§ IL CORSIVO

SUD DEI TARTARI




Aldo Bello



Chiamiamola pure cronaca di un miracolo: il miracolo della ricostruzione, del ritorno nelle democrazie occidentali, del boom economico, della conquista di un ruolo nella storia dell'Europa occidentale; ma soprattutto il miracolo di milioni di persone, ciascuna con la propria personalissima odissea, che riscoprirono il valore pieno della parola libertà. I vent'anni trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà dei Sessanta sono stati uno dei periodi più ricchi e avvincenti per scavare e scoprire, al di là dei fatti e dei protagonisti, il significato e i retroscena di quelli che furono per l'Italia i grandi passi verso il futuro: la scelta della Repubblica, l'affermazione del centro contro la sinistra, la costruzione di un'economia libera aperta ai mercati internazionali, la trasformazione della società, sono altrettanti capitoli che ancora oggi offrono agli storici spunti per una ricerca appassionata, anche perché spesso controversa.
Quelle vicende si possono ripercorrere in modo diverso. Cioè, viste dal basso. Non attraverso la storia dei potentati e nemmeno delle masse, delle diplomazie o dei ministeri; ma nell'orizzonte infinito e ricco di dettagli che si specchia negli occhi e nei sentimenti di ogni individuo: attraverso l'ondata ininterrotta dei ricordi che ricompongono l'esperienza e che restano incisi nel cuore, oltre che nella mente. Ciascuno di quei dettagli, in sé, non fa notizia. Tutti insieme fanno epoca. Vi è allora da chiedersi, proprio partendo dallo spaccato di umanità che apparve in quell'Italia del dopoguerra, se veramente i semi del crollo della cosiddetta Prima Repubblica siano stati gettati fin dal tempo della ricostruzione, e se l'esplosione del debito pubblico e la corruzione endemica degli anni Ottanta trovino le radici nel tipo di Stato emerso dalla prima grande forma di consociativismo, quella della Costituente.
La risposta non può essere vaga. In quel dopoguerra, il Paese visse probabilmente una delle più grandi rivoluzioni sociali della sua storia: abbandonò in buona parte la vita contadina che si portava dietro l'intero secolo precedente, cambiò radicalmente il modo di vivere della famiglia media. Nel breve spazio di un quindicennio, si passò dall'emergenza della fame (col viaggio di De Gasperi in America per chiedere pane in cambio della promessa di democrazia) all'abitudine ostentata del superfluo. Le prime avvisaglie della crisi si manifestarono all'inizio degli anni Sessanta, quando il più illuminato dei banchieri, Mattioli, citando Shakespeare, affermò: "I miracoli sono finiti".
Quegli anni hanno così una colpa imperdonabile: avevano creato l'illusione di una crescita infinita. L'Italia era in movimento, camminava con le sue gambe, accelerava, correva. Si provava una diffusa sensazione di vitalità, di prosperità, di fiducia. E' in fondo su quella sensazione che poggiò la nuova fase politica: l'apertura a sinistra, la crescita del ruolo dello Stato con la nazionalizzazione dell'energia elettrica e con l'istituzione delle Regioni, la ramificazione del potere di partiti, boiardi e sindacati. Alla radice c'era la convinzione che il problema di fondo fosse quello di distribuire le risorse e non, innanzitutto, quello di produrle e di razionalizzarle: eravamo entrati tra i Grandi, eravamo diventati un gigante economico; ma per i compromessi consensuali della politica eravamo rimasti nani sotto il profilo non solo istituzionale, ma anche finanziario. E' per questo che quegli anni possono far vibrare le corde della nostalgia, mentre in realtà restano la grande occasione perduta per rendere concreta e generale la modernizzazione del Paese. Il miracolo resta. Ma fu un miracolo incompiuto.
Il flash-back è un mosaico di lustrini rutilanti. Irruppero gli elettrodomestici, la Tv ci ipnotizzava, Lascia o raddoppia? era un evento liberatorio collettivo, Supercortemaggiore era la potente benzina italiana, il week end era consentito dalla Seicento comperata a rate; Trieste era tornata all'Italia, l'Ungheria metteva in crisi il Pci, Giovanni XXIII conquistava i popoli. Guai a non usare la brillantina Linetti, a non mangiare il formaggino Mio, a non bere cedrata Tassoni, acqua Idrolitina o bitter Campari, a non far uso di confetti Falqui, a non seguire i consigli dell'Olandesina o di Calimero così piccolo e nero. Si lavorava e si investiva. Si progrediva e si consumava. Ma c'era già chi seminava i germi di una corruzione che presto avrebbe dato i suoi frutti velenosi.
L'Italia riteneva d'aver vinto la miseria e assaporava il primo benessere sull'urlo di Volare. Miracolo economico, boom edilizio, trattorie fuori porta e a ridosso di libere scogliere non concedevano più spazio alla poesia. Qualcuno parlò di nuova Belle Epoque. Eravamo sommersi da slavine di cronaca nera, di scandali politici e mondani, di nuove mode, di nuove abitudini e modelli antropologici, di nuove canzoni, di nuovi flirt, di nuove prosperose ragazze usa-e-getta, di nuove automobili da parcheggiare di fronte ai nuovi caffè, quelli della dolce vita metropolitana e paesana. C'era frenesia di bruciare i tempi, di vivere, di mostrarsi, di non perdere un colpo. Di "esserci".
Dopo aver subìto tutto, accusato molto, sofferto troppo, il Paese ora "tirava". La lira si rapportava al dollaro e prendeva l'Oscar. Le industrie esportavano, conquistavano mercati, vendevano frigoriferi anche agli esquimesi. Gli attori americani bivaccavano negli alberghi di Via Veneto, scoppiava il turismo di massa, le vacanze diventavano universali, con l'estate sopraggiungevano milioni di stranieri, trionfavano le pensioni romagnole con pasticcio di lasagne, tortellini, una mela, birra a botti e una sdraio al sole sulle spiagge parcellizzate, i grandi alberghi erano affollati da vitelloni romani e da commendatori meneghini, gli uni e gli altri ben nutriti, cafoni e cordialmente ignoranti, la Versilia era solcata da spider a passo duomo cariche di giovani leoni che volevano godersi un'adorabile, spensierata, diuturna stagione di amori, di sbronze, di spassi da candid camera, grazie ai padri benestanti, alle madri piuttosto distratte, alle ragazze non difficili, e ai "pagherò", firmati a tutto spiano. Una stagione fatta di tutto, perché tutto era a portata di mano, tutto aveva un prezzo, tutto si otteneva in scioltezza. Il benessere metteva in fuga le ombre della tristezza, delle disgrazie storiche di un Paese antico al quale nessuno aveva mai provveduto, il Paese dell'indignazione dello spazio d'un mattino, dei messaggi di cordoglio di circostanza, dell'inefficienza pubblica assurta a sistema e dei fondi neri destinati agli amici degli amici. Ma anche il Paese nel quale la faccia della povertà, almeno sotto il profilo statistico, diventava giorno dopo giorno una memoria del passato. Erano cambiati gli occhi della gente. Si guardava più lontano. Si viaggiava alla scoperta di nuove terre e di altri popoli, si studiava l'inglese, i gusti si aggiornavano, si trasformava il paesaggio sociale. Ma anche quello ambientale. I palazzinari distruggevano allegramente panorami unici al mondo, la collina che era stata campo-profughi si trasformava nei Parioli dei neo-ricchi, il cancro edilizio cominciava a corrodere coste e alpeggi, commercianti evasori totali, bottegai collegati, impiegati nei pubblici uffici con redditi aggiuntivi da mance, mazzette e altri concreti segni di riconoscenza, esibivano seconde case e parties a base di whisky e Cuba Libre. Mentre i treni caricavano interi paesi meridionali e li trasferivano, col prete e tutto, nei non-luoghi di Torino, di Milano, di Roma, delle periferie svizzere, tedesco-occidentali, francesi, belghe, dove c'erano non-case e non-piazze che formavano gli slums del Grande Sporco Mediterraneo.
La vita sgusciava tra le mani, la giovinezza se ne andava. Succedevano tante cose, il magnifico tumulto degli anni Sessanta era scandito dalla colonna sonora di Carosello e dal rombo della Vespa, dalla maschera di Totò, dalla prima radio a transistors, dalla biro Bic a cinquanta lire, dalle schedine della Sisal, dagli ultimi goal di Nordhal e dai primi di Altafini, dalle gonne di Dior, dal sorriso dell'oca più intelligente e più infelice del mondo, la bionda Marylin che era stata in intimità con John e poi con Bob Kennedy, e che forse per questo fu biecamente suicidata, dagli orologi col cinturino bianco, dalle rotonde sul mare, dalle caramelle col buco, dalle cene "alla punta di coca", dai bikini che al confronto con le strips di oggi sembrano indumenti da carmelitane scalze, dal nudo della Bardot che fu immagine del peccato, affida alla morale e apologia del vizio, dal ciuffo ribelle di Presley, dai soliti ignoti straccioni di Gassman, dal surrealismo di Fellini, dalle canzoni ondulari di Wanda Osiris, e infine dall'eskimo nelle Università, che anticipava il tramonto dei Sessanta e faceva incombere il cielo plumbeo degli anni Settanta.
Tutto passava in fretta. Tutto era destinato a diventare subito ex. La vita si portava via le persone e i giorni che avevano vissuto. L'album di famiglia cominciava a recitare un patetico "c'era una volta". Su un'intera stagione prevaleva il color seppia. E quando si sentirono remoti gli scenari della macelleria messicana di Piazzale Loreto, qualche prematuro capello grigio consigliò di mettere nel cassetto gli ultimi sogni. Irrompevano gli anni dal '77 ad oggi. Quelli della seconda rivoluzione e della seconda disfatta.
1996. C'è stato il cambiamento? Dopo i giorni del terrorismo politico e del terrorismo mafioso (ma questi ultimi sono tuttora in corso), dello spreco, delle corruzioni, e dunque della rabbia, erano sopraggiunti quelli dell'aspettativa. Col risultato che oggi ci sono delusione e rivolta di fronte alle cose che non mutano, o più precisamente, che mutano, sì, ma in peggio. Prima c'era stata l'occasione a portata di mano; poi l'occasione ci è sfuggita di mano. Non sono le reazioni agli scandali ciò su cui basiamo il discorso, ma la parabola della seconda rivoluzione.
Quando questa scoppiò, gli italiani si trovarono di fronte all'immane problema che avevano in comune solo con l'ex Urss e con i Paesi dell'Est, di come uscire in modo democratico da uno Stato simil-sovietico con tanto di corruzione diffusa, di nomenklatura, di privilegi, di partiti di regime, di sindacati corporativi e di Stato, di economia parassitaria, di amministrazione asservita, di finanza pubblica fuori controllo, di istituzioni virtuali. Reclamarono allora una "classe nuova" che rompesse col passato. E qui commisero il primo errore: perché una classe nuova, a meno che non esca da una guerra civile, per prima cosa fa i conti con quella vecchia e chiude, in modo onorevole e di comune accordo, la pagina del libro. Invece, i vinti delegittimarono i vincitori, e questi cercarono di imbavagliare quelli. Gli uni incolpavano il Maligno televisivo che li aveva sconfitti, gli altri esibivano i numeri che li avevano gratificati e condannavano la violenza che li aveva sopraffatti.
Il secondo errore fu di non considerare seriamente che una classe politica nuova richiede istituzioni nuove assai più che uomini nuovi. Perché gli uomini sono come sono, santi e peccatori, eroi e codardi, figli di Maria e anche figli d'ignota, e non c'è modo di renderli migliori se non costringendoli ad agire all'interno di regole che assicurino prima la governabilità di chi ha vinto, e poi l'alternanza con chi ha perso, ove l'altro abbia agito male. Invece, l'immaturità politica e le strategie da basso impero di una parte e dell'altra produssero il paradosso del conflitto senza tregua fra coloro che intendevano solo governare le vecchie istituzioni e coloro che non sapevano da quale parte cominciare per cambiarle. Risultato: la rivoluzione s'impantanò e prese a divorare se stessa e i protagonisti - ondivaghi e amletici, bizantini e d'assalto, orgogliosi e ferrugigni - che erano scesi in campo. Disorientato, il Paese reale assisteva alla tragicomica parabola di chi era partito nel nome di Robespierre - ma anche di Torquemada - e si dilaniava per contendersi un "tecnico" o un ex magistrato o un giornalista predicatore, nel tentativo di abitare un Palazzo che nel frattempo era diventato una sorta di fumeria d'oppio, dentro la quale c'era di tutto: tagli e balzelli, diritti e abusi, doveri e pressioni, omissis, ricatti e quant'altro ancora: un brodo primordiale, insomma, con il quale si voleva far credere che il peggio era passato, per non riconoscere che ci si stava nel bel mezzo, per non ammettere che quella rivoluzione da un po' tutti più o meno intenzionalmente era stata tradita.
Dicono i sapienti che la storia non offre due volte la stessa occasione. C'è da sperare che abbiano torto e che, se mai il treno ripasserà, l'esperienza - che dovrebbe essere il cimitero degli errori - insegni qualcosa. Del che fortemente dubitiamo.
A modo suo, anche il Sud aveva partecipato alla prima rivoluzione. Sebbene avversata sul piano politico e culturale, la Cassa per il Mezzogiorno aveva funzionato bene fino al 1965. Il territorio era stato in buona parte sistemato, le acque interne regimate, l'irrigazione avviata, le strade di bonifica riordinate, la montagna rimboschita. Gli sconfinati paesaggi di morte descritti da Tommaso Fiore stavano per essere cancellati, e sui nuovi orizzonti sorgevano poli e aree industriali che, pure in presenza di vicende contraddittorie, stavano introducendo l'immagine fino allora inedita delle tute blu. L'agricoltura estensiva continuava ad espellere braccia, gli ex contadini scoprivano i salari del Nord e dell'Europa: molto bassi, in realtà; ma grazie alla capacità di risparmio dei meridionali, sufficienti comunque a garantire un minimo di qualità della vita. Le rimesse dall'estero pompavano valuta pregiata in Banca d'Italia. La diffusione di scuole e università concorreva a preparare i futuri ceti medi. I benefici di ritorno che quella valuta e gli investimenti della Cassa al Sud procacciavano al Nord produttore, esportatore e appaltatore dei lavori, creavano un circolo virtuoso che, insieme con le agevolazioni creditizie e fiscali per le imprese che investivano nelle regioni depresse, avrebbero dovuto trasformare il Mezzogiorno, saldarlo all'Italia, agganciarlo all'Europa.
Non fu così, perché ad un certo punto l'incantesimo si spezzò. E si spezzò esattamente nel momento in cui emerse a Sud la classe (o categoria) dei mediatori finanziari, generalmente politici e affaristi con la vocazione del disbrigo per scorciatoie delle pratiche burocratiche, con cospicui profitti personali e di parte; ed emerse a Nord la classe (o categoria) dei ristrutturatori a spese altrui: l'industria delle regioni settentrionali rinnovò tecnologie e sistemi di produzione rastrellando denaro e risorse, comprese quelle destinate al Sud, e affinando la tecnica di considerare privati i profitti e pubbliche le perdite.
In questo contesto esplose la recessione del Mezzogiorno, mentre, speculare alla virulenza del terrorismo nel Centro-Nord, che impegnava Palazzi e istituzioni investigative a tempo pieno, ebbero mano libera nel Sud le nuove mafie che, cresciute in ricchezza con la speculazione edilizia e in potenza con gli intrighi politici e i voti di scambio, si trasformarono in narco-mafie, in holdings delle armi, in apparati finanziari e imprenditoriali. In tutto e per tutto essendo più flessibili e più efficaci dello Stato-pachiderma in ritardo e di una classe politica che aveva trasformato in sistema corruzione, neghittosità, privilegi. Quel che hanno rappresentato gli anni Ottanta per il Paese, ma soprattutto per i Sud, è inenarrabile. Valgano, su tutti, due esempi: la classe politica e amministrativa meridionale non seppe, o non volle, diventare coscienza critica, pattuglia intellettuale, punto di riferimento morale del Paese, e semmai agì in senso contrario screditandosi definitivamente e gettando sul lastrico il Sud; e, in secondo luogo, perpetuando il loro atteggiamento ideologico, i servi del principe per eccellenza, gli economisti italiani (di Torino, di Milano, di Bologna, di Roma), proclamarono che un welfare modernamente inteso doveva essere finanziato col debito pubblico: in questo modo dando ai politici, agli imprenditori protetti e alla burocrazia l'alibi per il saccheggio e lo spreco, agli italiani l'alibi per vivere molto al di là delle proprie possibilità, e al Paese l'alibi per potersi indebitare fino al collo.
Tutto questo, e altro ancora, ci è stato fin troppo bene. Nel senso che sul folle sistema di libertinaggio economico -finanziario abbiamo lucrato tutti, a Nord e a Sud: imprenditori, burocrati, veri e falsi laureati, lavoratori, proletari, invalidi e presunti tali, impiegati in immarcescibili enti dichiarati inutili vent'anni fa e di cui non ci libereremo prima del 2026, falsi disoccupati, falsi falliti, falsi coltivatori diretti, autentici parenti di sindacalisti e di politici, e via derubando.
Ritenendo fiduciosamente che così poteva durare all'infinito. E vien da pensare, alle, inutili citazioni (la storia maestra di vita?) che si potrebbero fare in proposito: " Gli uomini non vivrebbero ci lungo in società se non si lasciassero ingannare gli uni dagli altri" (La Rochefoucauld); "Quando il bisogno di illusione è profondo, una grande quantità di intelligenza può essere impiegata nel non capire nulla" (Saul Bellow).
Ma la situazione attuale ce ne suggerisce un'altra, specifica, ben più drammatica: "Qualcuno è arrivato dalle frontiere e dice che non vi sono più barbari. E ora che sarà di noi, senza i barbari? In un certo senso quegli uomini portavano una soluzione". E' del poeta greco Konstantinos Kavafis, ed è complementare a quella di Hobbes, secondo il quale "l'interesse e la paura sono i principi della società".
Interesse e paura, appunto. Erano i sentimenti che animavano il buzzatiano fortino al limite del deserto dei Tartari, i quali pure non si profilavano mai sulla linea dell'orizzonte. E sono i dati permanenti della società politica ed economica italiana dei nostri tempi osceni, inflazionati dal suffissoide "poli" (da "polis", purtroppo!): tangentopoli, affittopoli, invalidopoli, militaropoli, e chi più "poli" ha più ne metta, o ne immagini, visto che la realtà (stiamo citando ancora: da Conrad) supera sempre e di gran lunga la fantasia.
Fino a che gli interessi erano garantiti all'"Italia che produce e che lavora" niente di nuovo sul fronte meridionale. Ma nel momento in cui la paura che fossero intaccati ha avuto il sopravvento, è cambiato il colore del cielo e della terra. Kavafis, per quanto ci riguarda, può riposare in pace: in Italia i barbari sono riapparsi. Sulla linea Gotica si veglia contro i Tartari del Sud. Si preannuncia, la terza rivoluzione o una sindrome cecoslovacca?
Non è detto che rivoluzione e sindrome non coincidano. Dipende dalla prospettiva strategica di chi tira i fili nel teatro dei burattini. Certo è che, dall'estate scorsa, c'è chi batte le regioni del Nord ribadendo che il vero nodo non espresso della politica italiana è il debito pubblico, che si rischia di restare senza pensioni, che l'assistenzialismo rifà capolino nei programmi di molte forze politiche, che tutto questo rappresenta l'ennesima fregatura dell'Italia, appunto, "che produce e che lavora", e dunque dell'Italia che "sgobba e per di più paga le tasse". E dappertutto, in quell'Italia, si avanza lo spauracchio di "Roma ladrona", senza che qualcuno osi muovere legittime e documentate contestazioni.
Un ricatto estremista? Non del tutto.
Intanto, è una maniera di imporre in via endogena il diktat tedesco che reclama la marcia a tappe forzate verso Maastricht. Il ragionamento è questo: il Nord vuole arrivare all'Europa ad ogni costo; se il resto del Paese non ce la farà, pazienza!, la responsabilità della frattura toccherà a chi è europeista a parole e disattende i trattati.
Difficile dire se si tratti di un proposito genuino. Di sicuro, è un modo diverso - e insidioso - per riproporre il dilemma della secessione. Il Profondo Nord (Lombardia e Veneto, soprattutto) che riesce a coniugare a Milano la linea della Caritas sugli immigrati, e poco più in là, a Varese o a Bergamo o a Belluno, l'impostazione più isolazionista, e quasi svizzera, sugli stessi immigrati, per paura di perdere contatto col dio quattrino, sognando la propria carta-moneta con l'immagine del marco, e inventandosi di sana pianta radici mitteleuropee (che, in un futuro ipotetico, lo configurerebbero come marginal-renano, più che contiguo-danubiano), il Profondo Nord - dicevamo - pur di buttare a mare il Sud che non gli rende più, è disposto a diventare provincia subalpina del potentato economico teutonico. Il che ci conferma nell'opinione che la madre dei servi del principe è sempre incinta.
Ma non per merito del principe. Perché i più accaniti anti-meridionali sono proprio i figli e i nipoti dei meridionali che abbandonarono il Sud a coppie, a gruppi, a greggi, dall'inizio degli anni Cinquanta. E se dovessimo trovare un riscontro letterario all'atteggiamento di questi consapevoli apostati, citeremmo Viaggio col padre, del "milanese" Carlo Castellaneta, figlio di un tarantino e di una lombarda residenti nella cosiddetta capitale morale ("c'era una volta ... ") d'Italia. Spinto e quasi costretto dal padre (del quale lo infastidiva tutto: il colore della pelle, il gesticolare incontrollato, la goffaggine, le inflessioni dialettali malgrado gli anni trascorsi sotto l'ala di Sant'Ambroeus ... ), insieme con lui prende un treno sovraccarico di meridionali, diretto verso la città bimare.
Lungi dal rappresentare un sia pur breve ritorno alle radici, per il nevrotico narratore quel viaggio è un supplizio di inevitabili immersioni nei comportamenti, nei costumi, nei riti, meridionali, nell'espansività che trasuda calore familistico, e - al meglio - nell'affabilità indiscreta che sconfina in una confidenza non richiesta e meno che mai concessa: nel caos italiota, insomma, così lontano e diverso dall'ordine mentale, dall'esercizio dell'autocontrollo, dall'asettico distacco, propri del mondo materno. Un racconto biografico sgradevole e veritiero, che esprime senza indulgere - e mai in filigrana - l'estraneità, la repulsione, il disprezzo per quell'universo alieno. E si era appena nel 1958!
E pensare che c'era stato un viaggio a rovescio, appena nove anni prima. Aveva scritto Giuseppe Marotta: "Cara Milano, il bisogno di scriverti questa letterina d'amore l'ho sentito d'improvviso, una sera dell'attuale severissimo inverno ... ". Ma Marotta era napoletano. Ed era ben altro scrittore, capace persino di sognare che a Milano non facesse freddo: "Signore, ogni milanese è un capitano d'industria, viene vede vince nella selva dei numeri, le cui ombre furono sempre sufficienti a volgermi in fuga, riconsegnandomi a un sospiro di canzonetta che passava.
Signore, ho facile il sonno e il pianto e il riso come mia madre, mentre qui gli uomini sono sempre il ritratto del padre, hanno veri baffi, non dormono non piangono non ridono se la dinamo non si è fermata e la merce non è partita. Signore, io debbo, io desidero vivere in questo paese, al quale ho voluto bene da lontano. A me questa gente piace, Signore, proprio perché non mi somiglia. Fa' che anch'io piaccia ai lombardi, fa' che gustino la mia malinconica storia, suscita in essi il desiderio di impararmi, perché vedi che io sinceramente voglio impararli: rendili curiosi di me come io sono curioso di loro. Noi, io e loro, abbiamo egualmente bisogno di riflettere su questo: perché a Milano il cielo è così nebbioso e così amichevole? perché a Napoli il cielo è così limpido e così feroce?... Però un cielo, il loro e il mio, non è che la continuazione del cielo ... ".
Il deserto della terra, invece, non ha continuità. Ha steccati, cavalli di Frisia, muri nel cuore. Sui quali sono finalmente ricomparsi i Tartari. Se Wotan-Odino vuole, ora la soluzione al problema c'è: di là una Boemia-Nord, di qua una Slovacchia-Sud. Questa è la sindrome di coloro che si definiscono "estremisti di centro", che nel marasma balordo del politichese contemporaneo ha la stessa valenza di "extraparlamentare liberale" o di "massone di Dio".
E' stato scritto: "Que' prudenti che s'adombrano delle virtù come de' vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov'essi sono arrivati e ci stanno comodi". Si rilegga il capitolo XXII de I promessi sposi, di tal Manzoni Alessandro, nato a Milano, a suo tempo, e ivi morto e sepolto. A quanto pare, ora, per sempre.


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