§ PER ANTONIO L. VERRI

LETTERE PER L'ALTRA RIVA




A. B., A. E.



La collana "Conto aperto" di questa Rassegna si arricchisce di un nuovo volume: è comparso il romanzo postumo "Bucherer l'orologiaio" di Antonio L. Verri, con introduzione di Aldo Bello e Antonio Errico. A questa pubblicazione, tra l'altro, è stato dedicato un incontro organizzato da "Apulia" e dall'Assostampa di Lecce, che si è tenuto sabato 3 febbraio u. s. presso la sede del CRSEC di Lecce e al quale hanno partecipato, con personalissime testimonianze, Aldo Bello, Ennio Bonea, Lino De Matteis e Antonio Errico.
Ampia la partecipazione del pubblico e l'eco dell'avvenimento sulla stampa e le testate giornalistiche televisive locali.
In ricordo dell'Autore, dell'amico e del collaboratore tragicamente scomparso, riportiamo alcuni stralci delle prefazioni e alcuni passi illuminanti degli ultimi due capitoli di "Bucherer l'orologiaio".


IL MERLO ERETICO

Aveva occhi obliqui in cima a una barba sefardita e sapeva allineare tre rughe sulla fronte pallida. Il timbro abissale della voce era di quelli che mettevano subito in guardia: diceva parole sicure come querce. Aveva anche gesti che passavano sopra tutti, più in alto di tutte le spanne messe insieme. Ad altezza d'uomo, invece, era forza d'urto, d'invasione, di assoggettamento. Ondulare e magnetico, non conosceva resistenze anodiche e trascurava ambiguità compiacenze degnazioni e altri provincialismi...
Un giorno rivelò un segreto. "Ho un merlo ... ", scrisse. Un merlo impettito, attento, goffo che salutava levando il canto "quasi con ferocia, come se avesse necessità di alzare il tono per dimostrare chissà quale innocenza, quale dolcezza o verbosità". Forse il suo - del merlo - era "un controllo amoroso su tutto ciò che accadeva in casa".
Un merlo disertore che stendeva romanzi e racconti, distillava poesia, progettava saggi; un merlo eretico che si rapportava a scrittori, artisti, musicisti che gli dovevano molto, e alcuni proprio tutto, che coinvolgeva editori e stampatori, che metteva al mondo giornali impossibili e pubblicava autori densi e grafomani insensati; che fra cuore e testa aveva una gran ragnatela, e in quella erano rimasti impigliati amici ispano-americani, medio-orientali, mitteleuropei, est-europei, afro-asiatici e naturalmente italiani...
Morirò fra tre anni, ripeteva. Noi non stavamo a quel gioco. Ma lui continuava a dire che sarebbe immancabilmente morto entro tre anni. Ci vuol mettere fretta, non paura, pensavamo. Viaggiava con una utilitaria catastrofica, ma un giorno decise di prendere la littorina per andare in nessun luogo: un percorso adolescenziale, si giustificò. Arrivò fino a Gagliano del Capo, gli passavano per gli occhi immagini di terre sassose e di stazioncine rosse, il tam-tam delle rotaie e la brezza di collina gli rimescolavano il sangue, chissà che mari e che pianure avrà sognato quel giorno, mentre dalla geografia minima del viaggio estrapolava reperti di storia e di poesia. Aveva certi suoi pudori invalicabili e non era incline alla confessione. Dovette proprio fidarsi se in un momento quieto mi disse che aveva scritto i Trofei, che sarebbe morto comunque entro tre anni e che qualche cosa, un alito, un vento, un'ombra doveva pur restare perché uno non può morire proprio del tutto. Qualcosa che vaga per l'aria, disse. Una presenza, insomma, volatile come un verso, una sillaba, un suono senza suono. Un'anima? Che conta definire, ma devono essere quei miliardi di versi, di sillabe o di suoni senza suono che fanno ancora respirare il mondo.
"Chiudo il becco al merlo", diceva. Sapeva rientrare nel più stretto riserbo anche dopo avere scagliato una pietra così. Allora tornava sulla terra e si rimetteva a progettare. Erano ore di giorni brevi e non dava respiro: un quotidiano dei poeti per dare un nome all'elogio della pazzia; una rubrica su ciò che avresti voluto scrivere e ti è rimasto dentro la penna; una testata intitolata al refuso; scrivete fogli di poesie e fatene degli orgogliosi vagabondi; orniamo di collane il corpo agro di questa terra, quaderni, spagine, abitudini, mail fiction, diapoesitive, mascheroni, compact type; alziamo una fondazione; scriviamo, discutiamone, ciascuno di noi ha dentro qualche cosa che non ha avuto il coraggio di mettere nero su bianco; liberatevi, liberiamoci. Ma non sarà un poco come morire? Appunto: gli uomini muoiono sempre per qualcosa, non si sa quale, ma che deve essere molto importante, altrimenti vivrebbero...
Era la sua ossessione e tiravamo tardi. Sul lungo viale foderato di aghi di pino d'Aleppo le chiome sembravano quiete, ma di tanto in tanto dalla mano di tramontana calava il gheppio, ghermiva un passero addormentato, appena un grido e via. Di nuovo silenzio. Anche se i diversi rapporti si centuplicassero, il nostro vero bene risiederebbe sempre nella natura? Pensa alla lingua grica, diceva: non conosce i termini astratti, le parole (anche cuore, anche amore) e i numeri e persino le ingiurie: tutto concreto, sostantivi col corpo che vive, con gli occhi che vedono, con le mani che ghermiscono, con le gambe che camminano... Quel gheppio puoi chiamarlo fame o caccia o selezione naturale; oppure natura o destino. Ma è concreto come sa esserlo soltanto la morte...
Aldo Bello


DI STEFAN, DEL SOGNO DI UN DECLARO

Aveva un sogno Stefan, come Gustave. Un sogno: un libro profondo e immenso, smisurato, che fosse tutto e nulla, riflesso e inconsistenza, nuvole e macigno. Perfezione.
Sognava un libro, Stefan: una forma gigantesca, gravida di corpi, di linguaggi, di silenzi e voci, di segni d'ogni sorta, insegne luci balbettii colori. E poi brusii, poi ritmi affannosi o pacati, che fossero respiro, palpito di cuore.
Dev'essere Declaro il libro, pensava, dev'essere digressione, iterazione, fuga, armonia e disarmonia, eco e risuonanza. Senza tempo dev'essere, né luogo: ché il luogo è il raggrumo di tutti i possibili luoghi, accartocciamento di mappe, falsificazione di atlanti, pensabile, inesistente. Forse solo descrivibile.
Guisnes è il luogo. Città senza porte; città che si muove, si agita, sussulta, viva, aggressiva, sempre immobile e cangiante, sventrata, lussuriosa, opaca e luccicante, dolce e perversa, fetida e odorosa, corpo e idea, madre e prostituta.
Il luogo è Castro. Vuoto. Aria rossa, rappresa. Quattro spuntoni di torre. A strapiombo sul mare. Abbaglio. Bagliori. Terra melograna.
Otranto è il luogo. Storia. Memoria. Un nome, una ciarla, uno spasimo d'aria, posto di mare dove la morte (se viene) è come la voce sospesa, cautelosa di guitti assurdi e decollati. Così dice Stefan.
Il tempo del gran libro è un istante fluttuante tra millennio e millennio, è un tempo che dura per quanto dura il narrare, è un ritmo, il giro di una frase, l'ampolla di un vasaio. E' l'ordine del caso, il guizzo di un ramarro, vortice e vertigine, fine del racconto.
Il tempo è la ricerca del Grande Silenzio; è la Grazia che chiede, è il giorno che batte sui polsini della camicia, la Bellezza che geme nelle ore...
Come ogni grande scrittore che non sa distinguere tra la vita e la scrittura, Stefan aveva già visto oltre il suo presente, aveva già vissuto tutto il suo futuro.
Chissà se quella notte pensò la sua scrittura, se la morte gli somigliò alle storie profumate, al miglio stompato, ai crateri del cuore, ai gesti teneri e scoperti del padre, ai suoi corti avvisi, al pane.
Aveva un sogno Stefan: un libro di parole, stupide parole ma sonore, di quelle che delizian dint'oricla, parole in grossa rogna con la vita. Vuole parole, Stefan, da poterci caricare una nave, che sappiano tessere l'aria, costruire una forma, dare voce alle tombe sul mare, dire uno stupore, imitare un batticuore, raccontare di Sciaffusa, la smania del Declaro, del disertore, del padre, di Otranto, d'Idrusa, di scrittura, di poesia. Della madre: è vero, madre, posso poco / quasi niente, / ho potuto darti poco, madre / poco poco / un sorriso di rivalsa / le risposte il tacicuore; o scialba, scialba poesia, guasto poema / versi unici e inutili, non barbari / mia madre non dormiva, mi chiedeva / io continuavo carico di neve: / è dolcissimo tornare, madre / sai quanto ori venduti e in quanti posti...
L'estate maturava in un paese che ha il nome d'albedine, d'albasia, di chiarità, d'albòre, forse d'alba.
Disse Louise a Gustave: ritornare vuol dire riprendersi la scrittura, ritrovare quel senso che ti manca.
Ma non era quel senso che mancava a Gustave.
Come Stefan avrebbe voluto rispondere che era triste faccenda correre ancora dietro al suono delle campane delle Scalze, che tutto era così untuoso, a volte, sciroccoso, e a volte così fosforescente e lucido.
Avrebbe voluto dirle dei giornali di poesia fatti per illusione e per azzardo, delle notti che arrivavano sulle righe di un racconto; avrebbe voluto dirle che adesso sospettava il cattivo odore di cipria sudata nei salotti delle storie patrie, la nausea per le poesie recitate dai poeti di corte e di cortile, il ritorno dei commedianti di marine e di oratori.
Come Stefan avrebbe voluto parlare delle buffe università silenziose che si aprono a celle d'ombra, della muffa che si spande, del chiacchiericcio, del mercato.
Invece parlò di Magna Grecia, dell'albero della vita di Pantaleone, del Santo dei voli, di nuvole bianche, delle molte razze passate per queste contrade, di accademie e monaci sapientissimi, di Stefan, ancora... E avrebbe voluto dirle che le assenze aprono baratri, che tutto era cambiato. O che forse solo lui era cambiato.
Non disse nulla. Ma pensò che avrebbe avuto memoria lunga. Lunga.
Al lettore di Bucherer che non incontrò mai Stefan, che non conosce il Pane, i Trofei, il Naviglio, in qualche modo si dovrà spiegare chi fu Stefan.
Allora. Stefan fu un bambino alto, con la barba, che camminava lento, che arrivava dove molti altri non sono mai arrivati, dove molti altri non arriveranno mai; fu un uomo curioso di ogni fiaba, smarrito nel bosco di letture e di scritture, che aveva cuore di vecchio contadino e pensiero di raffinatissimo intellettuale.
Stefan fu il padre di una generazione stupenda che non ha vinto nulla, né cattedre, né premi, né mortadella alla cuccagna, perché non ha saputo vender parolette al mercato dell'usato, perché non ha voluto arrampicarsi al palo ingrassato.
Fu poeta facitore di versi incantevoli, narratore di storie fascinose, maestro di scrittura, complice di sogni e d'avventura, amico fraterno che non potremo mai dimenticare.
Stefan, ora, è un racconto.
Antonio Errico


DA "BUCHERER L'OROLOGIAIO"

18
Nella Valle dell'Angelo sono così lievi e persuasive le trasformazioni, i cangiamenti; è così facile sganciarsi da una vicenda, navigare in altre storie, tenere un personaggio, poi esserne la sua ombra, esserne il cattivo odore, esserne il suo troncone, esserne una cicalata, una verbosità, un cencio; è così facile rovistare nei racconti per cercarne la bellezza, il rango, il punto in cui bisogna fermarsi; è così facile essere lo sterco, la storia, un prolungamento, un presagio, il preambolo, l'epilogo, l'avvisaglia, le pedate, le abitudini.
Tenere dei personaggi nelle loro storie, in altre storie, lo stretto necessario in una piazza, in un acquario, in una gassenzimmer, nei luoghi dell'angelo, cangianti, instabili, minacciosi... così è Sally nel suo frugare nelle frasi, nei suoi paradossi, così è Bucherer nella sua impresa, nei suoi gesti, nella sua nudità e caduta...
A volte si lega il condor sul toro. Balli, alcool, torelli sui tetti, antichi crocefissi nelle cui vicinanze si sostenta la Mosca come una spugna, roccia pizzicata da Zebel, città divorate, che si divorano, che rinascono eccitate dall'umidità delle cavalle. L'angelo che sosta in uno sberleffo, avvinghiato ad una trasparenza, avvolto negli intestini, catturato da un fermento. Si beve moltissimo. Il condor è tenuto fermo al centro della piazza: alla fine della festa riprenderà il volo per andare a riferire agli dei della montagna. Si mimano i vecchi conquistatori, ci si burla di loro, della loro fede. E il condor apre finalmente le grandi ali. Una banderuola appesa. Qualcuno che continua a gridargli dietro, a supplicarlo...
Il mio gatto batte la coda sulla neve e mi guarda. C'è in me riverenza. I suoi occhi passano come cristalli. Bucherer sta per cadere, titanico, inattaccabile. Hallucigenia e Opabinia che folleggiano in una città che non hanno né amato né servito. L'angelo che si spara sulla pancia e sulla gola di Bucherer. Come una zagaglia. Forse si dissolverà.
C'era una volta una città, e nel cuore di questa città una gassenzimmer, e nella città un fiume, e sul lungofiume un acquario, e nell'acquario un arco, e accanto all'arco una casa rossa, e attorno alla casa degli alberi di ciliegio e poi una valanga di ciotoli e fango, dei soffi potentissimi, dei pilastri divelti, treni rovesciati, bus squarciati, plastiche fuse, arabeschi, crateri enormi, caseggiati scoperchiati, chalet risucchiati, un mare di fango che inghiotte di tutto, una luce frenetica, delle regole che non servono più...
E accanto a tutto questo c'è un'Arca, una sfera strapiena di oblò. Da uno di essi si ha accesso all'interno con una scala che va a decrescere verso il centro. L'ultima pedata taglia un cilindro posto nel mezzo della sfera. Intorno al cilindro, a piani sfalsati, tutta l'attività interna. Oblò sul cilindro, nella stessa direttrice di quelli esterni. Nella parte inferiore un deposito di residui che danno stabilità...
E' il sogno di Lanzillotto, è una salvezza insperata (ma chi far entrare, quali promesse rinnovare?), è un metodo, una rappresentazione, è la grana della voce, è un foruncolo, una eruzione, un pasticcio, è la proiezione di una misurazione angelica, addirittura il rifugio degli angeli e delle ombre, una ghiandola mostruosa, una giornata che trattiene il fiato, una forma esaltata, una parola che gonfia, l'incredulità stessa che s'arrotonda...
Bucherer si stava allungando sulla Niederdorf. L'ombra si sarebbe adagiata sulla terra. La terra fortanent si tremà.

19
Come fermarlo? Potrei scaraventargli addosso la mia isola, pensava il dio fiume, potrei bloccarlo con un colpo di tirso, o farlo pungere da uno scorpione, potrei poi scorticarlo. Una corazza con la sua pelle d'umido cuoio. Oppure, con i piedi sulla testa del gigante, sussurrargli l'errore, la follia, sussurrargli di quando l'ora geme o impazzisce.
Ma perché fermarlo? Il dio del fiume stava ingoiando di tutto. Stava ingoiando l'acquario e l'Arca, i curiosi intorno, e poi l'arco, la grande Mosca. Tutti, tranne l'angelo... Perché fermarlo? Una nuova lotta col gigante? Ma via. Li avrebbe mutati in uccelli, oppure in alberi, in sassi. I sassi non sentono l'alba, non sentono il giorno, l'acqua bollente, non sentono gli obblighi, le soppressioni, le leggende, i silenzi, non sentono i bus, gli urli delle sirene, non sentono Ayse mentre lavora l'osso di seppia. Sassi, proprio sassi, sassi che non sanno distinguere una capra da un leone, un demone da una donna abbandonata, il bianco dal nero, sassi che nessuna Chere mai assalirà, che nessuna Chimera potrà mai sciogliere, sassi, tutti sassi, estranei, inauditi, sassi, dico sassi, non pirati, impiegati, emblemi, muggiti, insanie, sassi, non ombre, non segni, non trasparenze... E' stato inghiottito il vecchio Franz. E' stato inghiottito l'Uccello del Tuono... Ma quanti amici sono stati inghiottiti...
Una figura prodigiosa, forse anche una forza prodigiosa, come avesse avuto cento braccia, un Gigante che nessuna nuvola mai ingannerà, forse tagliato nei tufi di un vulcano, forse nato da una ferita dei testicoli, un Gigante assente, incredibile, immenso, minaccioso...
L'angelo rivela una gestualità allusiva. E' frenetico, moltiplica, deride. Il suo corpo racchiude le necessità e le banalità di tutti i corpi. La gente ai lati della Niederdorf applaude, urla. Un enorme cubo di marmo bianco guarda l'oscurità addensarsi sulle acque della Limmat. Falde oscure. Degli improvvisi cartocci. Delle cialde brune. E' nient'altro che una nave solitaria, di pietra.
Sento la città respirare, gonfiare. Amplissima. Senza che niente lo facesse prevedere, dai polpacci di Bucherer stanno scivolando sull'asfalto migliaia di esseri con le sue stesse fattezze...
Forse dovrò ingoiare l'angelo.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000