§ L'INEDITO

TERESITA




Giovanni Bernardini



Angelo, dal sorriso dolce, un po' femmineo, teneramente triste, fu il compagno fedele della mia adolescenza in un luogo che era poco più d'un villaggio, dove le strade appena fuori dell'abitato si riempivano di fanghiglia alle prime piogge.
Su uno spiazzo periferico, abbondantemente fangoso per l'autunno inoltrato, aveva posto il suo tendone un minuscolo misero circo. Da lì ogni sera, invito all'immutabile spettacolo, risuonava sempre un'identica canzone: Scrivimi, non lasciarmi più in pena. / Una frase un rigo appena...
E noi, Angelo ed io, immancabilmente ci avviavamo verso quella musica nelle sere grige e piovose per andare a spendere i pochi soldi che avevamo in tasca e sederci sulle panche del circo occupate da uno sparuto numero di spettatori. Erano piccoli proprietari contadini, falegnami, calzolai, tutti coppola in testa o cappello scuro, e alcuni ragazzi come noi. Dall'alto spioveva la luce giallastra di poche lampadine. Ogni volta bisognava attendere un pezzo che lo spettacolo avesse inizio, perché evidentemente si sperava che arrivassero i ritardatari. Il grammofono ripeteva la solita canzone, stillandoci nell'animo un lieve strazio più o meno consapevole, mentre ad intervalli la voce rauca d'un pagliaccio fermo sull'ingresso col muso impiastricciato esortava: "Cittadini affrettatevi, si va ad incominciare la grande esibizione del Circo Bisozzi. Non perdetevi questa straordinaria serata".
Quando finalmente, dopo molti rumorii e fischi da parte del pubblico, ormai stanco e infreddolito, irrompevano nella piccola arena a salti e capriole due o tre pagliacci, cessava la protesta per dar luogo a risate che si propagavano ed eccitavano l'un l'altra. Ma, rientrati i pagliacci, scendeva nuovamente fra il pubblico un silenzio penoso d'attesa. Poi un cavallo bianco trottava sulla pista agli schiocchi della frusta brandita da un omaccio baffuto che era il padrone del circo e la faceva sibilare anche rasente le gambe del cavallerizzo in camicia aperta sul petto, zuava marrone, calzettoni stesso colore, piedi senza scarpe, così mingherlino che ad ogni' rincorsa per saltare in groppa al cavallo sembrava dovesse frantumarsi in mucchietti d'ossa. Non meno magro nel numero successivo il somarello saltatore del cerchio: mi faceva pensare a Pinocchio trasformato in ciuco, che cade e si azzoppa proprio al salto del cerchio. Con la differenza che per il povero somaro, se si fosse azzoppato, non esistevano mare e pesci che restituiscono al burattino le sue spoglie di legno, bensì il coltello del macellaio vibrato, secondo la mia immaginazione, dall'omaccio baffuto. Ma il somaro, tutto il tempo che il circo rimase al nostro paese, se la cavò bene, nonostante la meschina apparenza e il terreno che sabbia e segatura non riuscivano a rendere meno scivoloso.
Il numero della ragazza sul filo però era quello più atteso da me e specialmente da Angelo. Una biondina, forse diciassettenne, in calzamaglia rosa, passeggiava da un capo all'altro d'una corda tesa su un vuoto non vertiginoso ma assolutamente vuoto perché privo di rete. La ragazza, prima d'arrampicarsi all'altezza della corda, faceva scorrere rapidamente lo sguardo sul pubblico per fissarlo un attimo nei nostri occhi, miei e di Angelo. Avevamo ogni volta l'impressione che volesse trasmetterci un messaggio. Poi cominciava a rullare il tamburo, la ragazza cambiava fisionomia, come si chiudesse in una sorta d'impassibilità professionale, da funambola che doveva portare a compimento un esercizio rischioso. Non si sapeva bene se era la figlia o la figliastra del padrone. Angelo sosteneva che non poteva essere la figlia, altrimenti avrebbero messo una rete a parare eventuali cadute. Invece io osservavo che non la mettevano per far risaltare bravura e coraggio della ragazza, dando al numero maggiore attrattiva. Il vero forse era che non possedevano neppure una rete.
Fatto sta che Angelo s'era innamorato di Teresita. La seguiva con attenzione ansiosa durante tutto il suo spettacolo e tirava un respiro di sollievo solo quando, lasciandosi scivolare lungo una pertica, toccava terra e s'inchinava ad un saluto. Il pubblico, parco di applausi tranne che alle buffonate dei pagliacci, spesso si manteneva glaciale, sicché più d'una volta a battere le mani a Teresita c'eravamo ritrovati quasi soli Angelo ed io. Probabilmente questo motivo aveva suscitato una corrente di simpatia da lei a noi. Angelo decise d'incontrarla fuori, ma non era facile perché non la si vedeva mai in giro. A fare la spesa per la compagnia andavano sempre due ometti allampanati e taciturni, che a guardarli non si sarebbe pensato dovessero, la sera, tingersi la faccia, indossare le brache da pagliacci e far ridere la gente a forza di battute sgambetti capriole. Angelo aveva atteso più volte l'ora della spesa con la speranza di veder uscire Teresita invece dei due ometti oppure, nei brevi pomeriggi soleggiati, si era appostato a lungo nei dintorni dei carrozzoni, ma scorgeva ogni volta la stessa gente del circo in faccende. La ragazza invece sembrava non esistere all'infuori delle sue prestazioni di lavoro. Angelo s'era messo in mente che il patrigno la teneva chiusa in uno dei tre carrozzoni che formavano la carovana e con tutta probabilità la maltrattava anche. Bisognava ad ogni costo liberarla.
"Come facciamo? - gli chiedevo - Se mai, sarà il caso di riferirlo ai Carabinieri".
"Già, - ribatteva - ma non abbiamo le prove. E poi a due ragazzi i Carabinieri non danno retta".
"Allora procuriamoci le prove. Potremmo far finta di passare per caso accanto ai carrozzoni e, quando nessuno se ne accorge, origliare un po' dentro".
C'infervoravamo in questi discorsi, formulando varie ipotesi d'iniziative, che non portavamo mai avanti nei fatti parte per timore, parte per non farei canzonare dai compagni di giochi, se venivano a saperlo.
Una mattina, molto sul tardi, profittando di mezza vacanza a scuola, passai a prendere Angelo dalla bottega. Nel cielo si accumulavano nubi scure, sospinte da un vento umido che soffiava dallo Ionio e annunciava sicuramente la pioggia. Ci mettemmo a correre verso il circo come due matti senza avere scambiato nemmeno una parola d'intesa e quasi senza capire perché ci dirigevamo proprio lì, anche noi portati dal vento al pari delle nuvole. Quando giungemmo, trafelati, intorno al tendone e ai carrozzoni si stendeva un grande silenzio. Non appariva nessuno, ma questo ce lo spiegavamo congetturando che la pioggia imminente aveva fatto riparare tutti all'interno. Ciò che ci stupiva e c'intimidiva era quel silenzio diffuso, contenente una specie di vibrazione sorda quasi che la mano del vento toccasse le corde del circo e queste insieme emettessero un unico suono basso. Poi, improvviso, lo scroscio dell'acquazzone inzuppandoci ci mise alla ricerca d'un buco dove rifugiarci. L'apertura d'ingresso del tendone era un po' dischiusa, subito la infilammo, ci trovammo nell'arena deserta sotto la solita luce stenta. Ma in alto sulla corda, completamente sola, Teresita si stava esercitando. Andava in su e in giù, accennava qualche passo di danza, simulava un saluto. Rimanemmo col naso in aria incantati da quella presenza inattesa. Teresita non mostrò meraviglia, sorrise, ci fece un bell'inchino, poi veloce come sempre scese a terra dalla pertica, volò verso di noi sulle sue scarpette di raso logore, impresse un bacio rapidissimo sulla guancia di Angelo, a me una carezza e scomparve dietro un telo. I tamburi della pioggia ormai rullavano prepotenti fuori e dentro di noi.
Dopo qualche istante mano ignota spense le fioche lampadine e ci trovammo immersi nella semioscurità, in cui Angelo poté nascondere il suo rossore, io la mia confusione mista a una gioia incontenibile. Mi stupiva il dubbio per caso fossi anch'io innamorato di Teresita. Scacciavo il pensiero: mai e poi mai avrei tradito il mio fedele amico. D'altra parte non era possibile: a lui aveva dato un bacio sulla guancia, quindi a lui voleva bene; a me una fuggevole carezza. Angelo aveva l'età che più o meno doveva avere Teresita, diciassette anni, era abbastanza alto, si spalmava di brillantina i lisci capelli neri e indossava pantaloni lunghi, insomma appariva già uomo, mentre io ero un ragazzino quattordicenne ancora in calzoncini corti.
Trovammo a tentoni l'uscita, ci rimettemmo a correre, l'acqua man mano diradava lasciando trapelare un solicello bianco che forse tutt'e due sentivamo simile a un sorriso del cielo.
"Ti vuole bene" dissi per primo.
"Può darsi, - rispose Angelo - può darsi". Si vedeva che era felice. "Macché può darsi. Ti ha dato un bacio".
"Non so. Non ho fatto a tempo neppure ad accorgermene. Così fulmineo. Avrei dovuto afferrarla. Ricambiarglielo. Ma chi se l'aspettava?"
"Certo, chi se l'aspettava? Eravamo andati per scoprire se l'omaccio baffuto la teneva prigioniera. Invece stava lì, sulla corda, ad allenarsi, in piena libertà, nessuno a controllarla. E' stato molto bello".
"Sì, è stato bello. Ma non so neppure se quello era veramente un bacio. E, se lo era, cosa voleva dire".
"Ti ama, questo voleva dire. A me ha fatto solo una carezza".
Angelo non replicò. Sembrava convinto, di conseguenza felice.
Anche io godevo la mia parte di felicità, ancora oggi non riesco a capire bene se per partecipazione alla sua o piuttosto per una mia personale ragione poco chiara a me stesso.
Attendemmo con ansia la sera di quella giornata da noi ritenuta eccezionale. Ma la sera si scaricò un temporale violentissimo. I miei non mi permettevano di uscire. Mi spostavo da una finestra all'altra a spiare col desiderio più che con gli occhi improbabili evoluzioni in meglio delle condizioni atmosferiche. Alla fine, profittando d'un attimo di tregua, dissi: "Faccio un salto da Angelo, alla bottega".
La bottega, che in realtà era una piccola sartoria dove Angelo apprendeva il mestiere, distava poco più di cento metri.
"Faccio proprio un salto a portare un giornalino che gli ho promesso". Mia madre si opponeva. Guardai mio padre in atto supplichevole.
"Va bene, lascialo andare - fece mio padre. - Dopotutto è un uomo, mica deve aver paura del temporale".
"Con te le vincerebbe tutte - brontolò mia madre, e a me: - Còpriti bene, ché se ti ammali... Ma proprio un salto".
"Magari mi trattengo un poco, fintanto non spiove".
Scattai via, mi chiusi ben bene nell'impermeabile a bavero alzato, mi calai il basco sulla fronte, aprii l'ombrello più ampio esistente in casa.
Lungo i muri che sgrondavano rumorosamente arrivai alla grande nicchia dove una Madonna Addolorata in cartapesta alzava da sempre, a mio ricordo, gli occhi afflitti al cielo, illuminata da una lampada a petrolio. Lì accanto la sartoria: chiusa. Proseguii imperterrito fino a casa di Angelo. Tre o quattrocento metri altri senza incontrare nessuno. Dal portoncino, al solito aperto, chiamai. In cima alle scale comparve Gilda, la sorella maggiore di Angelo: "Ma sei matto ad uscire con questo tempo? Sali".
Feci di corsa l'unica rampa che portava al pianerottolo. In casa di Angelo si respirava un'aria greve di povertà. Angelo non credo provasse piacere a ricevermi in quell'ambiente, preferiva venire lui da me o incontrarci alla sartoria, ma quella sera non potevo fare diversamente. Il padre era un uomo alto, corpulento, pelle bianchissima e larga faccia bovina. Ciabattino, il lavoro scarseggiava. Se ne stava seduto intorno al braciere insieme col figlio minore, un ragazzo malaticcio che si teneva in disparte dai nostri giochi. Padre e figlio, berretti in testa, risposero appena al mio saluto.
Mi venne incontro la madre col gesto consueto di portarsi le mani ai capelli per tirare avanti il fazzoletto nero che le scivolava lungo la nuca, mi rivolse molte parole, perfino ringraziamenti, e mi sorrideva mezzo svanita. Angelo, imbarazzato specie davanti alla madre, la prese delicatamente per le spalle avviandola in cucina con un "Sì sì, ma'". Poi mi chiese: "Che facciamo?"
"Bisogna andare" risposi perentorio.
"Ma dove volete andare con questa serataccia?" interloquì Gilda, il perno economico della casa. Lavorava da governante presso una famiglia e, sebbene il suo mensile non fosse lauto, le permetteva di considerarsi al di sopra di genitori e fratelli. Faceva pesare la sua autorità soprattutto su Angelo, il quale il poco denaro di cui disponeva lo doveva a lei e solo qualche volta ai clienti della sartoria se portava un abito a domicilio.
"Andiamo allo spettacolo" feci io con una cert'aria di sfida che Gilda spesso suscitava in me. "Ha quasi finito di piovere. Facciamo solo una passeggiatina" cercò di rimediare Angelo.
Mi avviai alla scala, seguito da lui. Gilda gli gridò dietro: "Bravo, così sprechi i soldi. Al circo ogni sera. A vedere sempre le stesse buffonate o peggio".
Non immaginavo proprio cosa potesse intendere per peggio. Ma non aveva importanza. Importava invece fare presto, arrivare in tempo allo spettacolo dato che eravamo già in ritardo, rivedere Teresita nel suo numero o nei suoi numeri, come accadeva qualche sera, risentire quel flusso indefinibile che correva fra noi, stavolta reso più intenso da un bacio e una carezza, fuggevoli certo, forse non precisamente un bacio e una carezza, qualcosa comunque contenente un segnale, una comunicazione significativa.
Non aveva smesso di piovere. Ci stringemmo sotto il mio ombrello e allungammo il passo. Mari mano che ci si avvicinava, attendevamo di udire la solita musichetta malinconica, sennonché alle nostre orecchie giungeva soltanto il brusìo dell'acqua sull'ombrello. Nello spiazzo tutto assolutamente buio, s'intravedeva appena la sagoma nera del tendone. E, quando arrivammo lì davanti, costatammo che biglietteria e ingresso erano chiusi. Chissà da dove sbucò uno degli ometti che la mattina facevano la spesa e la sera i pagliacci. Quasi gli saltammo addosso per chiedere informazioni.
"Non è venuto nessuno, proprio nessuno - spiegò. - Sta serataccia maledetta. Noi abbiamo bisogno di lavorare, ma se manca il pubblico... Che volete? che facciamo lo spettacolo per voi due, che siete ragazzi e pagate biglietto ridotto?"
Ce ne tornammo indietro. Durante la strada non avevamo voglia di aggiungere alcun commento tanto ci opprimeva il fardello di delusione che ognuno di noi accumulava dentro. Ci scambiammo la buonanotte ed io, ripassando davanti alla Madonna trafitta nel cuore da una spada, notai che la pioggia aveva spento il lumino a petrolio.
Il giorno seguente riapparve il sole. Era cambiato vento, soffiava una fredda tramontana di fine novembre, che aveva pulito il cielo e rendeva brillante l'aria. Nel primo pomeriggio Angelo ed io decidemmo una puntatina al circo, poteva capitarci un'altra volta di trovare Teresita, sola, ad allenarsi. Ci sentivamo allegri, partecipi di un segreto che forse si sarebbe arricchito di nuovi segnali e che, senza gelosie, sarebbe divenuto argomento dei discorsi fra me e lui, naturalmente fuori della cerchia degli altri amici che, secondo noi, non erano in grado di capire.
Ma, giunti al solito posto, non credevamo a noi stessi. Il circo, i carrozzoni, il palo elettrico posticcio, i paletti reggifili per i bucati da asciugare, tutto quel minuscolo villaggio non esisteva più. Dileguato, svanito nell'aria, trascinato via dalla tramontana o dissolto da un maleficio misterioso. Così almeno noi vivemmo quei primi istanti di smarrimento.
Approfittando del sereno erano partiti verso mete probabilmente più redditizie. Sullo spiazzo era visibile la traccia lasciata dall'arena: una breve circonferenza di terra molle cosparsa ancora di segatura. Al centro una grossa pietra. Angelo vi si diresse, si sedette, abbandonò le braccia fra le ginocchia piegate e, guardando intorno quasi volesse ricostruire con gli occhi quel che mancava, cominciò a cantarellare sottovoce: Una frase, un rigo appena /per placare il mio dolor...
Davanti alla mia immaginazione passavano il cavallo bianco, il cavallerizzo-piedi scalzi, il ciuco-Pinocchio, i pagliacci-spesaioli, perfino l'omaccio-frusta schioccante, ma sopra tutti l'aerea Teresita, la dolce equilibrista della corda, fuggiasca come un sogno appena iniziato. Erano andati irrimediabilmente via questi personaggi che avevano riempito un pezzetto della nostra vita durante un autunno piovoso e ora sarebbero rimasti nei nostri discorsi, anzi, col passare dei giorni, sarebbero entrati sempre più nelle nostre fantasie di ragazzi fino al punto da farci mitizzare l'immagine della bionda Teresita librata in un vuoto a cui non potevamo accedere.
Non mi rendevo conto che in realtà si trattava di poveracci costretti a trasferire di paese in paese la loro miseria per tentare di sfuggirla. Né se ne rendeva conto Angelo accovacciato sul sasso al centro della pista. A voce via via più alta, continuava a struggersi ripetendo: Ma non scrivi e non torni. / Ti sei fatta di gelo. / Così passano i giorni..
E i suoi capelli nerissimi luccicavano di brillantina e di sole.


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