La civiltà
industriale si caratterizza, dal lato demografico, con due fenomeni:
la diminuzione della mortalità infantile e la diminuzione della
natalità; naturalmente anche il nostro Paese doveva mostrare
un simile andamento.
Per la mortalità infantile infatti l'Italia ha mostrato un
calo verticale quasi impensabile: dal 1946 ad oggi (si sceglie il
1946 perché può essere considerato il primo anno che
non risente più direttamente di fenomeni bellici) la mortalità
infantile è scesa ad un tasso pari a meno di un decimo e, cioè,
dal 90 a meno del 9 per mille, e questa discesa è stata più
accentuata rispetto a molti Paesi, cosicché almeno per l'Italia
Centro Settentrionale e particolarmente per il Nord-Est siamo ai livelli
dei Paesi più progrediti; ma per quel che riguarda la natalità,
in Italia è scesa in maniera tale da scavalcare tutti gli altri
Paesi cosicché ha oggi il più basso tasso di figli a
donna (1,26) e, parallelamente, il più basso tasso netto di
riproduzione (0,60), mentre alcuni decenni fa molti Paesi, specie
europei, avevano una natalità più bassa della nostra
(Tabb. 1 e 2).


Incidentalmente facciamo un confronto tra Italia ed Inghilterra in
rapporto alla percentuale di primogeniti sul totale dei figli.
Dati statistici
sulla famiglia italiana oggi
La famiglia italiana oggi è sicuramente una microfamiglia;
solo il 10% delle famiglie anagrafiche e il 12% delle famiglie di
fatto sono composte da 5 o più membri.
Le previsioni sull'avvenire della struttura e dell'ampiezza della
famiglia sono state elaborate dall'ISTAT nel 1990. Si partiva da una
fecondità bassissima in Italia, la più bassa di tutto
il mondo (1,32 figli a donna) scavalcando in circa 35 anni i Paesi
tradizionalmente a più bassa natalità (Inghilterra,
Svezia, Germania, Austria, Svizzera) e si facevano tre previsioni:
la media, la massima e la minima:
I primi dati tendono
però a smentire le previsioni dell'OMS; in Italia si è
toccata la cifra record di 1,26 figli a donna e il dato tenderà
ad abbassarsi ulteriormente, perché è un dato molto
composito: vi sono regioni con valori di 0,8 (Liguria) e regioni ancora
al di sopra di 2-2,2 (Campania, Puglia); vi sarà, come è
avvenuto per tutti i fenomeni, una assimilazione del Sud alle regioni
più ricche; pertanto, non solo siamo ora la regione a più
bassa natalità del mondo, ma ci staccheremo molto dagli inseguitori.
Il Nord Italia fa ora circa la metà dei figli degli altri Paesi
europei e degli Usa. Come è avvenuto altrove, alla lunga il
fenomeno si invertirà, ma pensare che nel prossimo futuro ci
possa essere un bambino con un fratello è una illusione.
In complesso, nella maggior parte dei popoli ad elevato sviluppo,
il tasso di fecondità è circa una volta e mezzo quello
italiano e circa due volte quello dell'Italia del Nord.
L'allarme è stato già lanciato dall'Accademia dei Lincei,
dalla Fondazione Agnelli nel 1990, e dai Vescovi italiani in occasione
della Giornata per la vita. I vescovi propongono una politica della
famiglia con revisione degli assegni familiari, facilitazioni di accesso
alla casa, tutela della donna lavoratrice e provvedimenti a favore
delle casalinghe e delle famiglie mono-reddito, con sgravi fiscali.
La ricerca delle cause di questa particolare denatalità italiana
è molto difficile.
Non ci occuperemo però delle cause e dei rimedi della denatalità
in genere, ma di quella del nostro Paese in confronto alla natalità
degli altri popoli industrializzati.
Ma i figli
in Italia non si vogliono o non si possono avere?
Per indagare sulle cause della nostra denatalità bisogna chiarire
se i figli:
1) non si hanno per la maggiore efficacia dei metodi di contraccezione
propri ed impropri (aborti);
2) non si vogliono avere in quanto il costume, ed in particolare i
nuovi modelli familiari e femminili, non si identificano con la donna
madre o addirittura vi è un rifiuto della maternità
e delle sue implicazioni fisiche (gravidanza, allattamento etc.) e
psicologiche (vita casalinga, rinuncia alla competitività nel
settore del lavoro extradomestico, limitazioni alle possibilità
di reddito autonomo della donna, etc.).
3) non si vogliono avere per minore necessità di figli sul
piano sociale ed economico;
4) non si riesce ad avere la necessaria serenità per l'attesa
di un figlio (paura di malformazioni, paura del parto, vissuto negativo
del parto ospedalizzato, timore di inadeguatezza dei genitori in rapporto
ai loro compiti educativi, desideri di realizzazioni eccessive per
i figli, etc.);
5) non si riescono ad avere per ragioni fisiologiche e patologiche
(sterilità, infertilità di coppia, impotenza, malattie
da contagio sessuale, etc.);
6) non si riesce a formare il nucleo familiare per ragioni economiche
o ambientali (mancanza di abitazioni per nuove coppie, redditi insufficienti
per adire al matrimonio, pendolarismo, abitazione e lavoro in città
e zone diverse);
7) non si vogliono altri figli oltre al primo e raramente ai primi
due per difficoltà economiche ed organizzative della famiglia
specie in relazione al lavoro della donna (problema degli assegni
familiari, delle esenzioni fiscali per i figli, dei riposi per maternità,
del lavoro a tempo parziale per la madre, delle istituzioni per la
custodia diurna dei bambini, degli assegni di maternità, mancanza
del sostegno degli anziani per migrazioni interne, etc.).
Esamineremo ora tutte le precedenti cause in rapporto alle differenze
tra il nostro Paese ed altri Paesi della CEE, sempre allo scopo di
rilevare perché la caduta della natalità si sia avuta
più da noi che presso altri popoli.
Contraccezione-aborti
E' ovvio che la nascita di figli non espressamente voluti è
fortemente diminuita con la cultura contraccettiva e con pratiche
contraccettive razionali ed efficaci.
La riduzione attuale dei matrimoni è forse dovuta, tra le altre
cause, anche alla diminuzione notevole dei matrimoni "riparatori",
contratti a gravidanza già iniziata che, intorno agli anni
Cinquanta, erano circa il 30% dei matrimoni, e che sono notevolmente
diminuiti per le pratiche contraccettive ed abortive.
Meno importante, nonostante la legge abortista, è stata la
pratica delle interruzioni di gravidanza; basterebbe pensare al numero
di aborti negli anni Cinquanta. Da parte dei movimenti abortisti si
parlò senza alcuna prova, però, addirittura di un milione
di aborti clandestini l'anno in Italia; ma le interruzioni volontarie
della gravidanza sembrano essere in rapporto diretto con le nascite;
diminuiscono le nascite e parallelamente le interruzioni volontarie
legali della gravidanza: da 230.000 nel 1977 a 207.000 nel 1980 e
a 154.000 nel 1990; la percentuale rispetto ai parti era del 36,4%
nel 1980 ed è passata al 27,8% nel 1990; anche una legge sicuramente
tra le più liberali (e le meno rispettose del nascituro) in
tema di aborto non è stata in grado di sconvolgere la natalità,
anche se, in effetti, la proporzione tra aborti e parti è in
Italia, e in Danimarca, la più alta. In Francia e in Inghilterra
è sui 21-25 aborti per 100 parti. Le leggi abortiste sono contro
la vita, la dignità dell'uomo e certamente contro principi
etici, richiamati più volte, anche in seguito a programmi di
pianificazione delle nascite dell'ONU, dalla Chiesa, ma che vanno
al di là dello stesso insegnamento cattolico perché
sono universali. Dovremo sicuramente mettere mano ad una revisione
della legge, specie per quel che riguarda la pratica abortiva nelle
strutture pubbliche. Non risolveremo però, così, il
problema della denatalità.
Non vi è ragione di ritenere che la fecondità sia calata
più da noi che negli altri Paesi europei per effetto del controllo
delle nascite, se non in maniera marginale.
Non è stato agevole reperire il dato sul consumo di contraccettivi
e di profilattici in Italia, comparato con quello di altri Paesi europei,
ma certo non siamo stati i primi ad usarli su vasta scala, se ci volle
una sentenza della Corte Costituzionale del 1972 perché fosse
ammessa in Italia la vendita di contraccettivi. E' invece probabile
che la diffusione dei contraccettivi, più tardiva rispetto
ad altri Paesi, spieghi contemporaneamente la maggior riduzione degli
aborti in Italia proprio in questi anni e l'altissima abortività
di un tempo e, per quel che direttamente ci interessa, la maggiore
natalità italiana in tempi remoti rispetto ai Paesi europei
e la maggiore contrazione dei nati in questi ultimi decenni.
Può anche
darsi, cioè, che si sia verificato uno scavalcamento, verso
il basso, della natalità italiana rispetto ad altri popoli,
per un ritardo dell'applicazione delle pratiche contraccettive, ma
non ne abbiamo prove.
Nuovi modelli
femminili
La donna sposa e madre tutta dedita alla famiglia o inserita nel lavoro
extradomestico solo in via marginale (es. bracciantato stagionale),
e per assoluta necessità economica dei ceti più deboli,
non rappresenta più il modello per la quasi totalità
delle donne italiane.
Vi è un chiaro contrasto tra tale modello e il desiderio di
realizzazione con il lavoro extradomestico sul modello maschile; in
non poche donne tale fenomeno crea addirittura un rifiuto del matrimonio
e della maternità per realizzare la più decisa competitività
sul piano del lavoro extradomestico; la maggior parte delle donne
però vuole realizzare la funzione materna in un certo arco
di tempo e poi ritornare all'attività extradomestica, sia intesa
come lavoro che come impegni nella società. Nonostante ciò,
il desiderio di maternità è di gran lunga superiore
al numero dei figli che realmente si hanno.
Particolarmente interessanti sono degli studi dell'ISTAT sulla famiglia
italiana, realizzati mediante la somministrazione di un questionario.
Si è chiesto a donne tra 15 e 44 anni quale fosse secondo loro
il numero di figli:
a) IDEALE;
b) DESIDERATO;
c) CONCRETAMENTE REALIZZABILE.
Per numero di figli ideale si è inteso il numero di figli che
una donna dovrebbe avere indipendentemente dalle aspirazioni personali
dell'intervistata; per numero di figli desiderato quello che l'intervistata
stessa vorrebbe avere a prescindere da considerazioni pratiche ed
infine per concretamente programmabile il numero di figli da avere
nelle proprie condizioni ambientali.
Abbiamo distinto nella Tab. 6 le risposte a seconda che prevedessero
meno o più di due figli ed abbiamo poi diviso le risposte per
le due regioni italiane agli estremi dell'indice di fecondità,
la Liguria e la Campania.
Quasi l'80% delle donne italiane desidererebbe avere più di
due figli e quasi il 75% ritiene concretamente programmabile tale
numero di figli, mentre, in effetti, solo il 55% delle donne ha più
di due figli. Vi sono perciò delle difficoltà successive
alla nascita del primo figlio che, in effetti, impediscono di realizzare
il desiderio. Dividendo le risposte in ragione delle regioni a minore
e maggiore natalità abbiamo invece che il numero di figli ritenuto
programmabile varia dal 53% per la Liguria al 92% per la Campania;
è perciò parallelo all'effettiva natalità.
In sintesi, si può dire che il nuovo modello di donna incide
senz'altro sulla denatalità, ma questo fenomeno viene aggravato
da altri fattori.
Minore necessità
di figli
Nella società contadina i figli erano braccia per rendere fruttifero
il capitale familiare; nella nostra civiltà industriale i figli
sono spesa e, date le esigenze che la moderna cultura impone per l'allevamento
e per l'istruzione, si tratta di una spesa rilevante.
Lo scopo di aver figli è solo, perciò, di carattere
affettivo, sia con il figlio stesso, sia come legame tra i coniugi;
d'altro canto tale esigenza limitata, in genere, ad uno, massimo due
figli, è molto sentita: basti pensare alle richieste di adozione
che dagli anni 1970-72 superano di molto il numero di bambini abbandonati
disponibili all'adozione, al numero di adozioni internazionali, al
mercato di adozioni clandestine e alla diffusione delle pratiche di
fecondazione artificiale, a volte anche in età presenile.
Minore necessità di figli si ha anche oggi per la trasmissione
di ditte artigiane e commerciali, di titoli nobiliari ed in genere
di ditte familiari; particolarmente sentita era la necessità
del figlio maschio; non ci si fermava, anche se si avevano numerose
femmine.
L'insieme delle considerazioni suesposte spiega il perché da
noi il crollo della fecondità sia stato più improvviso,
dato che la nostra trasformazione da Paese agricolo a Paese industriale
è stata più recente ed improvvisa e le migrazioni interne
degli anni 50-60, che hanno coinvolto almeno 10 milioni di persone,
tali da alterare rapidamente valori e costumi tradizionali. Le migrazioni
interne inoltre sono collegate alle maggiori difficoltà di
sistemazioni stabili per le nuove famiglie.
In sintesi, pur non sopravvalutando il fenomeno, dobbiamo ritenerlo
non estraneo alla denatalità odierna e, in particolare, a quella
italiana.
Mancata serenità
L'attesa di un figlio è stata sempre accompagnata dalle ansie
sul nascituro; fino al 1700 il figlio "mostro" in molte
culture era addirittura di origine diabolica o legato al commercio
sessuale della madre con animali; oggi però, anche per il ridotto
numero di figli, l'ansia è divenuta patologica: si tende sempre
più ad abbassare l'età materna per l'amniocentesi; sui
settimanali abbondano gli articoli, che interessano le madri, sulle
malattie e sulle malformazioni fetali; anche le divulgazioni, a fine
di prevenzione, relative alla rosolia, alla microcitemia, etc., accentuano
l'ansia; dopo il primo figlio, nato sano, si cerca di non ripetere
l'iter a rischio. Il fatto di voler essere garantiti che il figlio
sarà perfetto diminuisce, senza dubbio, la natalità.
Gli ostetrici, fautori del parto "dolce", hanno insistito
sugli effetti negativi del vissuto del parto sulla donna.
Odet, Castagner, la Lubisch, la Kissinger hanno sostenuto che l'ospedale,
con i suoi monitoraggi assordanti, le tricotomie, le episiotomie,
i parti cesarci, impedisce ogni ricordo gradevole del parto, trasformato
in una operazione chirurgica che nessuno vuole più ripetere;
vi sono stati movimenti femministi per il parto naturale a domicilio
(Olanda) o in piccole case per il parto (Lubisch), e movimenti per
la presenza di un familiare in sala parto, per la presenza del bambino
presso la madre durante i giorni della maternità per ricreare
un minimo di dolcezza familiare al periodo del puerperio (vi sono
leggi regionali che non sono applicate!). L'Italia sembra essere un
Paese ove si eccede in tecniche chirurgiche addominali (Tab. 7).
Il grande scrivere che si è fatto poi in questi anni e i relativi
programmi televisivi sulla difficoltà del compito di genitori
("Genitori mestiere difficile", il "Circolo dei genitori")
hanno finito con ingigantire i problemi che i genitori si sono trovati
davanti con il bambino che ad esempio non dorme e non mangia, mentre
il senso di colpa della madre lavoratrice extradomestica per non avere
il tempo per il figlio è senz'altro una ulteriore causa di
ansia. Difficile è una valutazione comparativa ma, forse, in
altri Paesi i mass media sono più maturi e meno allarmistici.
Il desiderio di realizzazioni eccessive per il figlio è senz'altro
una caratteristica della fase attuale della nostra civiltà;
la pubblicità commerciale e l'emulazione tra i genitori hanno
fatto sì che si ritiene necessario che il figlio non solo passi
attraverso tutti i gradi del percorso scolastico, ma pratichi anche
la piscina, la palestra, etc., vesta in modo lussuoso e mangi proteine
di alto costo. Naturalmente di fronte a tali esigenze ogni risorsa
familiare risulta inadeguata. E' certo difficile intuire che differenza
può avere l'incidenza di questo gruppo di cause nel nostro
e in altri Paesi.
Sterilità
Non vi sono ragioni scientifiche per ritenere che oggi le condizioni
fisiche dell'uomo e della donna siano meno adatte alla procreazione
di alcuni decenni fa; al contrario, alcune malattie sono scomparse
o comunque molto ridotte (tbc del peritoneo e degli annessi, malattie
blenorragiche degli annessi e degli organi maschili, sifilide, orchiti
batteriche e virali), anche se si sono affacciate nuove affezioni
(AIDS, danno chimico da DDT), ma comunque i numeri chiariscono che
non sono molto aumentati i matrimoni sterili, oscillanti da molti
decenni a circa il 15% dei matrimoni, e, negli ultimi anni, il 20%
dei matrimoni: un lieve aumento, che è spiegabile largamente
già con il fatto che alcuni decenni fa, come si è detto,
il 30% circa dei matrimoni era "riparatore" e perciò
a gravidanza iniziata e non vi potevano essere su tale quota dei matrimoni
sterili. E' invece decisamente diminuito il numero di figli a matrimonio.
Dal lato dei rapporti sessuali è forse possibile ipotizzare,
oggi, una più facile interruzione degli stessi, specie per
rifiuto della donna, che prima doveva comunque accettarli, avendosi
senz'altro un numero elevato di figli da lei non desiderati, ma è
difficile quantificare tale elemento.
Nel complesso, sterilità, infertilità di coppia, impotenza
sembrano avere importanza limitata nell'attuale denatalità.
Problemi economici
Oggi, come si è visto, i figli, di regola, non sono fonte di
ricchezza ma di spesa; adottando per povertà il criterio (1)
preso a modello dalla Commissione parlamentare sulla Miseria, si ha
un aumento dell'incidenza di famiglie povere per famiglie di 4 componenti
rispetto a famiglie di 2-3 componenti, che diviene molto più
rilevante per famiglie di 5 o più componenti. Le famiglie con
un componente sono più povere di quelle con 2-3 componenti,
forse perché nelle famiglie di 1 componente ci sono molti anziani
che, specie nel Nord Italia, proprio per l'assenza o quasi di famiglie
con molti figli, rappresentano una quota rilevante di poveri con redditi
di pensione o comunque redditi non cospicui.
Vi potrebbe essere un certo "BIAS" nella valutazione della
povertà delle famiglie numerose, specie meridionali, perché
i dati sulla natalità rilevano un tasso più alto di
figli proprio nelle famiglie delle zone più depresse del Sud;
in pratica, il dato dice che le famiglie più povere sono le
famiglie numerose, non ci dice però con certezza che queste
famiglie sono povere perché numerose; potrebbero essere numerose
perché povere, o comunque facenti parte di un certo habitat
depresso.
Comunque sia, sono famiglie da aiutare; l'assistenza in alcuni casi
agirà anche contro la denatalità, altre volte servirà
a migliorare la condizione di famiglie già numerose.
Le cause di povertà delle famiglie con più figli sono
non solo nel maggior dispendio per alimentazione, vestiario, spese
di studio, ma anche in quanto sono spesso famiglie mono-reddito, perché
l'orario di lavoro domestico della madre di famiglia (10-11 ore) per
chi ha tre figli (Indagine ISTAT del 1988) diviene incompatibile con
un lavoro extradomestico.
Solo incidentalmente rileviamo che le provvidenze che lo Stato eroga,
addirittura con grosso dispendio, favoriscono le famiglie pluri-reddito;
basterebbe pensare all'incredibile costo degli asili nido, quasi sempre
a favore di famiglie in cui la madre è lavoratrice extradomestica.
Nulla viene fatto per aiutare le famiglie numerose mono-reddito. Certamente
gioca contro di loro il ricordo della vecchia legislazione fascista
che favoriva le famiglie numerose (sgravi fiscali, assegni familiari,
aiuti ONMI, addirittura tassa sul celibato). In effetti, la politica
assistenziale è stata in quest'ultimo cinquantennio per una
contrazione delle nascite; solo da pochi anni ritorna il problema
opposto, ma non si ha il coraggio di affrontarlo con leggi analoghe
a quelle del tempo fascista.
Le formule per aiutare le famiglie con figli e promuovere la natalità
(parliamo di formule di aiuto economico, a parte trattiamo i riposi
di maternità, la riduzione dell'orario di lavoro per le madri,
i problemi di abitazione) sono fondamentalmente tre:
1) Assegni familiari: per i figli delle famiglie mono-reddito.
L'Italia è l'unico Paese che non ha risposto all'inchiesta
in proposito della Comunità Europea; naturalmente abbiamo raccolto
anche i dati italiani, ma sono veramente esigui rispetto alle altre
nazioni (2); queste si distinguono in quelle che non fanno differenza
nell'assegno a seconda che si tratti di primo, secondo o terzo nato,
e quelle come il Lussemburgo, la Francia, il Belgio, la Germania,
che erogano un assegno maggiore quanto più si tratti di figlio
diverso dal primo, fino a giungere nel Lussemburgo ad un assegno 4
volte maggiore per il terzo figlio che per il primo. Questi Paesi
dimostrano chiaramente di comprendere che il problema non è
nell'alimentazione o nel vestiario, ma nell'occupazione della madre
che, con più figli, diviene totalmente inidonea al lavoro extradomestico.
Detta soluzione è parzialmente idonea, perché aiuta
chi è occupato e non chi non ha un lavoro stabile.
2) Sgravi fiscali: esistenti in alcuni Paesi nord europei; soluzione
non raccomandabile perché fornisce un aiuto solo a chi ha redditi
tassabili.
3) Assegni per l'allevamento: soluzione senz'altro preferibile, sia
perché valida per l'occupato e il disoccupato, sia perché
valorizza proprio la funzione materna, essendo attribuito, anche formalmente,
alla madre per l'allevamento del figlio.
Tale soluzione inoltre consente alla comunità di risparmiare
per i bambini grandi e di concentrare l'aiuto proprio per i primi
anni di vita, quando la madre di famiglia o alleva i figli o lavora.
Il risparmio per la riduzione dei nidi pubblici, conseguente ad un
provvedimento del genere, consentirebbe di recuperare buona parte
della somma erogata a tale titolo alle famiglie.
Tale contribuzione pubblica andrebbe divisa in due distinti assegni:
1) Assegno prima infanzia da attribuirsi alle madri di famiglie mono-reddito
durante i primi tre anni di vita del bambino, pari a circa il salario
di 15 ore di lavoro delle lavoratrici dipendenti al grado iniziale.
Per le madri lavoratrici extradomestiche, analogamente, conservazione
dello stipendio senza lavorare pari a 15 ore di lavoro settimanale.
Abolizione dei nidi a spese pubbliche.
2) Assegno (sempre alle madri di famiglie mono-reddito) per figli
minori di qualsiasi età, commisurato alla maggiore spesa per
famiglie al limite dello stato di povertà, in base ai coefficienti
(Comm. Parl.) già descritti. In caso di morte della madre tale
assegno andrebbe corrisposto a chi assumerà la patria potestà
del figlio.
Organizzazione
- Orari - Lavoro femminile
Non vi è alcun dubbio che il desiderio di figli sia di gran
lunga superiore alle concrete possibilità di allevarli (Sintesi
della Vita Sociale Italiana, ISTAT, 1990. Elab. Tab. 6). In pratica,
le difficoltà di allevamento del primo figlio sono il deterrente
per l'allevamento di altri figli; le difficoltà sono, a volte
economiche, ma forse il più delle volte dipendono da una cattiva
organizzazione dei servizi. Visitando un centro sociale a Copenhagen
(non sappiamo quanto il sistema sia generalizzato anche in quel Paese),
si può osservare che all'imbocco obbligato di un quartiere
residenziale, del quale tutti debbono passare per recarsi al lavoro,
in una stessa sede, vi sono l'asilo residenziale e semiresidenziale
per anziani, l'asilo nido, il parco giuochi, la scuola materna, la
scuola dell'obbligo, il centro sportivo.
Tutte queste strutture hanno un orario coordinato tra loro e con gli
orari di lavoro delle madri. Un genitore, in particolare la madre,
può accompagnare i figli di varie età in una sola sede,
visitare un anziano (che spesso può far visita a sua volta
ad un nipotino e contribuire alla sua assistenza) e poi recarsi al
lavoro (per una madre, in quella nazione, quasi sempre a tempo parziale).
Da noi tre figli significano tre itinerari diversi e, spesso, tre
orari diversi, inconciliabili con quelli di lavoro della madre e del
padre, che iniziano spesso prima dell'apertura delle strutture per
l'infanzia, impedendo materialmente la sistemazione dei bambini, almeno
nelle strutture pubbliche (quelle private, ove esistono, se valide,
non possono che essere care).
Esaminando il rapporto annuale sulla situazione del Paese del 1992,
risulta che le donne occupate non svolgono attività casalinga
in ben 1/3 dei casi e svolgono una attività inferiore alle
2 ore al giorno in un altro terzo dei casi; solo in un quarto dei
casi la donna dedica più di tre ore alla casa, al contrario
della casalinga che dedica più di tre ore al giorno alla famiglia
nel 94% dei casi. Una precedente indagine (Istat, 1988) aveva quantificato
il lavoro della donna in casa in 7 ore e 14 minuti, se vi è
un figlio, ed in poco più di 5 ore se non vi sono figli. Anche
se si può ipotizzare che, in caso la donna sia occupata in
un lavoro extradomestico, le ore di lavoro domestico possano essere
ridotte, non si può certo pensare che siano portate senza danno
per i figli, a quanto risulta dal rapporto del 1992. Secondo il rapporto
del 1988, ogni figlio dopo il primo comporta un aggravio per la madre
di circa un'ora di lavoro al giorno, con il che si evince che, per
una donna con lavoro extradomestico a tempo pieno, il carico di lavoro
risulta realmente non tollerabile oltre il secondo figlio.
Di conseguenza, si deprime troppo anche il tempo dedicato dalle madri
alle loro necessità personali e al tempo libero, che passa
da 4 ore e 12 minuti a 3 ore e 30 minuti con il primo figlio e si
riduce di un'ora al giorno per ogni altro figlio; invece, nonostante
una maggiore partecipazione dell'uomo delle coppie giovani alla vita
familiare, l'uomo dedica al lavoro familiare solo un'ora e 4 minuti
nelle coppie con figli, senza particolari variazioni se i figli aumentano;
il suo tempo libero resta poco contratto.
Lo scarso contributo maschile al lavoro familiare deriva anche dalla
cultura e tradizione del nostro Paese e, forse, altrove si è
riusciti ad ottenere una maggiore partecipazione dell'uomo alla vita
familiare; ma nella sostanza il maggior carico ricade in tutti i Paesi
sulla donna, altrimenti non si spiegherebbe, proprio presso i popoli
più progrediti ed in cui più marcata è l'emancipazione
femminile, la diffusione del part-time. Dove più evoluti sono
i movimenti femministi, questi invece di blaterare sulla pari opportunità
per le donne per la carriera prendono atto di questo insostenibile
carico e si preoccupano di garantire, attraverso il part-time, alle
donne un lavoro extradomestico, per non limitarle nella vita sociale
e politica e per consentire loro di contribuire all'economia familiare,
ma liberandole da orari intollerabili e dalla necessità di
scelte drammatiche e conservando nella giornata delle ore per le loro
attività personali e il tempo libero. E' la formula dell'uno
e mezzo (lavoro a tempo intero per l'uomo e a metà tempo per
la donna).
A part-time è appena il 10% delle lavoratrici extradomestiche
italiane e spagnole, contro il 23,8% delle francesi, il 30,7% delle
tedesche, il 40, 1% delle danesi, il 43,6% delle inglesi, il 60, 1%
delle olandesi (Tab. 9).
La caduta della natalità si è avuta in questi decenni
molto più in Spagna e da noi che in questi popoli. Una eccezione
fa l'Irlanda, dove si ha ancora per fenomeno di costume e religioso
la più alta natalità europea e dove il lavoro part-time
è comunque più sviluppato che da noi (16,5%), ma non
come in Germania, Inghilterra ed Olanda, ma dove il tasso di occupazione
femminile (ad esempio per donne senza figli da 20 a 34 anni) è
pari all'80% delle donne di tale età, ma crolla verticalmente
a meno della metà se vi è un figlio in giovane età.
Questi dati riconfermano il valore delle ore di lavoro femminile extradomestico
nel determinare la denatalità, contro il dato che si potrebbe
ritenere di segno diverso, se si esaminasse solo la percentuale di
donne occupate nei vari Paesi. In effetti, in Italia tale percentuale
è tra le più basse d'Europa (Tab. 10) per le donne sposate
senza figli.
Per le donne con
figli si ha nel nostro Paese il minor abbandono del lavoro dopo il
primo figlio, a dimostrazione di uno stato di maggiore necessità
economica e, parallelamente, una marcata contrazione delle nascite
dopo il primogenito. In pratica i popoli del Nord Europa, che sono
quelli in cui l'occupazione delle donne senza figli è maggiore,
trattano il problema dell'allevamento dei figli con il part-time o
con l'abbandono del lavoro, l'Irlanda con l'abbandono massivo dal
lavoro, l'Italia e la Spagna conservando, il più possibile,
il lavoro, ma impedendo la nascita di altri figli. Il part-time è
perciò il modo principe di risolvere il problema della donna
sposata senza abbandonare il lavoro o escludere altri figli.
Il tempo parziale in quei popoli è veramente parziale: 16,2
ore settimanali in Olanda e poco più in Inghilterra, mentre
in Italia è, in media, di 23 ore (Tab. 11).
In Italia, poi, la conservazione del posto è la maggiore preoccupazione,
perché il mercato del lavoro è molto rigido: un posto,
salvo gravi periodi di crisi, è difficile perderlo, ma, se
si perde, non si ritrova più.
Abitazioni
- Urbanistica
Le difficoltà di reperire alloggi, in una società non
di tipo contadino, incidono senz'altro sul numero e la precocità
dei matrimoni. La caduta in Italia dei matrimoni, negli ultimi decenni,
oltre che a variazioni nel costume, con una maggiore accettazione
della convivenza senza matrimonio, specie quando non vengono programmati
figli, dipende anche da difficoltà di reperire abitazioni:
la caduta è infatti dal 1960 al 1990 maggiore in Italia rispetto
alla media europea. Si scende da 7,7 matrimoni per mille abitanti
a 5,3; parallelamente l'Italia è, con la Grecia, il Paese in
cui si è avuto il maggior incremento degli affitti negli anni
1970-80. L'aumento degli affitti è indice della penuria di
abitazioni. L'Italia è, dopo la Francia, anche il Paese in
cui le abitazioni sono più piccole (Tabb. 12 e 13).
Perciò, la difficoltà di trovare alloggio determina
una riduzione della natalità, attraverso una riduzione dei
matrimoni o, comunque, delle nuove convivenze.
Vi è, però, un altro elemento che agisce direttamente
sull'ampiezza della famiglia come, e forse più, del dato bruto
sulla ampiezza delle abitazioni, ed è il tipo di casa. Solo
in Italia e in Germania si vive in appartamenti (Tab. 14), in tutti
gli altri Paesi si vive in case individuali. Oltre l'80% delle famiglie
belghe, britanniche ed irlandesi Vive infatti in villini, mentre in
Italia la percentuale è del 28%. La casa individuale, oltre
ad essere, in media, più ampia, è più facilmente
ampliabile in caso di maggiori necessità familiari, come in
caso di altri figli, specie se di sesso diverso; è costruita,
spesso, su terreno di proprietà della famiglia allargata (vicino,
ad esempio, alla casa dei genitori di uno dei coniugi); consente perciò
una maggiore assistenza nell'ambito familiare, se la donna svolge
lavoro extradomestico e rappresentando non solo il luogo ove si dorme,
ma anche quello in cui si passa il tempo libero (per l'esistenza di
giardino, orto, officina e garage familiari), rende più agevole
e piacevole avere molti figli.
L'uomo, in specie, è molto più disponibile ad occuparsi
dei figli e questi molto più interessati al modello paterno.
Anche senza voler enfatizzare il dato, risulta che i Paesi in cui
le famiglie abitano meno in case individuali (Italia, Spagna, Germania
e Grecia) sono anche quelli a più bassa natalità. Bisogna
anche considerare che la casa individuale, a parte la maggiore frequenza
di rapporti con la famiglia allargata, consente anche una massa maggiore
di rapporti con il vicinato (la gente si parla attraverso i giardini),
mentre abitualmente non conosciamo il nostro vicino di appartamento;
perciò oltre alla più facile assistenza nella famiglia
allargata si gode di più di reciproca assistenza tra le famiglie;
vi è anche una maggiore società spontanea tra i bambini,
che non si è costretti a portare, con fatica, ai giardini pubblici
(ove esistono!).
Nelle case a villini è più facile, perciò, trovare
un'amica che tenga un bambino di una vicina, specie se questa ha un
lavoro a tempo parziale. Quest'ultimo tipo di orario di lavoro è
molto frequente proprio nei Paesi dove le famiglie vivono in villini;
i due fattori agiscono perciò sinergicamente nel consentire
una famiglia meno nucleare.
Da considerare anche che da noi non vi è l'abitudine per gli
studenti di vivere fuori della casa paterna e di offrirsi, contro
vitto e alloggio ed un salario modesto, per la custodia dei bambini
per alcune ore al giorno (è noto il termine "au pair").
Tale soluzione è naturalmente possibile in case ampie, specie
a villini, che lasciano una sufficiente libertà ed autonomia
all'ospite.
Conclusioni
Il problema della denatalità in Italia va affrontato avendo
presente anche quelli della famiglia e della donna e la compatibilità
del bilancio pubblico con le necessità assistenziali e con
la crisi dell'occupazione.
La denatalità italiana, superiore a quella di tutti gli altri
Paesi nel mondo occidentale, va frenata non solo e non tanto per il
rapporto elevato tra pensionati e lavoratori attivi, compensabile
in parte almeno in futuro dalla più alta produttività
del lavoro e con l'innalzamento dell'età di pensionamento,
ma per conservare alla famiglia una capacità di allevamento
e di educazione dei figli, atteso tra l'altro il fallimento delle
soluzioni extrafamiliari (nidi, comuni, comunità) in questi
compiti. In famiglie come le attuali, di 2,8 persone di media (nell'Italia
del Nord anche meno), non vi sono fratelli, e spesso, oltre al padre,
manca anche la presenza materna; in Italia vi sono perciò le
peggiori condizioni per la persistenza delle funzioni familiari, anche
se nelle aspirazioni il modello di famiglia mediterraneo a discreta
stabilità, con matrimonio inteso come necessario ad avere figli,
è da noi più diffuso che altrove.
Tutto ciò è confermato dallo Studio multiscopo sulle
famiglie dell'ISTAT, che rivela, nelle donne, una generale aspirazione
ad avere un numero di figli ben maggiore di quello che si ha in realtà.
I figli in Italia si vogliono avere più che in altri Paesi
occidentali, ma in pratica se ne hanno di meno, perché non
si possono avere, tra l'altro, per mancanza di una seria politica
familiare. In Italia cioè si è fatta una politica per
la donna, basata su istanze femministe e si è fatta una politica
per la donna e non per la famiglia, anzi per la donna contro la famiglia,
nel senso di favorire l'uscita della madre di famiglia al lavoro extradomestico.
Sono stati favoriti i nuclei pluri-reddito, con ad esempio la gestione
a spese pubbliche di nidi, con costi di 20-25 milioni l'anno a bambino,
mentre si è data la più bassa corresponsione in confronto
degli altri Stati CEE di assegni familiari alle famiglie mono-reddito
e non vi sono state agevolazioni fiscali per carichi di famiglia.
Dove la donna svolgeva lavoro esterno si sono dati, più o meno,
tre stipendi, uno al marito, uno alla moglie ed uno per il nido dei
figli.
Non si è poi tenuto conto che la crisi dell'occupazione, oggi
interessata da fenomeni congiunturali, ma entro certi limiti, è
strutturale e va combattuta non certo spingendo le madri, già
gravate di oltre 7 ore di lavoro domestico, se hanno un figlio e di
oltre un'ora di più per ogni altro figlio (ISTAT), a dover
sacrificare oltre il lecito non solo il tempo libero, ma anche il
tempo dedicato a se stesse e al riposo. Il tempo per i figli sarà
inoltre ridotto oltre il lecito (da sette ore si passa nella migliore
delle ipotesi per le lavoratrici extradomestiche a 3 ore, sempre secondo
i dati ISTAT).
Nei popoli con una sana politica familiare (Olanda, Danimarca, Germania,
Francia, Inghilterra), si è fatto largo uso per le donne sposate
del part-time (non di 23 ore come nei rari casi ove da noi è
stato applicato, ma di 15-16 ore settimanali e con orari flessibili),
con la conseguenza di una riduzione o abolizione dei nidi a spese
pubbliche e con la possibilità per le madri di stare il tempo
dovuto con i figli. La soluzione è stata in tali Paesi richiesta
o comunque accettata dalla maggioranza delle madri. Il part-time libererà
inoltre un certo numero di ore lavorative (il calcolo è difficile,
ma forse si potrebbe parlare in Italia di alcune centinaia di migliaia
di nuovi occupati).
Per le famiglie mono-reddito le soluzioni possono essere di tre tipi:
a) Sgravi fiscali familiari: soluzione a nostro parere poco valida,
perché a favore di chi ha un'occupazione (una buona parte delle
famiglie povere, specie del Sud, ha il capofamiglia disoccupato, o
che, comunque, non ha redditi tassabili);
b) Assegni familiari: il problema è analogo;
c) Assegni alla madre che alleva i figli, divisi in due parti: assegno
modesto (calcolato sulla base della maggior spesa familiare per consumi,
secondo lo schema della Commissione parlamentare sulla Miseria), per
ogni figlio, limitato alle famiglie da considerarsi povere, ed assegno
prima infanzia, più cospicuo, per tutte le madri che allevano
figli di meno di tre anni e che, perciò, non possono svolgere
attività extradomestica.
Questi assegni rappresentano inoltre un provvedimento di urgenza in
caso di separazione o vedovanza, perché intestati alla madre,
che non deve per allevare i figli attendere provvedimenti del Tribunale
e dei Comuni, senza alcuna base economica, almeno provvisoria. Tale
soluzione, oltre a non discriminare chi non ha redditi, conferisce
maggiore autorità e maggiore autonomia alla madre nella gestione
sua e dei suoi figli. Naturalmente, la politica per la famiglia e
contro la denatalità va completata con la coordinazione dei
servizi e degli orari delle scuole, degli uffici e dei posti di lavoro,
con una più umana gestione della gravidanza e del parto nelle
strutture assistenziali, con una politica della casa che favorisca
centri abitativi a villini, come avviene già ora in tutta l'Europa
comunitaria, meno appunto in Italia e in Germania. Tale tipo di abitazione
risulta molto più confacente alle famiglie con figli. Tutto
ciò sarà possibile solo con una adeguata attività
di promozione che valorizzi non la madre di famiglia nell'attività
extradomestica, e neppure la donna tra i fornelli, ma, come si registra
ora in Europa, la donna che ha una sua modesta indipendenza economica
con la quale riesce anche ad aiutare la famiglia.
Questa donna conserva tempo ed energia per curare adeguatamente i
propri figli e non è costretta a mandarli ad ammalarsi nei
nidi, in un'età in cui hanno bisogno di vivere tra le figure
parentali, e conservare anche una disponibilità di tempo per
assistere gli anziani. Il part-time e l'assegno alla madre rappresentano
cioè un equilibrio tra le due esigenze di donna madre e di
donna inserita nella società o che svolge per la società
un compito prezioso, la cura delle nuove generazioni.
1) L'usuale definizione statistica di povertà poggia sui concetti
di reddito percepito o di spesa sostenuta, sebbene, evidentemente,
tali elementi non siano in grado da soli, di fornire un quadro globale
della situazione economica di una persona o di una famiglia.
Ciò premesso, una famiglia composta da due individui si può
definire povera quando il suo reddito è pari o inferiore al
reddito medio pro-capite ed è, pertanto, costretta a vivere
con l'entrata sulla quale può contare in media, nell'anno considerato,
una sola persona.
La Commissione di Indagine sulla Povertà, istituita presso
la Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1984, ha calcolato, proprio
a partire dai dati Istat sui bilanci delle famiglie, una scala di
equivalenza tra le differenti dimensioni familiari. Ad esempio, fatto
100 l'ammontare dei consumi necessario ad una famiglia di due componenti,
aggiungendo un terzo individuo è necessario un incremento di
spesa pari al 33%. In dettaglio, i coefficienti corrispondenti alle
varie dimensioni risultano pari a 60 per le famiglie unipersonali,
a 100 - come si è detto - per le famiglie di due componenti;
a 133, 163, 190, 216 e 240 per le famiglie con un numero di componenti
via via e immediatamente superiore.
Tali coefficienti sono stati ricavati considerando equivalenti i redditi
di famiglie con un diverso numero di componenti quando esse destinino
la stessa quota di spesa per i generi alimentari. Tuttavia, tale scala
non permette di eliminare l'effetto sulla spesa dei modelli di comportamento
propri delle diverse generazioni e, quindi, di attribuire parte delle
differenze riscontrabili, da un lato, alle scelte di vita più
o meno morigerate rispetto al consumo di taluni beni e, dall'altro,
alle diverse disponibilità economiche delle unità familiari.
2) In corso di stampa, il Governo ha proposto, in seguito ad intervento
della Corte dei Conti, degli assegni per le famiglie mono-reddito.
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