§ Dimenticare Caporetto?

Cronache di ordinarie carneficine




Ada Provenzano, Bruno A. Codero, Giorgia Cordier
Coll. Franco Rey, Alba Demario, Ruggero Franci, Carlo Mastria



Li chiamarono "vigliacchi" e "traditori". Uccisi dagli austriaci, con le mitragliatrici, con l'artiglieria, con i gas asfissianti, li sistemarono su un pianoro, uno accanto all'altro, perfettamente allineati, quasi fossero in attesa di un nuovo plotone di carnefici. Sono chiusi in piccole casse di legno, tutte uguali, tutte piene di quasi niente: schegge d'ossa, ciocche di capelli, piastrine con numeri e sigle di matricola. Sono 7.014: il dieci per cento dei caduti italiani della valle e appena l'uno per cento delle vittime causate dal conflitto contro l'Austria-Ungheria. Sono i pochi ai quali si è riusciti a dare una sepoltura. Eppure, neanche adesso che il tempo li ha consumati si può pensare che riposino in pace. Perché sono gli unici esposti per sempre, proprio con identità e grado, a rappresentare il disonore, la vergogna, la disfatta per antonomasia: Caporetto.
Si risale il Friuli e si va verso l'ex Jugoslavia. E' imbarazzante constatare che il toponimo non esiste più. Né come luogo geografico né come scenario di una storica battaglia: nelle lapidi del sacello si è infatti riusciti - suprema ipocrisia - a non menzionare mai il nome maledetto. E questa è la prima scoperta. La seconda, una volta arrivati, è che nessuno passa mai a portare un fiore a questi ragazzi dalla reputazione ingiustamente sporcata. Persino nel nostro smemoratissimo Paese, nel quale ladri e trafficanti d'ogni genere, mafiosi e banditi in doppiopetto girano indisturbati, persino da noi, dicevamo, ci si ostina a ricordarsi del marchio d'infamia che pesa su questi settemila morti. Una accusa, appunto, di "viltà'' e di "tradimento" rettificata dagli Stati Maggiori, ma che tuttavia resiste tenace. Come se il famoso, e quello sì vile, telegramma di Cadorna sia stato diramato qualche giorno fa soltanto, e non il 28 ottobre 1917. Ci sembra dunque giusto parlarne, per un risarcimento e per una riabilitazione definitiva della memoria di quei morti che giacciono in terra slovena; ci sembra anche giusto partire dal teatro della sconfitta, alla luce di fatti obiettivi, per raccontare quello della vittoria, alla luce di altri fatti obiettivi.
E' ex Caporetto. Oggi si chiama Kobarid, ed è un piccolo borgo al centro di una conca verdissima e cupa. Nella piazza della Libertà, ex piazza Vittorio Veneto (ancora l'ossessione dei nomi, e dei morti, da far sparire), si cerca inutilmente un cartello indicatore per il cimitero militare. C'è invece la statua di un prete-poeta, un cialtrone che si chiamava Simonu Gregorcicu, che rappresenta un'altra obliqua condanna. La sua gloria, infatti, si affida a versi che sono soltanto anatemi, del tipo "l'Isonzo affoghi ogni italiano". Venne accontentato: dalle granate austro-ungaro-tedesche, sloveno-croate, boemo-slovacche, dai moschetti e dallo stesso fiume. I suoi connazionali gli hanno tirato su un monumento.
Un vecchio ricorda: "Avevo pochi anni, ho visto la notte accendersi di colpo per le bombe e gli incendi, il paese fu evacuato, passavamo davanti a mucchi di cadaveri che rimasero abbandonati sulle strade almeno per un paio di settimane. Stessa sorte toccò agli ottocento alpini uccisi col gas a Plezzo, non erano dotati di maschere, e lo stesso accadde ai genieri che si occupavano delle comunicazioni ... ". Saliamo sulla collina dimenticata dei morti. La struttura circolare del Sacrario è la stessa di cento altre opere realizzate durante il Ventennio. Ma questa è circondata da un surreale ottagono di archi in pietra che sembrano assolutamente uguali a quelli disegnati nei suoi diari da Dino Buzzati, nei mesi della sua fatale malattia, come meta di un'autobiografica ultima passeggiata.
La somiglianza è sconcertante e suggerisce un dubbio: che sia mai stato qui, l'inquieto narratore di fortezze, di avamposti sperduti, di deserti abitati da improbabili tartari, di soldati sempre pronti all'impresa immortale? Di sicuro, osservò infinite volte altri monumenti, visitatissimi, laudativi, per nulla tetri, dedicati ai commilitoni di questi martiri. Compreso quello di Vittorio Veneto, e questo ci offre il destro per un'altra riflessione: per un nome cancellato (Kobarid, ex Caporetto), la Grande Guerra ne ha inventato un altro, Vittorio Veneto. Un nome che è anch'esso un ingorgo di simboli fissati in mille panegirici storici, letterari, architettonici, talmente onnipresenti e "forti" da influenzare addirittura - come qualcuno ha sostenuto - comportamenti e caratteri. Da segnare l'identità stessa di una comunità. Tanto da indurre i cantori delle glorie italiche, D'Annunzio in testa, a modellare e ingigantire il mito che oggi qualcuno vorrebbe far risorgere, quello della "razza Piave". Allora dobbiamo chiederci: è mai possibile che Caporetto costituisca e rappresenti ancora lo spartiacque di ogni smarrimento, caduta di coscienza, vigliaccheria? E che, al contrario, Vittorio Veneto sia rimasto il paradigma di ogni lucidità morale, capacità organizzativa, coraggio?
Chiariamo, intanto, che Vittorio Veneto come centro urbano non esisteva. Nacque dall'unione di due paesi, Ceneda e Serravalle, vicini e per secoli fra loro contrapposti. La fusione, con un unico nome, Vittorio, venne deliberata nel 1866, e maturò nel clima del Risorgimento al quale le popolazioni locali diedero una partecipazione convinta. Tuttavia, fu una scelta discutibile, se non altro perché l'Italia appena costituita non aveva ancora alcuna gloria da festeggiare. Semmai, aveva un paio di brutte figure, per mare e per terra: a Lissa e a Custoza. Comunque, Vittorio diventa "Veneto" mezzo secolo più tardi, alla conclusione del conflitto.
Tutto nacque da una svista del generalissimo Diaz, il quale, dopo l'offensiva sul Piave, nei suoi bollettini parlò sempre di "Vittorio Veneto", alludendo ai luoghi degli ultimi scontri, e sbagliando. Ne derivarono due conseguenze. Prima di tutto, un battesimo di massa per centinaia di bambini che, con patriottica ignoranza, vennero registrati all'anagrafe col nome di "Firmato", in onore dell'alto ufficiale che siglava i suoi messaggi murali, appunto, "Firmato/Diaz". E poi che, al termine di un fervido dibattito in municipio con tre alternative sul tappeto - "Vittorio della Vittoria", " Vittorio Veneto" e "Vittorio" e basta - la giunta optò per la denominazione che ora leggiamo sulle carte geografiche e sulle insegne che indicano la strada per questa opulenta località.
Questo, per il nome. Quanto al resto, è cosa nota: medaglia d'oro all'intera città "per il contegno mantenuto durante l'occupazione austriaca". Un destino perfettamente costruito. Sia pure: inchiniamoci di fronte ai superstiti "ragazzi del '99", che combatterono insieme con gli ardimentosi "pronti a osare l'inosabile" (è sempre D'Annunzio che parla); ma non dimentichiamoci di certi morti sui quali abbiamo fatto ricadere colpe che non furono loro. E vediamo perché.
L'Italia scese in campo con 400 mila uomini, contro 100 mila austriaci meglio armati ed equipaggiati. Lo Stato Maggiore era stato informato della data d'entrata in guerra solo con tre settimane d'anticipo. Il Comando Supremo era nelle mani del generalissimo Luigi Cadorna, la cui carriera era stata più quella di un burocrate che quella di uno stratega. Non mancava di qualità morali. E forse ne aveva in eccesso: il concetto sacerdotale del dovere - come è stato scritto - lo rendeva inflessibile e persino inumano. Più che tenace, era ciecamente ostinato. E scontroso. Chiuso e taciturno, reclamava esclusivamente l'obbedienza. Concepiva la guerra "come una gigantesca operazione d'assedio da portare avanti in scontri frontali", uomo contro uomo, trincea contro trincea. Il Quartier Generale di Udine fu trasformato in un suo feudo personale, del tutto indipendente anche da Roma e dal governo.
La 'Tresca e gaia guerra" cominciò all'alba del 24 maggio. I primi ad attraversare il confine furono i soldati della Il Armata. Più che gli austriaci, li fermarono i reticolati. Quando chiesero al Comando le tronchesi per tagliarli, appurarono che l'esercito non le aveva in dotazione.
Il fronte italiano era oggettivamente dei più difficili: 700 chilometri, dai massicci dolomitici alla foce del fiume Isonzo, presentavano una serie infinita di tratti salienti e rientranti che esponevano qualsiasi avanzata al pericolo di un contrattacco sui fianchi. Considerandola impossibile, se non proibitiva, Cadorna non prese mai in considerazione un'offensiva sulle vallate trentine. Era convinto che l'unica azione possibile fosse quella sull'Isonzo, in direzione di Gorizia. E qui dispiegò le "sue" battaglie. Ai primi di luglio lanciò le fanterie, ma i reticolati le bloccarono malgrado una settimana di inutili e sanguinosi assalti. Il 18 scattò la seconda offensiva. Questa volta durò due settimane. Anche adesso fu carneficina: le artiglierie non erano riuscite ad aprire alcuna breccia nei reticolati, e le forbici per tagliarli non erano ancora arrivate.
18 ottobre, terza offensiva sull'Isonzo, con tutti i rinforzi che il generalissimo era riuscito ad ammassare. Dopo un orribile carnaio, si conquistarono poche centinaia di metri. Il che non scoraggiò Cadorna, che lanciò subito dopo la quarta offensiva, il cui unico risultato fu quello di piantare le bandiere alle pendici del Carso. Si tirarono le prime somme: da luglio a dicembre, oltre 60 mila morti e 170 mila feriti e mutilati. E guai ad avanzare critiche all'operato del generalissimo. In tutto il corso della guerra, Cadorna aveva esonerato 800 ufficiali superiori. 217 erano generali!
Quando giunse il primo inverno, i soldati non avevano ancora le mantelline per ripararsi. Ma il morale teneva. A dargli il primo scossone furono le licenze. Tornando a casa, i fanti si aspettavano di essere accolti come eroi da un Paese orgoglioso delle loro prodezze e dei loro sacrifici. Invece, non trovarono che indifferenza. E incominciarono a prendersela soprattutto con gli imboscati, cioè con gli operai, che erano stati in grandissima parte esentati. Così, alla frattura fra esercito e Paese, determinata dall'atteggiamento di Cadorna nei confronti del governo e dal suo esplicito disprezzo per i politici, si aggiunse quella fra soldato-contadino e operaio-imboscato: i contadini venivano in massa dal Sud, dalle isole, dal Friuli, dal Veneto; gli operai erano rimasti nelle fabbriche, soprattutto in quelle del "triangolo industriale" (Lombardia-PiemonteLiguria), e nelle retrovie dell'Emilia-Romagna e della Toscana. I contadini dovevano attraversare in tradotta gran parte del Paese, impiegando anche una settimana prima di giungere a destinazione; gli operai giungevano in fabbrica in tram, in pochi minuti, e le loro famiglie non erano minacciate dalla fame né decimate dalle malattie né vessate dalle requisizioni delle produzioni agricole. Il Sud dava masse enormi di fanti e un numero scarso -al confronto - di ufficiali; il Nord forniva la forza-ufficiali, aveva le leve dei comandi, le scuole militari erano in grandissima parte dislocate nel Nord d'Italia. La trincea divenne luogo di rancori, che poi sfociarono in aperte insubordinazioni, per le quali ci furono molte condanne, ma nessuna a morte. Cadorna deplorò questa moderazione e ordinò che nei casi in cui era difficile appurare le responsabilità si doveva procedere alla decimazione. Rimasto dapprima sulla carta, il provvedimento trovò in seguito una spietata applicazione.
Il 15 maggio 1916, mentre l'Italia si apprestava a celebrare il primo anniversario dell'intervento, il Trentino s'infiammò.
Duemila bocche da fuoco austriache cominciarono a rovesciare le loro granate sulle linee italiane. Era l'esordio della Strafexpedition, la Spedizione Punitiva volta a prendere alle spalle il nostro esercito. Cadorna non si aspettava l'attacco, e non se lo aspettava là dove avvenne. Le fanterie nemiche concentrarono la loro spinta lungo una fascia di cinquanta chilometri. Le nostre ali tennero, il centro crollò. E nel gran varco passarono come un fiume in piena le armate nemiche. Giunsero a trenta chilometri da Vicenza, dilagando sulla pianura veneta, e mettendo in crisi l'intero sistema operativo italiano sull'Isonzo.
I primi contraccolpi si ebbero a Roma. Le notizie del disastro mandarono in baracca il gabinetto Salandra. Fu chiamato a succedergli Paolo Boselli, esperto di questioni economiche, ma digiuno di arti belliche, ottantenne scolorito che rappresentava, semmai, l'uomo giusto al posto sbagliato. Tant'è che confermò Cadorna nel comando supremo dell'esercito. E Cadorna confermò le sue convinzioni in fatto di condotta di guerra.
Il generalissimo passò alla controffensiva: la quinta battaglia dell'Isonzo.
Nel saliente di Gorizia, il 6 agosto il Comando austriaco si vide piombare addosso la III Armata del Duca d'Aosta. Erano 17 divisioni contro 8. Dopo tre giorni di scontri cruenti, gli austriaci furono costretti ad abbandonare le munitissime fortificazioni del Sabotino e del San Michele, incalzati dal generale Capello, che comandava la II Armata, e che fu il più brillante protagonista dell'operazione. L'Isonzo fu attraversato, Gorizia cadde. Per un momento sembrò che l'intero fronte nemico barcollasse.
Ma gli italiani furono costretti a fermarsi per mettere riparo alle pesanti perdite subìte. Fu la prima, autentica vittoria sul campo. Servì a ridare prestigio internazionale all'Italia e forza all'esangue gabinetto Boselli. Servì anche a far dichiarare guerra alla Germania. Il che gettò nella disperazione i contadini che combattevano sul fronte, che erano stati convinti, fino a quel momento, di aver 'Tatto la guerra ai tedeschi", come da sempre avevano definito gli austriaci.
Cadorna imbaldanzì. E commise un errore di sopravvalutazione delle proprie forze. Pochi giorni dopo la caduta di Gorizia, e senza prepararsi con la necessaria cura, scatenò sull'Isonzo una nuova battaglia. La sesta. L'obiettivo era ambizioso: prendere Trieste. Ma anche questa volta i reticolati resistettero. E resistettero anche alla nuova arma entrata in campo: la bombarda. Il che non indusse il generalissimo a desistere. E tra settembre e novembre, a breve distanza l'una dall'altra, scatenò altre due offensive, la settima e l'ottava. Sempre col medesimo risultato. A novembre, nel giorno dei morti, diede finalmente l'alt. Si rifecero i conti. Il 1915 si era chiuso con la perdita, tra morti, feriti e mutilati, di 250 mila uomini. Il 1916 si chiudeva con quella di oltre 400 mila. E sui combattenti sopravvissuti incombeva il secondo inverno di guerra. Fiumi di "cordiale" non servivano ad evitare i congelamenti nelle trincee, nelle quali la neve si trasformava in perfida fanghiglia.
Nell'inverno del 1917 si verificarono due fatti di enorme importanza: in febbraio era scoppiata la rivoluzione russa e a Mosca Kerenski guidava un regime democratico; in marzo erano scesi in guerra accanto all'Intesa gli Stati Uniti. Austria e Germania si apprestavano a ritirare le truppe dal fronte orientale, e a gettarle di peso sui fronti francese e italiano. Era una strategia temuta da Parigi e da Roma, anche perché l'intervento americano non sarebbe servito a controbilanciarla. I due avvenimenti, dunque, ebbero sconvolgenti riflessi sia sul piano militare che su quello politico. E l'Italia fu il Paese più direttamente interessato.
La parola d'ordine socialista del "maggio radioso" era stata semplice e incisiva: "Né aderire né sabotare". Per i massimalisti, vera guerra era soltanto quella di classe. Tutte le altre erano "malattie del capitalismo". Anche se i più responsabili, guidati da Turati e Treves, si rendevano conto che questa era guerra di popolo (e tale l'avevano considerata i socialisti tedeschi, che vi avevano aderito in tutto e per tutto), le masse popolari cominciarono ad opporvisi. Più che nelle trincee, la propaganda fece breccia nelle città e nelle fabbriche.
Epicentro della protesta, Torino, dove ci furono tumulti che costarono una cinquantina di morti. Allora anche i riformisti più moderati furono costretti a lanciare la nuova parola d'ordine: "Non un altro inverno in trincea".
Presi in contropiede, i cattolici dovettero prendere posizione. L'ala populista, che si riconosceva nelle "leghe bianche", non poteva lasciare alle leghe rosse l'esclusiva del pacifismo, perché avrebbe perso il consenso delle campagne, su cui poggiava la sua forza. Così, per combattersi fra loro, i due massimalismi finirono per sommarsi. E alla saldatura diede una mano il Papa, quando esortò ad un "giusto accordo" fra le potenze belligeranti, perché si ponesse fine all'"inutile strage". L'appello risuonò non solo come condanna della guerra, ma anche come invito a un vero e proprio "sciopero militare".
Due i riflessi di questa situazione. Entrò in crisi il gabinetto Boselli, che già Nitti aveva definito "il ministero della debolezza che simula la forza"; e la tracotanza di Cadorna giunse a tal punto, da accreditare le voci di un colpo di Stato ad opera del generalissimo. Era falso. Si aggiunga che in quel torno di tempo Cadorna presumeva di vincere in proprio la guerra: durante la pausa invernale aveva equipaggiato meglio l'esercito e restaurato la disciplina "grazie alle esemplari fucilazioni". Perciò, a metà maggio '17, diede il via alla decima battaglia dell'Isonzo. In tre settimane, gli italiani lasciarono sul terreno, tra morti e feriti, 130 mila uomini. E in tre giorni gli austriaci al contrattacco si ripresero il terreno perduto.
Cadorna pensò che, per risollevare gli animi, fosse necessario scatenare l'undicesima offensiva, con obiettivo le cime dell'Ortigara. Impiegò 300 mila uomini che, a prezzo di sacrifici immani, raggiunsero la vetta. Ma vi arrivarono così stremati che, alla prima controffensiva, la perdettero.
Si scoraggiarono tutti, meno Cadorna, che decise di sferrare la dodicesima battaglia. E non badò a mezzi, pur di ottenere un successo: 51 divisioni, contro le 19 austriache, in un arco di ottanta chilometri fra Tolmino e il mare. Il 18 agosto settecentomila uomini si avventarono all'assalto, sfondando nel settore della Bainsizza e penetrando per una decina di chilometri, fino all'ultima linea di difesa di Trieste. Qui si fermarono dissanguati. Avevamo perso 100 mila soldati per una vittoria, non per la vittoria definitiva.
Questo ennesimo fallimento esasperò gli animi, nelle trincee e in Parlamento. Il gabinetto Boselli fu rovesciato nello stesso momento in cui una valanga di ferro e di fuoco piombava in un'area dal nome sinistro: Caporetto. La crisi militare accorciò i tempi di quella politica. A Boselli successe Orlando, proprio mentre centinaia di migliaia di uomini erano in fuga dal fronte e si attestavano sulle sponde limacciose del Piave.
Caporetto, appunto. Cadorna non aveva creduto possibile un'offensiva nemica nel mese di ottobre. E se ne era andato in vacanza, facendo firmare, su sue istruzioni, ben 120 mila licenze. Congelando le operazioni italiane era sicuro che anche gli austriaci sarebbero entrati in letargo. Il 13 aveva ricevuto un rapporto del Servizio informazioni: "Il nemico prepara un attacco in grande stile". Lo aveva ritenuto infondato. Solo quando il generale Capello, comandante della II Armata, gli comunicò che i suoi servizi avevano appurato che il nemico era pronto ad attaccare, si decise di lasciare Vicenza e di far ritorno a Udine. Ma lo fece a malincuore. Che senso aveva attaccare a Tolmino, con l'inverno che incombeva?
Invece, il nemico quel senso lo dava alle cose, eccome! Inchiodato sul fronte francese, il Comando germanico aveva deciso di dare una spallata all'esercito italiano, prima che gli Stati Uniti facessero sentire il loro peso. Così, per agire di sorpresa, trasferirono di notte sette divisioni, decine di migliaia di soldati vestiti con uniformi austriache. E alle due del mattino del 24 scatenarono l'artiglieria. Ma, questa volta, con una strategia del tutto nuova. I cannoni batterono solo un tratto di quattro-cinque chilometri, aprendo un piccolo varco, attraverso il quale un battaglione comandato da un tenente ventiseienne passò, spingendosi per dieci chilometri, alle spalle degli italiani, e facendo diecimila prigionieri. Quel tenente si chiamava Ervin Rommel. La futura "volpe del deserto" non aveva incontrato resistenza perché gli scampati al violento fuoco d'artiglieria erano stati fulminati dal gas. Il Comando supremo di Udine non si era ancora reso conto della situazione.
Cadorna cominciò a prendere coscienza soltanto nella notte tra il 26 e il 27 ottobre, quando la stessa Udine era minacciata dalle avanguardie nemiche. Il fronte era stato segato in due tronconi e nella falla di Caporetto, che ormai era larga una cinquantina di chilometri, una fiumana di austro-tedeschi irrompeva velocemente, costringendo gli italiani non alla ritirata, ma alla fuga disordinata. Soltanto la III Armata del Duca d'Aosta stava ripiegando con un certo ordine. Ma la II Armata, quella del generale Capello, era in rotta, in piena dissoluzione. Torme di fuggiaschi intasavano le comunicazioni. Decine di migliaia di soldati, ormai senza speranza, gettavano le armi, cercavano scampo, creavano il caos, combattevano in gruppi sparsi, con atti di eroismo che forse non conosceremo mai, ma che non servirono a bloccare i battaglioni nemici che dilagavano nella pianura.
Il 27, finalmente, Cadorna decise di dar l'ordine di ripiegamento sul fiume Tagliamento. Ma pochi reparti furono in grado di riceverlo. Nel marasma generale, non funzionava più nulla. Sicché il 28 il generalissimo si convinse che era il caso di annunciare la disfatta con un comunicato che cominciava con queste parole: "La mancata resistenza di reparti della II Armata vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico ... ". Era il tentativo di addossare ad altri un disastro dovuto all'imprevidenza e alla sostanziale incapacità strategica del Comando. Cadorna chiamò in causa tutti, dalla debolezza politica di Roma al disfattismo che inquinava il Paese, dalla viltà dei soldati (ma l'Armata del generale Capello aveva combattuto valorosamente, conseguendo le uniche, vere vittorie sul campo, negli anni precedenti) all'imprevidenza dei generali. Tutti e tutto incolpò tranne se stesso. Mentre la catastrofe sembrava imminente: Udine era caduta, Venezia era alla portata delle artiglierie nemiche, 300 mila uomini erano chiusi in una sacca con tremila cannoni e migliaia di magazzini e depositi, mentre un milione di soldati cercava scampo, senza neanche sapere dove.
Né giunsero ordini precisi da Cadorna, che stentava a fissare un piano, cioè un punto di raccordo e di resistenza. Pensava di attestarsi sul Tagliamento, senza neanche sapere che il fiume era stato occupato dal nemico. Allorà indicò il Piave. Ma non fu questo a fermare gli austro-tedeschi. Fu la sorpresa. Nel senso che essi non si aspettavano di poter penetrare così a fondo nel territorio italiano, né di provocare un crollo così totale, e dunque si erano creato il vuoto alle spalle e furono costretti ad attendere due settimane prima che il grosso sopraggiungesse. E in quelle due settimane molte cose cambiarono. A cominciare dal Comandante supremo delle Forze Armate italiane.
La tesi di Cadorna, secondo la quale Caporetto era frutto non della conduzione militare, ma di quella politica, del disfattismo, della viltà dei soldati, va respinta. Certo, i nostri Comandi si lasciarono trovare impreparati ad una situazione di emergenza, e questa non era colpa né politica né dei fanti. Inoltre, il nemico fece largo uso del gas, già sperimentato nella Strafexpedition, e i nostri caddero come mosche, perché sprovvisti di maschere antigas. Il lancio delle "bombole" durò appena trenta secondi, ma fu sufficiente ad annientare un intero battaglione di genieri addetti ai telefoni e alle comunicazioni. Saltò così l'intera rete di collegamenti. Ma lo sfacelo fu determinato in particolare dalla mancanza di ogni spirito d'iniziativa. La macchina militare messa su da Cadorna e basata, come diceva il Regolamento, sulla "obbedienza cieca e assoluta", non lasciava margine d'iniziativa ad alcuno dei Comandanti delle grandi unità, che non potevano prendere neanche una decisione minima, senza il previo assenso del generalissimo. Tutto questo acuì il crollo morale delle truppe, alle quali Cadorna attribuì per intero la responsabilità della sconfitta.
Divenne famosa la "falla morale". Che era frutto di tutto ciò che era accaduto, e soprattutto della concezione militare di Cadorna, basata sullo scontro frontale tra masse di fanterie, sullo stato d'assedio delle trincee nemiche, sulla guerra di logoramento. Che aveva finito per logorare anche i presunti logoratori. Inoltre, tra i soldati, ma anche nella coscienza politica e civile del Paese, era rimasta aperta la ferita della Bainsizza: se Cadorna non si fosse fermato, se avesse predisposto un piano di secondo intervento contro l'esercito nemico, quando quello italiano aveva ottenuto una strepitosa vittoria, la guerra si sarebbe conclusa sul nostro fronte molto prima. Sulla sanguinosissima battaglia della Bainsizza il soldato italiano aveva puntato tutte le sue disperate speranze. Ne era uscito vincitore, con una vittoria dimezzata per colpa del Comando Supremo, rimasto immobile. E quelle speranze aveva perso, senza appello, quando a Caporetto quel soldato fu lasciato solo, indifeso, allo sbando. Furono trucidati in settantamila. Una carneficina che si aggiungeva alle altre "inutili stragi" volute dal folle comportamento di alcuni alti ufficiali.
Cadorna venne finalmente esonerato. Gli successe, per una designazione che neanche oggi risulta chiara, Armando Diaz. Sottocapo di Stato Maggiore, Badoglio, insieme con il generale Giardino. Campo di battaglia, il Piave. Primo compito, rintuzzare gli attacchi del nemico che cercava di portare o aumentare la confusione nel riassestamento delle nostre truppe. Il piano fallì perché commise l'errore di dislocare molti uomini in pianura e pochi sulle montagne. I combattimenti si svolsero proprio qui, sull'altopiano di Asiago e sul Monte Grappa: prima offensiva austro-tedesca, il 10 novembre; seconda, il 4 dicembre. Il nostro sistema difensivo barcollò, Diaz ipotizzò una ritirata sulle rive del Mincio, ma l'attacco cessò inaspettatamente. Anche il nemico cominciava ad entrare in crisi.
Era tempo di procedere alla riorganizzazione. Entrarono in funzione i carabinieri. Trecentomila sbandati furono ricondotti sul fronte e lì tenuti inchiodati. Il 24, vigilia di Natale, un nuovo attacco. Ma questa volta gli alpini di Rommel incontrarono gli alpini del Grappa e ne uscirono decimati. Caporetto sembrava superata.
Ai primi del 1918 anche la guerra sul mare ebbe una svolta. In precedenza, privi com'eravamo di servizi di spionaggio e controspionaggio, avevamo perso sul mare cinque corazzate. Gli attacchi dei sabotatori si erano attuati persino a Taranto. Dopo Caporetto, per non restare imbottigliata nell'imbuto dell'Adriatico, l'Austria decise di forzare le linee di sbarramento del Canale d'Otranto. Ma la flotta incontrò due mas italiani, che affondarono la corazzata Szent Istvan (Santo Stefano). Da quel momento, l'iniziativa rimase saldamente in mano italiana.
All'inizio di marzo al Quartier Generale ci fu una riunione fra capi civili e militari. Da quanto Nitti confidò a Malagodi, il rapporto conclusivo fu rassicurante. Il fronte era rafforzato perché, arretrando dall'Isonzo al Piave, si era accorciato di 200 chilometri; la riorganizzazione degli sbandati e l'arrivo delle nuove reclute aveva annullato lo svantaggio numerico rispetto al nemico; il morale delle truppe sembrava risollevato; le perdite erano fortemente diminuite, non solo perché la guerra era diventata sostanzialmente difensiva, ma anche perché i Comandi si erano fatti più prudenti e amministravano la vita dei soldati con molta parsimonia; erano migliorate anche le condizioni materiali: più rancio, meglio distribuito, licenze ed esoneri per lavori agricoli, cinquina assicurata insieme con una piccola polizza-vita in favore della famiglia, maschere antigas a disposizione, armamento ed equipaggiamento all'altezza della situazione; persino propaganda, anche sotto forma di dibattito, con ufficiali che aprivano un dialogo semplice e diretto con la truppa, un nuovo criterio organico: quello di non disperdere le reclute per colmare vuoti, ma utilizzarle in gruppi omogenei che conservassero intatto il loro entusiasmo. Nacquero anche gli "Arditi" (divisa speciale, rancio speciale, soprassoldo, esenzione dai servizi di trincea), che portarono sul fronte le note di una canzone destinata a diventare celebre: "Giovinezza, giovinezza primavera di bellezza ......
Le conseguenze di tutti questi elementi si videro in giugno, quando gli austriaci ripresero l'offensiva. Questa volta non ci fu sorpresa. Il servizio informazioni aveva funzionato e si tenne conto delle notizie giunte dai nostri agenti o date dai disertori. Si conoscevano il giorno e il luogo in cui gli austriaci avrebbero attaccato. E si predispose uno schieramento di 7.000 cannoni, 17.000 mitragliatrici, con copertura di 4.000 aerei. Né gli austriaci si erano curati di mantenere alcun segreto.
I loro giornali scrivevano di un'offensiva imminente e le avevano dato anche il nome: "Operazione Radetzki". Il che confermava che su quell'offensiva puntavano tutte le loro residue speranze. Si sarebbe combattuto per la vita o per la morte.
Il primo attacco lo sferrarono in Trentino (la regione più amata da Francesco Giuseppe), nella speranza che i nostri Comandi vi spostassero delle truppe distraendole dalle linee del Piave. Ma Diaz non cadde nel trabocchetto. L'offensiva vera si dispiegò nella notte tra il 14 e il 15 giugno con un terribile bombardamento, compreso il lancio del gas, e investì l'intero fronte. L'errore fu questo: invece di concentrare lo sforzo in un settore limitato, per aprirvi una breccia, come avevano fatto i tedeschi a Caporetto, gli austriaci lo dispersero sull'intero arco del fronte, in nome della tattica dello scontro frontale. Dopo sei giorni di inutile battaglia, persi circa centomila uomini, gli austriaci ordinarono la ritirata. Gli italiani avrebbero potuto approfittare. Ma Diaz e Badoglio non ne vollero sapere. Per la seconda volta si perse l'occasione di accorciare i tempi della guerra e il numero dei morti.
Il nostro Comando aspettava fatti nuovi. Che sopraggiunsero. Il 26 settembre gli eserciti alleati sfondarono sulla cosiddetta "linea Hindenburg", facendo entrare in crisi lo schieramento tedesco sul fronte francese. Il 29 capitolarono i bulgari. Il 3 ottobre gli ungheresi si proclamarono indipendenti da Vienna. Si profilava il collasso dell'Impero. Tutto questo convinse Diaz a riprendere l'iniziativa. L'avvio delle operazioni venne fissato per il 24 ottobre. Non a caso: era l'anniversario di Caporetto, e gli italiani hanno coltivato sempre il culto delle ricorrenze.
L'offensiva iniziò alle tre del mattino, con epicentro sul Grappa, per consentire al grosso dell'esercito di aprirsi una testa di ponte oltre il Piave e sferrare l'attacco decisivo. Scorsero fiumi di sangue e furono necessari tre giorni per far passare le nostre avanguardie al di là del fiume. E a questo punto accadde l'inatteso: all'ordine di contrattacco, che avrebbe con ogni probabilità distrutto i nostri esigui reparti traghettati, i reggimenti cechi, croati, polacchi e ungheresi gettarono le armi. L'esercito austriaco, sguarnito, crollò di schianto. Intuendone il collasso, il generale Caviglia superò il fiume con l'intera VIII Armata, lanciando la cavalleria su Vittorio Veneto. La città venne raggiunta la sera stessa. Minacciata di accerchiamento, la VI Armata austriaca, che si era battuta con estremo valore, dovette abbandonare il Monte Grappa, tentando di ripiegare. Ma la ritirata si tramutò ben presto in rotta. Il 29 un ufficiale austriaco si presentò al nostro Comando avanzato e preannunciò l'arrivo di un plenipotenziario con la richiesta di armistizio. Il bollettino di guerra numero 1278 annunciò la vittoria: "I resti di quello che fu uno degli eserciti più potenti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza". Fine del massacro. E inizio del dubbio.
Si discute ancora oggi se quella di Vittorio Veneto sia stata una battaglia vinta sul campo, oppure una battaglia non combattuta perché l'esercito nemico era già in sfacelo. Per accreditare la prima ipotesi, Orlando fece ricorso a un sotterfugio: disse che l'offensiva italiana era cominciata il 24, mentre in realtà la battaglia vera era scattata il 26. E fu una battaglia di sole quarantott'ore.
Troppo poche, per i risultati che diede. Inoltre, ci fu una sproporzione enorme, e palese, per le cifre: appena 30 mila morti, e oltre 400 mila prigionieri. La nostra cavalleria aveva inseguito uomini che stavano vivendo una "loro" Caporetto, ma definitiva e letale per l'Impero. Racconta Montanelli che una lettera di Ugo Ojetti, scomparsa dal libro che riuniva le altre raccolte e pubblicate, ma che lui aveva visto e letto con i suoi occhi, raccontava che, mentre con voce commossa i compilatori dell'ultimo bollettino di guerra scandivano le parole finali, il miopissimo Diaz guardava ossessivamente le carte geografiche, esplorandole una ad una e mormorando nel suo colorito napoletano: "Neh, ma' sto Vittorio Veneto, addò c... sta?".
Comunque, fra Caporetto e V.V. (come da allora si è soliti indicare la "città della Vittoria") si rifece l'Italia. Cioè: la si rifece tra le trincee, la disfatta e la vittoria. Il Paese rinacque su una storia di ordinarie carneficine, di cui sono testimoni i monumenti ai Caduti presenti in tutti i paesi, anche i più piccoli, della penisola.
Compreso quello che una storia più tragica che grande ha alzato a Caporetto, o all'ex Caporetto, che oggi è oltre frontiera e porta un nome estraneo e forse rimosso. Kobarid ha seguito le sorti dell'Istria, la penisola che ha un muro nel cuore, passata com'è, per ragioni di politica internazionale, cioè in nome del distacco di Belgrado da Mosca, agli sloveni e ai croati. Su quei morti italiani, caduti per l'oltraggiosa inettitudine dei capi, resta soltanto la maledizione della sconfitta, mentre con quei settemila, con tutti i 70 mila di Caporetto, è necessario finalmente far la pace. E invocare il loro perdono.
Essi furono una parte, e non certo la peggiore, del conteggio dei costi della prima guerra mondiale. L'Italia ebbe 600 mila caduti sul campo e mezzo milione di mutilati. Ci furono province completamente devastate. Il disavanzo statale crebbe da 200 milioni a 23 miliardi di lire. L'inflazione si mise a galoppare. Il costo della vita quadruplicò. Lo spettro della crisi si profilò sulle industrie patologicamente enfiate dai consumi di guerra. La stessa Vittoria si disse "mutilata". L'impresa di Fiume era alle porte. Già nel 1919 si profilava il 1922. E nel 1922 si profilava il 1939. Perché, allora, dimenticare Caporetto?


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