§ SCRIGNI DEL SALENTO

MEMORIA DEL MIO VENTUNENNIO MAGLIESE (1913-1930; 1938-1942)




Oreste Macrì



Retrocedendo alle origini della mia "dimora vitale", mi accingo, non senza trepidazione, a questa mia terza memoria dopo la decennale parmense (1942-1952) e la semisecolare fiorentina (1931 [ ... ] 1994).
Sono nato il 13.3.1913 nel punto d'incrocio del 40°, 2' parallelo e 18°, 18' meridiano (mia strana preoccupazione sin da bambino dell'hic et nunc, ossia del punctum esatto geofisico, aggiunte ore 5 d'una domenica, d'ogni mio stare-al-mondo). Ho dato le coordinate d'una cittadina, Maglie, del basso Salento tra gli assi Lecce Leuca e Otranto Gallipoli, linguetta peninsulare salentina di km. 220 per 50. Terra piana e piatta, segnata da lieve spina collinare delle Murge estreme, prona agli elementi, ventosa, se non immota d'aure contrarie, solare e marina, di brevi rigidi inverni balcanici ed afose estati africane in esse case-grotte a lammie di forte pietra leccese e pariti delimitanti gloriosi uliveti e vigneti: "Apulia petrea".
Vi nacque 3 anni dopo di me l'insigne uomo politico Aldo Moro casualmente, da maestro elementare barese, donde gli amici celiavano sui due ermetismi: il suo politico e il mio letterario; in conclusione perdemmo la Regione Salentina contemplata nella Costituente, sì che "le Puglie" (almeno 3) diventarono e sono l'unica e sola "Puglia", restando tra poco di dovere fornirmi di passaporto, quando, attuate le secessioni, io debba tornare a Firenze seconda mia patria.
La mia terra per millenni è stata sempre di transito e di emigranti: messapi, illiri, japigi, greci, bizantini, ebrei, svevi, angioini, normanni, arabi, turchi, spagnoli, albanesi, ecc. La mia Maglie da tempo immemorabile ha lo stesso numero di abitanti. Tale molteplicità di genti e famiglie la rese mite e ospitale e gradevole. Qualche turco rimase a Otranto dopo la presa e la cacciata del 1480. Vecchi di Montesano Salentino ricordavano il Momsen seduto a studiare sotto un immenso ulivo di mio nonno materno. Il Rohlfs, amico e ospite di Germano Torsello, frequentava ad Alessano la farmacia di mia sorella Bianca. A Maglie si trattenne Pietro Pellizzari, padre di Achille, risuscitando il folclore indigeno. A Cursi, mio paese paterno, ci sono una via Ghetto e un Largo Alogne (da a luene spagnolo), di certo traccia di fuggiaschi sefarditi. Pullulano cognomi magnogreci come Palamà (Giovanni, mio compagno di liceo), Marti (Mario, illustre italianista, caro amico), Panarese (lusitanista), Pisanò (Gino, interprete di miei raccontini), Calò, D'Alema (salentino? "astuto"). Greco è anche il mio cognome; un famoso attore di Atene si chiamava come me, Oreste Macrì, mi ha detto l'amica greca Margherita Dalmati. Da ragazzo vedevo il porto di Otranto gremito di cesti di vimini e asinelli albanesi. Da qualche anno è ripresa l'emigrazione di poveri fuggiaschi dall'est. Nella mia bella pineta otrantina sulla costa, il Calamuri, ho trovato di recente vecchie valige e scatoloni sparsi. Eppure, l'assimilazione e sedimentazione sociale, linguistica, culturale e di costume è stata giusta, coerente e armonica in grazia di un'antica compenetrazione e fusione greco-latina, assimilatrice degli altri elementi socio-linguistici. Si badi bene che quanto sto enarrando si argina prima dell'avvento delle infami organizzazioni criminali ben note, prima convenute per convegni da altre regioni meridionali, quindi stanziatesi in perpetuo. Trista e inopinata conseguenza dell'accennato nostro spirito ospitale e generoso!
Su Maglie quest'anno (1995), frutto di annosi studi e ricerche in ogni campo, è uscito un poderoso ed esaustivo volume di Emilio Panarese, riccamente illustrato, edito dal valoroso nostro editore salentino Congedo: Maglie.- L'ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare, Galatina (LE) 1995, 490 pp. Per l'istruzione pubblica, il lavoro e le confraternite, cui accennerò, si vedano i capp. X, XI e IV. Per la gente del Macrì, compreso il sottoscritto, si veda l'indice dei nomi. Presso lo stesso editore il volume di Gino Pisanò, Contributi alla storia delle biblioteche salentine / Le comunali di Maglie e Gallipoli, stesso anno. Tale libro trascende il mero titolo di biblioteconomia: lungo e dentro la cronaca e descrizione essenziali delle biblioteche magliesi è tracciata la storia della cultura della mia città, per sé e in relazione con i maggiori centri peninsulari ed esteri dal 600 al 900; principale del luogo il Ginnasio-Liceo Capece, eminenti due presidi: il detto Pietro Pellizzari e Salvatore Panareo, maestro coi maestri che tra poco ricorderò.
Le educazioni familiari dei miei genitori si svolsero tra loro in senso molto diverso, se non opposto. Mia madre, donna bellissima in lunga veste ottocentesca, eretta in antico busto a stecche e abbondante chioma bombata, crebbe fragile e delicata, sotto l'occhio vigile, preferita, del padre cattolicissimo di rigida morale gesuitica, autore di libelli antivolterriani (uno s'intitolava Del pensiamoci bene). Ella con gli anni si andò allontanando da noi, in sua solitudine, smarrita in se stessa. Loro dimora, in un paese verso Leuca, un palazzo quasi andaluso, chiuso all'esterno, aperto ai cortili, forni e giardini, non senza chiesetta con proprio matroneo.
Mio padre, all'incontrario, aveva carattere estroverso; era laboriosissimo, agrimensore alla lettera, con la sua vita nei campi, gomometro e palme a colori, lenza arrotolata e srotolata, al servizio di amici e parenti. Sovente mi conduceva seco sulla canna della bicicletta, prima della moto Mas. Da lui apprendevo, mi si perdoni l'accigliato sintagma, l'etica del lavoro. I miei occhi infantili già s'impressionarono al rigore e nitidezza, all'inchiostro di china e netti colori, di sue mappe topografiche, con arnesi di compassi, squadre, righe, tiralinee su un grande tavolo, sorretto da cavalletti; esattezza ed eleganza della calligrafia su disegni e perizie. In quei tempi la professione di geometra era quasi un'eccezione, stando l'Istituto Tecnico nel capoluogo, dove Gustavo fu mandato, condiscepolo di Achille Starace, dopo il fallimento degli studi ginnasiali-liceali. Mio padre divertito ci raccontava lo scacco subito.
Gli era professore del Ginnasio magliese tale padre Indirli gesuita; all'esamuccio di seconda chiese al piccolo Gustavo: "Declinami plus". Mio padre si strinse le meningi e poi azzardò: "Plus, pla, plum". E padre Indirli: "Cusì te face lu culu, fiju meu", mentre gli apriva e chiudeva sotto il naso le dita in alto aggruppate della destra mano.
Era don Gustavo vorace lettore di romanzi, dei quali soleva leggermi dei brani, oltre che raccontava di vicende e memorie della sua vita. Rammento i briganti di Nicola Misasi e Gianni Lupo di Richepin, standomi a letto, dato che ogni 3 o 4 mesi ci ammalavamo tutti d'intossicazione intestinale, donde l'olio di ricino. La causa era il "coppo", recipiente maledetto di terracotta, in cui si versavano e conservavano gli oli cotti e stracotti, uno dei motivi, se non il maggiore, della nostra decadenza dopo Federico II, come quella di Roma per il piombo negli acquedotti, contro il solfato di magnesio, che fu segreto e risorsa dell'impero britannico. Non sto scherzando, almeno simbolicamente.
L'altro esempio, ma il medesimo sostanzialmente, della sopradetta etica del lavoro, mi era dato dalla intensa e generale attività artigianale del mio paese. Piccole maestranze e scuole popolari operavano parallelamente e di conserva: scuola regia popolare operaia per arti e mestieri, scuola tecnica, scuola industriale, avviamento al lavoro quasi attigua alla nostra casa, scuola di ricamo, scuola per scalpellini; ebanisti come i Piccinno fornitori della Real Casa, ferro battuto, merletti, intagliatori, carrozzieri, mercato del sabato, ecc. Gli stessi artigiani si riunivano in confraternite, sfilando così il popolo, sin dalla remota fusione protocristiana di pagi e parrocchie, in processioni e cortei funebri.
Quei miei 17 anni dall'infanzia alla prima giovinezza trascorsero così, industriosi, pacifici e solenni. Noi magliesi eravamo chiamati "passareddri" per la nostra minuta e rapida operosità, rispetto agli "scacati" di Cursi e ai "cucuzzari" di Scorrano. Gli strati sociali - non classi, data la caratteristica comune di sommo rispetto e dignità - della borghesia e nobiltà mandavano i figlioli al ginnasio-liceo Capece, fondato dalla signora Francesca, seduta con bambino, marmo di Bortone, nella piazza centrale. Io vi accedetti novenne dopo 4 anni di elementari. La cultura scolastica umanistica restava per noi ragazzi politicamente astratta, di riflesso dal comportamento coatto dei nostri insegnanti, che si attenevano per sé e per i figli a un mero formalismo nei riguardi d'ogni inquadramento nel regime vigente (balilla, avanguardisti, esercitazioni paramilitari, mistica e sabato fascista, saluto a mano levata, il "voi", ecc.); il tutto reso meccanico e di routine. Si viveva come in uno stato di fatto pietrificato, asettico e indolore. Peggio (per il regime, naturalmente) all'interno delle nostre famiglie, ancora per inerzia nella corrente sentimentale risorgimentale-unitaria della patria.
Nulla di politico in nostri discorsi e conversazioni. Solo, di quando in quando, mio padre, di ritorno da Lecce, dove con altri proprietari era chiamato in federazione, entrato in casa con furore quasi di rapinato, contro il suo carattere bonario, esclamava: "Io ancora ho avuto... l'onore di offrire al fascio lire mille". Ho detto astratta l'educazione umanistica, eppure vitale in qualche maniera. Ad es., il professore d'italiano al liceo si rifaceva enucleando ed esaltando i tesori morali e politici dei grandi poeti: Dante, Petrarca, Ariosto, Alfieri, Parini, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Carducci. Questo l'insegnamento mediato e indiretto dei nostri gloriosi licei meridionali. Mi attengo, naturalmente, agli anni entro il '38; da tale anno fatale le intellighenzie locali cattoliche e liberali si arresero, quando il regime diventò totalmente totalitario. Né ho ricordi di malversazioni squadristiche o sanguinosi tumulti. Nazionalisti, sì, molti reduci, specialmente gli arditi.
In quei tre anni di liceo mi iniziai alla scienza letteraria. Per primo rammento il mio venerando, pur giovanissimo, professore di lettere classiche, Vincenzo Scordamaglia da Parghelia in prima nomina, discepolo di Manara Valgimigli. Soprattutto grecista, ci familiarizzava con le edizioni Teubner, scoli e varianti, tropi, etimologie, filologia sempre integrata con la storia, costumi, leggi, vita quotidiana... Peccherei di falsa modestia se celassi la mia grande attenzione e impegno e gusto; ma tutti e 10 alla fine fummo approvati. Mio ricordo non meno grato verso il professore di filosofia Antonio Della Rocca, pur fascistissimo, prodigioso d'ogni memoria di poesia italiana e latina. Usava iniziarci all'insegnamento, facendoci salire in cattedra, e io ebbi ad esporre Platone della Apologia di Socrate e i Discorsi di religione di Gentile. Grande il mio entusiasmo, fin da piccolo fingendomi insegnante; come Santa Teresa fanciulla allestiva altarini e messa, così io riunivo fratelli e amici, e... insegnavo. Della Rocca non dava voti, se non costretto, alla fine, con noi in rapporto paritetico; imparare dai discepoli, come ho praticato sempre lo stesso. Ho accennato al professore d'italiano, si chiamava Pasquale De Lorentiis, liberale alfieriano, e anche paleontologo di grotte salentine da lui scoperte e studiate: pure lui signore e nostro amico.
L'impianto logico-grammaticale mi fu fornito sin dal ginnasio inferiore, fondamentale d'ogni nostra cultura, sostanzialmente immutato fino agli anni Cinquanta nella nuova dizione di Scuola Media, che corresse l'ignobile aggettivo "Inferiore". Il professore delle quattro materie letterarie si chiamava Raffaele Cubaju, dilettandosi perfino di poesia portoghese. Nell'àmbito d'italiano e latino si atteneva rigorosamente al tradizionale metodo aristotelico-portorealista della "analisi logica", connessa alla grammaticale; quindi congiungente le due lingue dell'italiano e del latino. Consisteva nella stretta relazione tra categoremi grammaticali o parti del discorso (sostantivo, aggettivo, pronome, sostantivo e aggettivo, avverbio, interiezione), fisse e immutabili anche nelle trasformazioni transcategorematiche (da aggettivo il sostantivo, come "il rosso, il buono") e le varie funzioni logiche di ciascuna di esse parti (soggetto, predicato, complemento). Omologa a questo impianto logico-grammaticale della proposizione era l'analisi periodale, sì che al sostantivo nelle sue funzioni di soggetto e complemento oggetto corrispondevano le proposizioni sostantivali (soggettive e oggettive), di complemento vario le funzioni avverbiali, di aggettivo le funzioni aggettivali (proposizioni relative), ecc. Ricordo l'Analisi logica del Pasquetti.
Tale grammatica fu ancor più regolarizzata dagli ideologisti, che noi seguivamo negli esercizi di trasformazione delle costruzioni iperbatiche non solo latine (es., Iliade, tradotta dal Monti) in dirette, contro il mio futuro vichismo della primitiva espressione fantastica. Si aggiunga l'iniziazione alla sinonimia, ai campi semantici, alle figure retoriche, a qualche simbolo patriottico, alla metrica (molta poesia a memoria, scansione dell'esametro). Tale educazione logico-grammaticale si saldava agli elementi di aritmetica e geometria in terza classe, nonché alla parte matematico-astronomica della geografia con nostri sguardi a un mappamondo troneggiante in classe. Dimenticavo la somma importanza assegnata alle date dei grandi avvenimenti storici. Rammento tale grammatica che cominciava dal cielo: sostanze o cose (sole, luna, stelle), qualità oggettive (luminoso, buio, ventoso), azioni (stasi, essenza e movimenti), donde il sostantivo, l'aggettivo, il verbo e loro variabili funzionali. La nozione del pronome restava in ombra, non essendo qualità della cosa, la quale si numera con altre e può essere adespota (qualche, nessuno ... ). Da professore medio, un alunno mi portava il suo calamaio: "Di che colore è l'inchiostro?". "Nero, professore"; lo mandavo nel corridoio e stessa domanda. Risposta: "Sempre nero, professore". "Questo è aggettivo". Lo stesso calamaio diventava suo, ossia pronome, se l'alunno lo donava a un compagno. Questo per evidenziare la reale concretezza di tale dottrina cosmico-grammaticale, basilare iniziazione alla stilistica.
Debbo al professore Vincenzo Scordamaglia la pubblicazione dei miei primissimi scritti, come sull'Oreste dell'Alfieri e sull'Infinito di Leopardi, in un giornaletto intitolato Didascalos. Lo stesso mi soccorse al cominciamento della mia biblioteca. Avevo formato una piccola tertulia con Luigi Panarese e mio cognato Mario Portaluri. Scoperti i grandi della "Voce": Papini, Soffici, Rebora, Palazzeschi, Jahier, Boine, Campana; miei primi tentativi narrativi alla scuola dei meridionali Verga, Capuana, De Roberto, ancora remoti gli umoristi inglesi e americani (Swift, Mark Twain).
Infine, un cenno sugli anni seguenti, almeno i paralleli ai corsi universitari del '42 della mia andata a Parma, sempre sul soggetto del Salento, dove tornavo per le vacanze maggiori ed estive. Ho scritto a lungo sulla mia amicizia con Bodini, Girolamo Corni (nostro "Albero" da anni in quarantena), Vittorio Pagano, Michele Pierri. Nuovi poeti sono apparsi negli ultimi anni: Salvatore Toma, Stefano Coppola, Donato Moro, Fra' Luigi De Donno. Sulla poesia di E. U. D'Andrea ebbi a elaborare la mia teoria delle quattro radici della poesia. Oltre alla rivista "L'Albero", rammento "Vedetta Mediterranea" con Bodini, il "Critone" e collanina di Pagano, "Libera Voce" di Cesare Massa, fogli ai quali collaborarono fiorentini e parmensi, in quel geografico triangolo della mia vita. Ospitale per lunghi anni fu la casa baronale di Girolamo Corni. Ivi e nella rivista m'incontravo con cari amici, dannati come me alla critica: Donato Valli, Mario Marti, Antonio Mangione più tardi. Fiorì anche la poesia dialettale con Nicola De Donno ed Erminio Caputo, con nuova valenza folk e universale.
Ultima, non ultima, Maria Corti, magliese d'acquisto, allieva di Benvenuto Terracini, è autrice d'uno dei più belli e rari nostri romanzi di questo secolo, l'otrantina Ora di tutti, fra "Idrusa" e "Nachira" intimamente coniugati leggenda e storia, martirio e amore, epica e vita quotidiana, realtà e simbolo. Soleva prendere un trenino da Maglie a Otranto e scrivere ivi, come me la immagino, nel mio Calamuri, poi pinetizzato, sotto la Torre del Serpe, in vista dell'Adriatico e degli Acrocerauni albanesi. Torno di quando nel mio bosco, con pena alla vista di poveri indumenti e cartoni abbandonati da fuggiaschi albanesi, armeni, curdi.
E altra mia cara amica ho rammentato, la poetessa greca e clavicembalista Margherita Dalmati, traduttrice di nostri poeti, già insegnante in Italia e militante nella resistenza del suo paese. Puntuale d'estate viene a trovarci a Firenze, ospite delle sorelle Bemporad, figlie del famoso editore.
Prova del giovamento ricevuto dall'insegnamento ginnasiale e liceale di tipo materico-verbale-grammaticale la ebbi nella elaborazione della tesi di laurea sulla poetica di Giambattista Vico. Rammento in particolare lezioni-letture di De Lorentiis su ritorni di certi vocaboli nella Divina Commedia, nonché un testo eschileo filologicamente smontato da Scordamaglia; e il gusto della parola poetica letta, anzi recitata da Della Rocca. Sulla filosofia del Vico disponevo d'una vasta bibliografia, raccolta dal Croce, in particolare della eccellente monografia del medesimo oltre che degli studi gentiliani. Ma sulla parola vichiana nulla o quasi, imperando la linea concettuale e ideale. Non mi restava se non lo stesso testo della seconda Scienza Nuova con il commento di Niccolini. Per farla breve, nelle torride estati del 1933 e 1934 intrapresi a compilarmi il dizionario di sostantivi, aggettivi e verbi, attento a congiungere sempre determinato e determinante (ossia sostantivo e suo attributo, ecc.). Insomma, andai a scuola dello stesso Vico. Nel raccogliere alcuni vocaboli, come conato, caratteri, i simboli di Giove e altri numi, anima, mente, fisica, forma, materia, ecc., mi accorsi che non era vero il Vico avere eliminato nella Scienza Nuova la metafisica del De antiquissima Italorum sapientia, opinione che si richiamava alla lezione che il Vico aveva ricevuto dagli empiristi inglesi, se non ai trascorsi giovanili con epicurei e atomisti; vero è, invece, che essa metafisica si era immanentizzata, ossia umanizzata nella certezza storica e "filologica" (in senso vichiano) del verum et factum. Tali studi, purtroppo, non li ho continuati dopo detta tesi di laurea, della quale un lungo estratto, pubblicato nel "Convivium" di Calcaterra, fu onorato di segnalazione del Croce nel Settimo supplemento alla bibliografia vichiana. Fui preso dal demone letterario sub specie critica per convergenza di vari influssi dello stesso Vico (l'universale fantastico, Omero, Dante, poeti teologi, lingua e poesia), valore e funzione della poesia nei grandi filosofi romantici (Hamann, Schelling, Hölderlin), il sodalizio coi poeti e narratori nel quatriennio fiorentino 1938-1942.
Insomma, ero ricorso alle concordanze della lingua vichiana prima che Contini esortasse gli Italiani ad esse e che Giuseppe Savoca le allestisse nei lessici dell'editore Olschki, dedicati ai poeti del nostro Novecento.
Restino come in appendice i 4 anni trascorsi nella stessa Maglie dal '38 al '41, come se poeticamente non siano mai esistiti. Ho accennato a quel terribile '38, segnato dal totale regime, persuaso il dittatore all'alleanza con Hitler e alle leggi razziali. Il 10 giugno 1940 ascoltai in quella piazza della signora Capece in marmo col bambino la voce tonante e perentoria della dichiarazione di guerra col finale "Vincere!". Rammento il popolo ammutolito eccetto qualche raro applauso; sì conferenze di pochissimi professori convertiti nei cosiddetti sabati fascisti, peraltro non imposti dai presidi.
Intenso e fruttuoso si svolse e continuò senza contrasti l'insegnamento scolastico; si fondava la nuova scuola media, come ho detto, senza modifiche sostanziali. Permanevano con gli scolastici gli affetti e interessi umani, familiari, parentali, amicali. Fruivamo del vantaggio di essere "abbandonati" dai poteri centrali in quel cul-de-sac della patria.
Detti affetti mi furono propizi a un intimo studio, fervido e monastico, dei saggi e articoli che confluirono negli Esemplari del '41, continuati nell'anno seguente, raccolti in Caratteri e figure del '56 coi parmensi e i nuovi fiorentini. Dal '38 il mio primo orientamento verso l'area iberica, concertata con l'italiana e la francese: una nota nel '38 a Poesie di R. Alberti tradotte da Panarese, e subito, nel '39, la versione dell'Ode a Salvator Dalì di Lorca.
Il maggior beneficio e coraggio lo ricevetti dalla mia collega, Albertina Baldo, mia sposa nel '42 e compagna di vita per anni 52; ad essa dedicai il mio primo Machado lericiano.


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