma stavo sempre al Palazzo delle Assicurazioni -mi occorse di dire che ormai nella scuola si era stabilito un vero rapporto sindacale: fra insegnanti e studenti. Costa domandò, a quel punto incuriosito su di un rapporto di lavoro del quale fino ad allora non gli era importato nulla, chi fosse il datore di lavoro. Io risposi semplicemente che erano gli studenti. Costa ricominciò a pensare. Io comincio solo adesso. Certamente è troppo tardi per entrambi. Fa piacere comunque ad essere almeno in due nel riconoscere di essere fuori tempo.
Purtroppo, e mi dispiace per gli altri, che ne sanno o non ne sanno più di me, Angelo Costa è stato ed è per me solo queste cose che di lui mi vengono in mente eppure mi accorgo che erano tante e migliori quelle da dover dire.
Non dimentico a me e ai miei lettori, se vi sono, che ci sono altri medaglioncini di presidenti della Confindustria, di cui dovrò dire nel futuro qualcosa.


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