§ MONDO DUEMILA

IL CASO ITALIA




Mario Monti



Nel corso di questi ultimi anni, la presidenza del Consiglio dell'Unione europea ha acquistato un'importanza sempre crescente nel determinare l'evoluzione delle vicende comunitarie. Innanzitutto, il Trattato di Maastricht, introducendo la politica estera e di sicurezza comune e la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni, ha attribuito competenze specifiche alla presidenza di turno, come, ad esempio, il compito di rappresentare l'Unione e di esprimerne le posizioni sul piano internazionale. In secondo luogo, il sempre maggior ricorso al voto a maggioranza per le decisioni in materia comunitaria implica un ruolo di mediazione politica indispensabile per ottenere in tempi ragionevoli soluzioni di compromesso equilibrate per tutti. La responsabilità della presidenza, quindi, da meramente procedurale è diventata col tempo una vera e propria responsabilità politica.
Nell'immediato futuro, obiettivo prioritario dell'attività comunitaria sarà la transizione verso la moneta unica, da cui dipende la credibilità stessa dell'Unione economica e monetaria e, parallelamente, la concreta messa in opera della strategia di lotta alla disoccupazione. E' naturale perciò attendersi comportamenti coerenti anche nell'ambito delle politiche nazionali. Alla vigilia di un salto importante di livello dell'integrazione comunitaria, in cui ci si appresta ad abbandonare uno dei simboli più importanti dello Stato-nazione come la moneta, inevitabilmente la fiducia e la credibilità reciproche nell'impegno comune diventano un fattore essenziale. Oggi, il modo e la determinazione con cui un Paese mette ordine nella sua economia (per il suo futuro, ancor prima che per il rispetto di un Trattato internazionale) sono misura della sua affidabilità.
Anche per questi motivi è necessario rafforzare l'impegno in favore della convergenza. Sarebbe molto negativo ammettere oggi che l'obiettivo di risanare il bilancio pubblico nella misura richiesta non sia raggiungibile nel 1997. Ciò equivarrebbe a dire fin da ora che l'Italia non sarà nel gruppo dei primi partecipanti alla moneta unica, legittimando così quelle dichiarazioni che, giustamente, tanto urtano gli italiani quando sono fatte da personalità straniere. Ritengo invece che l'Italia abbia ancora la possibilità di arrivare all'esame finale per partecipare alla moneta unica, qualora si rafforzasse il programma di risanamento per conseguire già nel 1997 il parametro del tre per cento per il deficit pubblico in rapporto con il prodotto lordo.
Certo, è un'operazione di dimensioni notevoli, ma non superiore a quelle che la Danimarca e l'Irlanda hanno condotto con successo negli anni Ottanta. Altrimenti, con quale forza e convinzione si riuscirà a combattere negli altri Paesi alcune tendenze centrifughe, volte a ritardare l'introduzione della moneta unica? Perché rinunciare da subito ad aderire alla moneta unica, in compagnia per esempio del Belgio (che tuttora presenta un rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo maggiore dell'Italia) nel primo turno, rischiando poi di doversi misurare con i Paesi dell'Europa centro-orientale, molti dei quali presentano già oggi una situazione finanziaria più sana della nostra?
Il governo italiano ha opportunamente modificato la propria posizione. Riconosce, ora, che è necessario e possibile puntare al tre per cento nel 1997, non nel 1998.
Acquistata questa consapevolezza, mi sembrano necessari tre passi ulteriori: Primo: affinché l'impegno sia credibile, vanno rafforzate le manovre finanziarie.
Secondo: il Parlamento e le forze politiche devono accettare la nuova impostazione. Terzo: questo impegno dovrebbe venire svincolato dalle polemiche della cronaca politica quotidiana per diventare oggetto di una sorta di patto costituzionale.
D'altra parte, gli inevitabili sacrifici saranno meno pesanti oggi rispetto a quello che risulteranno fra qualche anno, grazie all'avvio di quel "circolo virtuoso" che permetterà di trarre benefici in termini di nuova crescita e maggiore occupazione a tutto vantaggio delle generazioni future. Va chiarito, a scanso di equivoci, che un tale "impegno di responsabilità" non eliminerebbe il dibattito squisitamente politico sulle proposte dei diversi schieramenti quanto alla natura, alle dimensioni della spesa e delle entrate. Esso porrebbe soltanto un vincolo al saldo finale fra entrate e uscite del bilancio, ripercuotendo a livello nazionale esattamente lo stesso vincolo che l'Italia ha sottoscritto con il Trattato di Maastricht.
Solo così sarà possibile mettere concretamente in atto le politiche macro-economiche necessarie per porre il sistema-Italia in grado di trarre tutti i benefici dal grande mercato unico europeo e assicurare pertanto una crescita a lungo termine e la creazione di nuovi posti di lavoro. Anche l'immagine esterna dell'Italia ne trarrebbe beneficio, permettendole di misurarsi da protagonista con i problemi comunitari e di confermare così un suo ruolo di primo piano nel processo di integrazione europea.
Perdere questa occasione potrebbe voler dire veramente allontanare l'Italia dall'Europa per molti anni. Le forze politiche devono essere pienamente coscienti della responsabilità che esse oggi si assumono: è giunto il momento in cui l'europeismo di facciata deve lasciare il posto a comportamenti concreti che siano coerenti con le dichiarazioni di principio.


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