§ DA SUD A SUD

ALL'OMBRA DEL TIFATA




Girolamo Garonna



Nella scorsa strana e bizzarra estate, punteggiata da alluvioni, uragani, frane, allagamenti, gli organi di informazione, tra le notizie di tanti eventi calamitosi, hanno battuto anche quella di una tromba d'aria, avente le caratteristiche di vero tornado, che, formatasi nella zona di Capua, ha investito con furia devastatrice il monte Tifata, danneggiando la Basilica benedettina di S. Angelo in Formis, di recente restaurata dopo decenni di degrado.
Scarsa attenzione ha destato il fenomeno, che peraltro si collocava tra quelli registrati quotidianamente dalla cronaca, volta ad evidenziare i danni alle persone, alle strutture cittadine, alle conseguenze negative sulla produzione agricola, artigianale e industriale. Vivissima apprensione, invece, ha suscitato l'evento in quanti, a prescindere dal naturale amore per il patrimonio artistico e storico nazionale, seguono con peculiare sollecitudine la conservazione dei sacrari della cultura, delle tradizioni, della storia, delle credenze, della civiltà meridionale. E da questa propensione a prediligere la venerazione per la propria terra, il cui humus racchiude la memoria degli avi, quella terra nella quale spazia la propria mente, il proprio sguardo, quella terra che percepisce le ansie, i tremori, le emozioni della vita quotidiana nella sua complessità, scaturisce il bisogno di tratteggiare una rivisitazione, sia pure sommaria, dello scenario nel quale si sono connaturati i fatti mitici, storici, artistici che individuano il nostro glorioso passato.
L'attuale rito rievocativo attiene al monte Tifata: una piramide a cima aguzza che sovrasta, signoreggia e protegge la pianura celebrata come "Campania felix". Posto a cavaliere della via Appia e della via Latina, è circoscritto a N. E. dal tumultuoso Volturno, che, lasciate le anguste Valli Sannitiche e superata l'annibalica stretta di S. Iorio, si acquieta nella pianura campana in vista del prossimo Mar Tirreno.
Dalla cuspide che si eleva fino ad oltre 600 metri si visualizza ad ovest-nord-ovest una rigogliosa pianura, la Campania felix, il cui confine appare segnato da una linea che, partendo dal mare di Mondragone, l'antica Sinuessa, e appigliandosi all'imponente Massico di oraziana memoria per i decantati vini Falerno e Cecubo, si estende a semicerchio, quasi librandosi tra terra e cielo, inseguendo la lieve smerlatura dei monti Ausoni ed Aurunci fino a lambire, attraverso le cime del monte Maggiore e dei monti Callicolani, la riva destra del Volturno; là dove la ricordata stretta di S. Iorio si àncora alla scabrosa costa del Tifata, detta "Costa del Sole". A sud-sud-est incombe l'acrocoro Sannita. Inizia dal folto gruppo del Taburno ed è diviso dal Partenio dalla Sella di Arpaia, corrispondente all'antica Caudio, presso la quale nel 321 a.C. i Romani furono sconfitti dai Sanniti di Ponzio Telesino e costretti a passare sotto il giogo delle Forche Caudine nella località oggi chiamata Forchia. Oltre, la regina delle vie, l'Appia, prosegue con immutato tracciato per la favolosa Puglia sino alla significativa colonna terminale di Brindisi.
Il panorama è davvero grandioso, certamente uno dei più suggestivi d'Italia. Marco Tullio Cicerone, che dimorò in zona, nella seconda orazione contro Rullo sulla legge agraria esalta con appassionato vigore il territorio campano definendolo: Al più bello di questo mondo; l'unico fiorentissimo fondo del popolo romano, la sorgente della vostra ricchezza, il decoro della pace, il sussidio della guerra, la base delle entrate, il granaio delle legioni, la suprema risorsa della carestia".
Dal dotto lessicografo latino Festo, che compendiò l'opera di Verrio Flacco sul Significato delle parole latine arcaiche, si apprende che l'espressione Tifata è identificabile con il concetto di "bosco di lecci", dal che deriva che quel nome è stato attribuito al monte perché era tutto ricoperto di lecci, piante sempreverdi ad alto fusto, con chioma dalle foglie cerose, simili a quelle della quercia.
Il poeta latino Silio Italico, autore del poema Punica, immaginò questi boschi lussureggianti e ricchi di selvaggina come teatro di lotte tra fiere ed amò definirli "stanza dei leoni". Alla vetta del nostro monte, chiamato anche S. Nicola, spesso coperta di nuvole, gli agricoltori volgevano lo sguardo per divinare il tempo sereno o burrascoso. Ancora oggi, nelle campagne, si usa dire "quando S. Nicola fa cappa, se oggi non piove domani non scappa".
Finora è stato prospettato un quadro propedeutico al fulcro sostanziale della rievocazione proposta; necessaria introduzione alla conoscenza del teatro operativo delle vicende storiche che affascinandoci ci sospinge verso l'orgoglio dell'oggi.
Ordunque, si sa che a "destra del monte Tifata dalla parte d'Oriente e propriamente nelle sue radici fu edificato un grande, spazioso e magnifico tempio ad onore della dea Diana, detto di Diana Tifatina". Così Francesco Granata nel 1752 inizia, nell'opera Storia civile della fedelissima città di Capua, l'illustrazione relativa al monte Tifata. Prima però di riservare l'attenzione in via esclusiva al tempio di Diana, occorre dedicare rapidi cenni al centro gravitazionale che, nella cavea, attrae e determina, da protagonista, i fatali movimenti dell'evoluzione storica di un popolo e della sua contrada.
Nella celebrata pianura campana sono ubicate varie città; tra esse primeggia Capua, la fiera, superba antagonista di Roma. Capua "la speciosa", che nelle celebri vie Albana e Seplasia esprimeva il massimo del lusso e del vizio che la ponevano come sublime attrazione. La Capua che, secondo Cicerone, è da annoverare tra le più antiche, le più ricche e le più eccellenti del mondo ("Maiores vestri tres tantum urbis in terris omnibus Carthaginem, Corinthum, Capuam statuerunt imperii gravitatem nomen posse sustinere").
Velleio Patercolo fa nascere Capua cinquant'anni prima di Roma: invero essa vanta natali ancora più remoti. Il mito della fondazione di Capua si ricollega alle grandi migrazioni dei popoli antichi dell'Asia e dell'Etruria. I Beli di Assiria, sotto la guida e l'impulso del loro capo Belo, nella ricerca di siti adatti alla sopravvivenza, si fermarono in questi luoghi e vi costituirono un agglomerato di villaggi che, per il suo tracciato discontinuo, chiamarono "Volturnum". Successivamente, quasi un secolo prima della fondazione di Roma, un capo etrusco di nome Osco, seguito da una moltitudine di gente alla ricerca di nuovi spazi, visto un luogo boscoso e ameno, decise di prendervi stabile dimora. Alla decisione contribuì, in maniera determinante, la vista di un falcone che venne a posarsi nella zona prescelta: oracolo favorevole, che non poteva essere disconosciuto. Quindi Osco si alleò con i vicini Beli ed insieme fondarono una nuova città, chiamata Osca. Gli abitanti, detti Osci, avevano come divinità un serpente, animale che successivamente fu assunto nello stemma antico della città di Capua. Alla fine della guerra di Troia, il cugino di Enea, Capis, alla testa di un folto gruppo di troiani, giunse in Campania ed assoggettò la città di Osca. Dopo averla ampliata, fortificata e dotata di molti edifici pubblici e privati, ne modificò il nome in Capua. Così almeno narra Virgilio.
Svetonio racconta che nell'area capuana fu trovata, in un monumento ritenuto il sepolcro di Capis, una tavola di bronzo riportante un'iscrizione greca. Lucano, parlando di Pompeo che all'inizio della guerra civile con Cesare si era trasferito a Capua, lo chiamava "colono dardano".
Ai nostri fini, che Capua sia stata fondata dai Beli o dagli Etruschi o dal Troiani è soltanto un'accattivante dissertazione. E' importante rilevare, invece, che Capua fu la capitale dell'Italia meridionale etrusca e che per assolvere a tale destinazione fu costruita in una posizione ideale: in pianura, poco discosta dal mare, protetta dal fiume Volturno e da un antemurale poderoso come il Tifata. Tale posizione consentì alla città di diventare un grande centro politico, commerciale e militare. E' naturale che nei suoi dintorni si sviluppassero fortificazioni, luoghi di culto ed anche di svago, di villeggiatura e di cura. Il Tifata assolse egregiamente a tutti questi compiti. La sua area perimetrale era punteggiata di templi dedicati alle varie divinità: nella parte orientale primeggiavano quelli dedicati a Giove, ad Apollo, a Marte, ad Ercole. Memoria di questi templi sono le attuali cittadine site alle falde del monte: Casagiove, Casapulla, Marcianise, Ercole. Ad occidente erano operanti i templi di Cerere nella località oggi detta Casacellole ed a Bellona, là dove oggi è fiorente l'industriosa cittadina di Bellona. Però la centralità, l'eminenza della zona sacra è costituita dal tempio di Diana Tifatina, collocato a mezza costa del monte Tifata, orientata ad Ovest, verso il mare, verso Capua, verso la pianura chiusa dal Massico.
Non è possibile dare indicazioni temporali circa l'istituzione del tempio, perché i culti religiosi nascono e si accompagnano con la costituzione di agglomerati umani. Sul Tifata Diana arricchisce la sua specificità rispetto all'Artemide greca perché si umanizza, si inserisce con partecipazione e sollecitudine nelle vicende quotidiane dei suoi devoti. Acquisisce nomi ed aggettivazioni per essere perfettamente individuata: "Diana Trivia", per ricordare che (come scrisse Cicerone in De natura deorum) nacque insieme ad Apollo, figlia della Luna e di Giove. Fu appellata "Casta Diana" perché, gelosa della sua verginale purezza, "fuggiva le conversazioni degli uomini e viveva ritirata nei boschi, ove vestita succintamente ed armata di arco e faletra attendeva alla caccia". L'appellativo, però, che richiama il mito di Capua "Dardana" è quello di "Dea fasciale". Quando Agamennone si recò in Aulide allo scopo di partire per la guerra di Troia fu trattenuto da venti contrari. L'indovino Calcante affermò che occorreva placare Artemide sacrificando la figlia di un re. Agamennone allora decise di sacrificare la figlia Ifigenia che l'accompagnava. Artemide, però, la sostituì con una cerva e la portò in Taulide ove divenne sua sacerdotessa. Oreste, fratello di Ifigenia, perseguitato dalle Furie, ricevette l'ordine di recarsi in Taulide per prelevare il simulacro di Artemide e portarlo in Attica. Appena giunto in compagnia di Pilade stava per essere sacrificato alla dea perché straniero, ma la sorella Ifigenia lo riconobbe e ne concertò la fuga. Per poterla attuare, dovettero uccidere Toante, re del Chersonese in Taulide. La fuga, per volere della dea, si concluse nei folti boschi del Tifata, ove depositarono un fascio nel quale avevano nascosto il simulacro della dea stessa; donde l'appellativo di "Diana fasciale".
I Capuani accolsero il simulacro con entusiasmo e consacrarono Diana come loro potentissima dea tutelare. Provvidero ad erigere un tempio ricchissimo, che in breve tempo divenne famoso in tutta Italia, non solo per la caccia, ma anche per le numerose sorgenti di acque minerali, termali e sulfuree che sgorgavano dai pendii del monte. Nel tempo, lungo la via Addiana che partendo da Capua, in prosecuzione della rinomata via Albana, raggiungeva la zona sacra del tempio, sorsero moltissime sontuose ville di grandi personaggi romani, come Cicerone, Vespasiano, Vitellio, Faustina Pompeo ed altri. L'importanza si accrebbe per la creazione di moltissimi stabilimenti termali tanto da richiedere un apparato di servizi assicurati da appositi addetti chiamati "locator thermarum" o "thermarius". Velleio Patercolo, essendo della zona, parla molto dettagliatamente di queste terme e del Tifata, esaltandone l'amenità del clima, l'aria sanissima e la salubrità delle acque.
Tra i reperti archeologici degni di essere ricordati c'è un marmo posto dal senatore romano Mecio Probo, il quale afflitto da seri malanni recuperò la salute dopo le cure termali: " ... quod hoc in loco anceps periculum sustinuerit et bonam valetudinem reciperaverit". I beni acquisiti dal santuario durante gli anni furono tali e tanti che per la loro amministrazione fu creata un'apposita prefettura, come risulta dal "Limite Gracchiano", rinvenuto in località Calcarone, posto a segnare il confine tra i beni del tempio ed il territorio capuano prima e romano poi.
Il Granata, nell'opera già citata, descrive la magnificenza del tempio di Diana Tifatina. Così sappiamo che era composto di più navate affrescate, sostenute da colonne di finissimo marmo, di alabastro e di porfido. Aveva le finestre con doppio cristallo smaltato ed effigiato. Nei suoi pressi esisteva un circo, ove si svolgevano giochi circensi in onore della dea. Inoltre, apposite stanze erano riservate alle sacerdotesse ed al "locator" che presiedeva all'assegnazione dei posti nelle terme, nel circo e nei bagni. Altre stanze erano destinate ai Deputati che, in numero di dodici, dirigevano la vita del tempio. Sembra che in prossimità del tempio vi fosse anche un magnifico lago, così come nel luogo detto ad Arcum Dianae esistesse un pago molto popolato. La presenza del lago si rileva anche da alcuni codici di Festo e dalla Tavola peutingeriana. Le capacità di divinazione delle sacerdotesse di Diana venivano esaltate da alcune acque, presenti nei pressi del tempio, ricche di sostanze gassose che alteravano i lineamenti e sconvolgevano la capigliatura delle sacerdotesse provocando enorme presa sui fedeli. Ancora oggi, volendo indicare una donna dal volto stralunato e dalla chioma arruffata, si dice "sembra una Ianara", ossia sacerdotessa di "Iana", altro nome che i Romani diedero a Diana. Oggi, purtroppo, dalla roccia non sgorgano più né i cocenti e deleteri gas né le acque termali e minerali. Per spaventosi sismi, terribili frane e sconvolgimenti dell'ecosistema le sorgenti hanno subìto variazioni profonde e molte si sono esaurite.
Lo splendore di questo centro religioso poteva gareggiare con il tempio di Diana Efesina, alla cui costruzione aveva contribuito tutto il mondo asiatico. Del tempio, che ha formato oggetto di attenti, approfonditi ed ampi studi in tutte le epoche, rimangono soltanto le fondamenta, alcune iscrizioni lapidarie e frammenti di affreschi che rappresentano Diana. Nel Medioevo, decaduta l'antica Capua, i Longobardi sui ruderi della vecchia Casilinum edificarono la nuova Capua. Nella stessa epoca il comprensorio del tempio di Diana con altri complessi abitativi esistenti assunse il nome di S. Angelo in Formis o ad Formas, che evocava la ricchezza delle sorgenti acquifere (forma sta per acqua) e l'arcangelo Michele, titolare della Basilica benedettina, edificata sulle fondamenta del tempio di Diana tra il VII e il IX secolo.
Al Tifata occorre dedicare ancora alcuni cenni come luogo di bivacchi militari e di battaglie. Sul Tifata sostò e si accampò con il suo esercito Silla nella marcia verso Roma. Di qui mosse per affrontare e vincere il console Norbano, partigiano di Mario. Per tale vittoria Silla donò a Diana Tifatina molte terre delimitate da lapidi terminali che al tempo di Augusto furono rinnovate, come risulta da alcune iscrizioni trovate in loco: "fines locorum dicator Dianae", "Tifatinae a Cornelio sulla ex forma divi Augusti restituit". Su questo stesso monte per lungo tempo e per due volte si accampò Annibale con il suo esercito. La prima volta dopo la vittoria di Canne, quando divisò di isolare Roma prostrata dalla sconfitta e trovò come alleata soltanto Capua. La seconda quando, dopo la conquista di Taranto, si recò sul Tifata in soccorso di Capua assediata dai Romani. Esistono vestigia della permanenza del Cartaginese in questa zona: i resti di un ponte in muratura sul Volturno chiamato dal volgo Ponte di Annibale ed un "padiglione", che ne ricorda l'accampamento, come conferma anche Livio: "Castra quae in Tifatis erant".
Il Tifata è stato dunque teatro di sanguinose contese militari: abbiamo menzionato quelle di Annibale, quelle di Mario e di Silla, ma sono da ricordare ancora quelle dei Sanniti, dei Sedicini, di Marcello e di Sempronio Gracco, di Quinto Fulvio, dei barbari Odoacre, Teodorico, Belisario, Narsete, Butilino, e poi dei Longobardi, dei Saraceni; tutti portarono distruzione e morte. Già Polibio aveva delineato il Tifata come "Valle funeraria, colpita da terribile legge, che in sì breve spazio divenne tomba di tante nobili opere dell'uomo, di tante memorie, di tante genti". La stessa accorata considerazione svolse il generale Garibaldi nella parte delle sue memorie dedicata alla battaglia del Volturno, combattuta il primo ottobre 1860 su questo monte: "Da Annibale vincitore delle superbe legioni ai giorni nostri le campagne campane non avevano certo veduto più fiero conflitto ed il bifolco passando l'aratro su quelle zolle ubertose urterà per molto tempo ancora nei teschi dalla rabbia umana seminati". La battaglia del Volturno fu classificata come quella conclusiva delle grandi imprese risorgimentali sancendo l'unità d'Italia sotto lo scettro di Casa Savoia. L'esercito borbonico sconfitto a Capua si ritirò a Gaeta, ove diede dimostrazione di grande dignità ed eroismo.
L'esercito meridionale fu condannato all'inazione e, misconosciuto, subì l'onta dello scioglimento. Ancora una volta il Tifata protagonista, perché da queste balze, dopo la vittoria, il 15 ottobre 1860 Giuseppe Garibaldi indirizzò il noto messaggio di pace e di unione alle potenze europee. Anche nella guerra 1943-1945, la barriera combinata del Tifata e del Volturno determinò una violenta battaglia tra l'esercito americano proteso alla conquista di Roma e l'esercito tedesco in lenta e puntigliosa ritirata.
Come il tempio di Diana Eufesina iniziò la decadenza con l'arrivo dell'apostolo Paolo, così la presenza a Capua del vescovo Prisco determinò la conversione al cristianesimo di larga parte del popolo, con il conseguente progressivo abbandono del culto a Diana. I sacerdoti della divinità pagana denunciarono la questione al proconsole romano, il quale martirizzò S. Prisco, santo ancora oggi molto venerato nel territorio. Come già accennato, i resti del tempio pagano passarono ai monaci benedettini di Cassino, che lo trasformarono in monastero. Dopo molti anni, divenne badia concistoriale sotto il titolo di S. Angelo in Formis. Fino a quando, nel 1072, il principe Riccardo donò, ai benedettini di Montecassino, retti dall'abate Desiderio, assurto poi al pontificato con il nome di Vittore III, il cenobio di S. Angelo in Formis. L'abate Desiderio rivolse tutte le sue cure alla chiesa, che riedificò, ampliò e arricchì di pregevolissimi affreschi, che si conservano tuttora e che formano un patrimonio artistico inestimabile, specialmente oggi che, dopo la distruzione di Montecassino, costituisce l'unica testimonianza dell'arte dell'XI secolo in Italia meridionale.
Oltre che per i pregi, gli affreschi hanno dato luogo ad un dibattito di estrema importanza: le origini di una scuola pittorica nel Mezzogiorno d'Italia prima di Cimabue e di Giotto. Alla discussione hanno partecipato studiosi di tutto il mondo, ma specialmente tedeschi. Le analisi più recenti hanno dimostrato in modo inconfutabile l'esistenza di un'arte formatasi nell'Italia meridionale, sulla quale si è sviluppato il Rinascimento del XIII e del XIV secolo. Gli affreschi di S. Angelo in Formis sono l'opera di artisti meridionali di scuola bizantina, che non hanno copiato o pedestremente seguito le regole loro insegnate, ma hanno interpretato secondo una personale e geniale ispirazione, autenticamente meridionale. Con passionale incisività il Vecchioni ha sostenuto che esiste una linea di originalità e di continuità che lega "le pitture della Magna Grecia, gli affreschi di Pompei, i dipinti delle grotte di Puglia, le rappresentazioni pittoriche delle chiese degli Abruzzi, della Campania e del Sannio fino alle opere rinascimentali".
L'intendimento di queste note era quello di consegnare alla riflessione dei lettori un angolo di Mezzogiorno, scrigno di inesauribili e preziosi tesori. Ecco il Tifata, questa piramide calcarea che come un libro monumentale, sommariamente sfogliato, attende di essere letto fino in fondo perché costituisce un compendio di civiltà, dalla quale proviene fierezza e stimolo ad approfondire la ricerca delle radici, per farne guida di azione e di comportamento.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000