Sin dalle origini,
e tuttora, l'immagine, l'ombra, il riflesso, il nome, l'anima, lo
spirito sono stati e sono sinonimi: rappresentano l'altro io, ovvero
il "doppio".
L'immagine mentale, che appare come la struttura essenziale della
coscienza, è una presenza vissuta ed una assenza reale, di
modo che l'oggetto è assente nella presenza stessa, confermando
l'esistenza della presenza-assenza.
La proiezione, o allucinazione, valorizza e spinge verso l'esterno
l'immagine mentale, attribuendole corpo, rilievo, autonomia, e realizza
l'incontro tra la più grande soggettività e la più
grande obiettività; nel punto d'incontro tra la maggiore alienazione
e il più grande bisogno, è l'immagine spettro dell'uomo,
cioè il suo doppio.
Da Hoffmann a Oscar Wilde, da Raimund ad Heine, da Maupassant a Jean
Paul, da Edgar Allan Poe a Dostoevskij, ed altri, il tema del doppio
è stato oggetto di descrizioni e di studi nella specifica luce
della psicoanalisi, trattato come patologia della psiche o malattia
dell'anima.
Nel suo saggio Il doppio del 1914, Otto Rank, discepolo di Freud,
ha mostrato, dissentendo dal maestro, che, fin dalle sue prime manifestazioni,
l'uomo ha avuto, nel suo immaginario sociale oltre che individuale,
l'esigenza di configurare, non già come patologia, l'esistenza
di un altro lo autonomo e attivo, quindi interattivo, in quanto la
realtà è, invero, rappresentata dal loro reciproco rapporto.
Apprendiamo, così, che in Tasmania lo stesso termine indica
l'ombra e lo spirito; che per gli indiani d'America, Algonchini, l'anima
è un'ombra e per gli Arawachi neja significa ombra, anima,
immagine mentre per gli Abiponi loakal è ombra, anima, eco,
immagine, che per alcuni indigeni d'Australia vi è un'anima
del cuore ed un'altra anima nell'ombra e presso i popoli della Nuova
Guinea arugo è lo spirito o anima del defunto come anche ombra
e riflesso e che per gli indigeni delle isole Figij yaloyalo (ombra)
deriva da "yalo" (anima); che in Omero l'uomo ha una duplice
presenza sulla terra, una nella sua apparizione sensibile, l'altra
nell'immagine invisibile che si libera solo con la morte e che l'immagine
ripetitiva dell'Io si ritrova nel significato originario del genio
dei Romani, dei frovauli dei Persiani e del ka degli Egizi.
Per Spiess, riguardo ai popoli civilizzati, e per Fraser, per quelli
primitivi, la credenza dell'anima si collega alla morte, regno delle
ombre. Gli autori e le espressioni religiose, mistiche e artistiche
conosciute rilevano e rivelano la originaria e comune esigenza di
ipotizzare l'esistenza del secondo Io.

La fotografia, con la propria tecnica, è stata ed è
lo strumento con il quale è stato possibile "materializzare"
l'idea del doppio, e tutte le virtù insite nella fotografia
hanno permesso di definire la "fotogenia" che, secondo Edgar
Morin, è "quella qualità complessa ed unica di
ombra, di riflesso e di doppio che permette alle potenze affettive
proprie dell'immagine mentale di fissarsi sull'immagine frutto della
riproduzione fotografica", ovvero è "ciò che
risulta dal trasferimento nell'immagine fotografica delle qualità
proprie dell'immagine mentale e della presenza delle qualità
di ombra e di riflesso nella natura stessa dello sdoppiamento fotografico".
La fotogenia è l'estremo aspetto poetico degli esseri e delle
cose (Delluc), tutto ciò che accresce la sua qualità
morale e che risulta maggiorato dalla riproduzione fotografica; è
l'embrione di una chiaroveggenza mitica che fissa sulla pellicola
non solo gli ectoplasmi materializzati, ma anche gli spettri invisibili
all'occhio umano, rivelando qualità di cui l'originale è
sprovvisto.
Così l'immagine fotografica che è fisica e materiale
risulta dotata e ricca di qualità psichiche, affettive ed emozionali.
La potenza affettiva dell'immagine fotografica viene poi arricchita
dall'arte, cioè dalla qualità emozionante della fotogenia,
qualità latente del doppio.
L'immagine fotografica può, quindi, essere più vera
della natura e più viva della vita, perché essa somiglia
al prodotto più spontaneo e universale dell'immagine mentale
e del doppio.
