§ SVILUPPO OLTRE FRONTIERA

IMPRESE DA SBARCO




M. B.



Ha cominciato molto bene la Spagna. La Conferenza di Barcellona, come hanno riconosciuto un po' tutti, ha segnato un punto fermo nei rapporti tra l'Unione europea e i Paesi nordafricani e mediorientali. Un punto fermo e sostanzioso: diecimila miliardi di investimenti da stanziare nel giro dei prossimi due-tre anni a favore dei Paesi che si affacciano sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Ecco, dunque: la vera politica estera della Comunità europea comincia proprio da qui. Dal primo atto concreto dopo anni di discussioni sui rapporti tra Nord e Sud del mondo.
Forse mai come in questi nostri tempi la sorte complessiva dell'Unione è legata anche a questi rapporti, una volta relegati in secondo piano. Negli ultimi anni almeno due milioni di nordafricani si sono trasferiti nei Paesi europei, contro - tanto per avere un raffronto - circa un milione di immigrati in Germania e altrove dall'Europa centro-orientale. Ma non basta. Entro cinque-dieci anni nei Paesi dirimpettai dell'Italia, dal Marocco all'Egitto, fino alla Turchia, ci saranno per lo meno quattrocento milioni di abitanti. Sorpasso, quindi, nei confronti degli oltre trecento milioni di abitanti dell'Europa comunitaria. Davanti a questo scenario, è chiaro che la cooperazione economica diventa un tema fondamentale. Ma -e qui si può porre la domanda sottesa in partenza - come spendere quei diecimila miliardi a disposizione?
Facile prevedere: sorgerà un problema delicato. Gli industriali italiani, ad esempio, si candidano per avere voce in capitolo. La proposta avanzata dal direttore delle relazioni internazionali della Confindustria è questa: l'idea è di costituire una sorta di segretariato di appoggio alla Commissione europea, cui naturalmente spetterà la gestione dei fondi per il Sud del Mediterraneo. Chi dovrebbe farne parte? La cosa più logica sarebbe coinvolgere le associazioni industriali dei Paesi latini: Italia, Francia, Spagna e Portogallo. Il ragionamento si poggia anche sull'unico precedente in materia di cooperazione economica: è il Fondo Alinvest (America Latina Investment), dotato di circa due miliardi di Ecu (quattromila miliardi di lire) da spendere in tre anni. Ebbene, proprio in quell'occasione, gli organi comunitari vennero affiancati dai rappresentanti degli industriali latini.
Ma l'eventuale segretariato di imprenditori sarebbe comunque solo il primo passo. L'altro è rappresentato dall'occasione di trapiantare un modello di sviluppo economico nei Paesi a Sud dell'Europa. Di che cosa si tratta? Presto detto: qual è, ad esempio, il punto di forza dell'economia italiana? Risposta: le piccole e medie imprese. Bene, se così è, non resta che esportare questa formula industriale e attendere i risultati. D'altra parte, proprio l'Italia si sta muovendo in questa direzione anche con un programma sperimentale (1,6 miliardi di lire) studiato con l'Unido (l'Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale). Nello stesso tempo, gli italiani hanno già pianificato incontri speciali da dedicare alla cooperazione con il Sud. Temi in agenda: prevalentemente, quelli legati al tema della piccola e media impresa.
Tutto perfetto, dunque? Non proprio. Non è così facile. Anzi, l'impostazione italiana rischia di portare alla luce una serie di difficoltà che hanno accompagnato sotto pelle l'Unione europea negli ultimi tempi.
Esempi? Tanto per cominciare, c'è il dossier agricoltura. Gli europei si trovano di fronte a un duplice ordine di problemi. Da una parte, si deve completare la riforma del settore e ritornare, per la millesima volta, sulla redistribuzione delle quote di produzione (quanti pomodori, quanti cereali, quanta e quale frutta possono mettere sul mercato i singoli Stati membri?). Ma dall'altra parte ecco presentarsi una faccenda inedita, quanto complicata.
A Barcellona si è deciso, fra l'altro, di costituire una zona di libero mercato tra Nord e Sud Mediterraneo entro il 2010. Ma l'accordo riguarda soltanto i prodotti manifatturieri (quindi, industria e artigianato). E i prodotti agricoli? Nessuna intesa. Solo un vago accenno a prendere in esame possibili scambi "quando le politiche dei singoli Stati lo consentiranno". Traduzione: italiani, spagnoli, francesi non possono consentire agli agrumi tunisini e ai cereali egiziani di invadere i mercati di Helsinki piuttosto che di Vienna o Londra. Guarda caso, però, quei Paesi vivono in grandissima parte proprio di agricoltura. Ecco allora la grave contraddizione: con una mano l'Unione europea porge capitali e assistenza tecnica; ma con l'altra blocca alle frontiere le esportazioni più importanti. Come se ne esce? Per avere un'idea dei contrasti che potrebbero nascere all'interno dell'Unione è sufficiente prendere buona nota della proposta avanzata da un dirigente del ministero per la Cooperazione economica della Germania: "Non c'è altra via d'uscita che aprire completamente le porte ai prodotti agricoli extraeuropei. Nello stesso tempo bisogna tagliare i contributi per le produzioni comunitarie. Piuttosto sarebbe meglio finanziare i contadini italiani, francesi e spagnoli perché tutelino il paesaggio e l'ambiente rurale".
Qualche difficoltà potrebbe sorgere anche su un altro fronte: quello dei rapporti con gli Stati Uniti. L'Unione ha cercato di riattivare un collegamento economico con gli Usa che si era andato sfilacciando progressivamente. Risultato: la creazione, entro il 2000, di un nuovo canale commerciale transatlantico (la cosiddetta Nat, Nuova agenda transatlantica). Ma gli americani, pur orientati ormai decisamente verso i mercati asiatici, non hanno rinunciato a proporsi come interlocutori anche per il bacino del Mediterraneo. La prova? Entro un anno, al massimo, partirà una banca con cinque miliardi di dollari di capitale e un programma di finanziamenti nella regione mediorientale, con fulcro in Israele. Nell'operazione saranno coinvolti anche gli europei. L'Italia, ad esempio, sarà chiamata a sottoscrivere una quota del cinque per cento del capitale (400 miliardi di lire). Ma la direzione operativa - su questo ci sono pochi dubbi - sarà nelle mani degli Stati Uniti. Evidentemente, col rischio di sovrapposizione con le iniziative dei governi e degli imprenditori della Unione europea.
Tuttavia, non sembra esserci alternativa. I tedeschi, ma anche i danesi, gli olandesi, gli austriaci e in fondo tutti i Paesi del Nord Europa, sono sempre più convinti che l'Unione europea deve affrontare una concorrenza a tutto campo con chiunque. Vecchi alleati e Paesi emergenti. E allora: gli Stati Uniti guardano verso il Far East, il lontano Oriente? Benissimo. Gli europei non possono che fare altrettanto.
A questo hanno mirato, in ordine di successione, le presidenze spagnola e italiana della Commissione europea. E a questo debbono mirare le altre presidenze, fino a quando si sarà presa coscienza della globalizzazione dei mercati. La partita è planetaria. Sarebbe un errore madornale, e letale, restarne fuori; o, peggio ancora, uscirne sconfitti.


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