Nel gergo politico
si trovano talvolta parole che caratterizzano un'epoca. Così
l'impegno di tipo ideologico e razionalistico degli anni 60-70 e lo
sdegno odierno, concepito come teorema giustizialista e macchina letteraria
di contestazione globale. Così per un futuro possibile la parola
regno che potrebbe imporsi attraverso un catechismo restauratore o
più semplicemente con la voglia di democrazia blindata.
Se dalle mode fugaci del linguaggio dei media si passa alla pratica
legislativa si nota invece una costante, pertinace, univoca determinazione
politica: occupare attraverso le burocrazie centrali e periferiche
ogni forma organizzata di vita collettiva.
La legge-quadro sul volontariato, nata quando i percorsi legislativi
erano ancora regolati dal vecchio orario ferroviario, è un
prodotto emblematico di questa visione manichea della politica italiana.
Si sollecita il miracolo economico del capitalismo privato e si licenziano
leggi interventiste. Si chiede a gran voce l'antitrust per TV e carta
stampata e si opera senza scalfire le posizioni dominanti del capitalismo
di Stato (le privatizzazioni attuate finora hanno la stessa valenza
dei condoni, servono a drenare denaro dal risparmio privato ma non
alterano i consolidati equilibri della geografia economica).
Nell'attuale situazione di stallo gli enti non-profit costituiscono
l'unica incognita da seguire con interesse. Essi possono dare al sistema
nuovo dinamismo, occupando gli spazi lasciati vuoti dallo Stato e
dal Mercato. Se poi si considera che il volontariato si contraddistingue
già per un notevole impegno assunto nei settori dell'assistenza
e della protezione civile, si comprende l'interesse riservato al suo
assetto legislativo e più in generale alle connessioni ch'esso
presenta con il variegato mondo del non-profit.
Già esistono obblighi legislativi che hanno creato circuiti
finanziari tra le fondazioni impegnate nel settore del credito e le
organizzazioni del volontariato. A tale scopo è stata prevista
"la costituzione di fondi speciali presso le regioni al fine
di istituire, per il tramite degli enti locali, centri di servizio
a disposizione delle organizzazioni di volontariato e da questi gestiti,
con la funzione di sostenere e qualificarne l'attività"
(art. 15 Legge 11.8.1991). Ancora un'invenzione ancien régime
per trasformare le confraternite di S. Vincenzo in confraternite di
Templari.
Se a questo si aggiunge l'istituzione dell'Osservatorio nazionale
per il volontariato già operante presso il Dipartimento degli
affari sociali e l'istituzione di Registri generali per le organizzazioni
di volontariato tenuti da Regioni e Province autonome si ha un panorama
completo della fervida progettualità "burocratica"
che ha animato l'opera razionalizzatrice del legislatore.
Certo non si può pensare ora di abrogare una legge che nel
tentativo di mettere ordine qualche merito pure lo ha. Però
si può fare molto per rendere più "aziendali"
e coordinati i nuclei di gestione delle diecimila organizzazioni dedite
al volontariato e più trasparente e mirato l'impiego del denaro
pubblico erogato attraverso l'Osservatorio e le convenzioni con le
Usl e le autonomie locali. Inoltre valutazioni di fonte bancaria stimano
tra i 2.000 e i 3.800 miliardi gli utili derivanti dalle privatizzazioni
realizzate nel settore del credito che le fondazioni da poco costituite
potranno destinare nel prossimo futuro ad investimenti sociali.
Dunque dall'epoca eroica dei pionieri occorre passare alla logica
delle "economie di scala". I progetti finanziati vanno affidati
a nuclei operativi professionali la cui gestione dovrà essere
valutata con i risultati conseguiti e le analisi di bilancio. Nel
settore non-profit ciò richiede metodologie particolari perché
non si ha come riferimento un valore di scambio bensì la valutazione
dei servizi resi.
Proprio il duplice ruolo che le fondazioni bancarie avranno, nel non-profit
e nel controllo della proprietà degli istituti di credito,
alimenta un dibattito istituzionale di indubbio interesse. Le intenzioni
iniziali del legislatore erano piuttosto modeste. La legge Amato (218/90)
ed il decreto legislativo 356/90 avevano semplicemente individuato
nel rapporto dialettico banca-fondazione lo strumento tecnico che
consentiva la trasformazione in SpA dell'azienda bancaria. I compiti
istituzionali della fondazione riguardavano soltanto la gestione delle
partecipazioni ad essa conferite, restando escluso ogni suo coinvolgimento
nell'attività creditizia.
I confini angusti e circoscritti assegnati alla fondazione hanno di
fatto bloccato il processo delle privatizzazioni nel settore del credito
fino a quando gli ostacoli maggiori non sono stati rimossi (legge
474/94). Ciò ha consentito di compiere le prime privatizzazioni
di settore che tuttavia non sembrano riscuotere tra i privati larghi
consensi. Un esempio per tutti. Con solerte impegno riformatore le
76 Casse di risparmio si sono trasformate in SpA e gli enti che ne
controllano la proprietà detengono a tutt'oggi l'84% del capitale
mentre solo una quota pari all'8% è stata acquistata dai privati.
Ciò non esclude che tali enti possano utilizzare le cospicue
risorse disponibili per i propri fini istituzionali (dovrebbero operare
in forma d'impresa ma non hanno ancora organizzazione e veste tecnico-giuridica
adeguate).
Ovviamente, l'incremento della vendita titoli ai privati accrescerebbe
la loro liquidità e quindi gli impieghi nella cultura e nel
sociale. Un primo esame sui rendiconti di 44 fondazioni (Fonte: Newfin-Università
Bocconi) ha evidenziato la tendenza ad immobilizzare il patrimonio
nell'attività bancaria (circa il 90%, con redditività
modesta). Le erogazioni effettuate impegnano il 28% dei ricavi mentre
gli accantonamenti a riserva risultano pari al 68%. Si respira dunque
un'aria di prudente attesa, di riflessione sulle potenzialità
di sviluppo percorribili. Sotto la spinta di questa complessa tematica
e delle più generali istanze di riordino avvertite per tutte
le istituzioni di carattere privato (fondazioni, associazioni, comitati,
ecc.) il dibattito in corso investe a tutto campo la normativa che
regola questa materia.
Sulla scia di quanto già da tempo è stato sperimentato
con successo nella realtà tedesca con il riconoscimento alle
fondazioni della capacità giuridica per l'esercizio di attività
d'impresa. E con riferimento anche alla "Not-For-Profit Corporation
Law" in vigore negli Stati Uniti. Questa legge consente alla
"Corporation" ampia liberalità nell'organizzare e
perseguire i fini istituzionali, ma contiene seri strumenti di controllo
per assicurare la corretta gestione dei fondi (pubblici, privati,
misti) e il rispetto delle finalità sociali.
Il nostro Codice Civile del 1942, proponendo la distinzione tra associazioni
riconosciute e non, faceva discendere dall'atto concessorio della
personalità giuridica un riconoscimento normativo che sottintendeva
una valutazione "politica" delle prerogative e delle finalità
perseguite dalle istituzioni riconosciute. Questa discriminante valutazione
di merito è stata superata con l'entrata in vigore della Carta
costituzionale del 1947. L'art. 2 "riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell'uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua personalità ...",e quindi elimina
le disparità implicite nella normativa civile.
L'attuale istruttoria per il rilascio del decreto concessorio ad associazioni
e fondazioni ha un significato diverso. Adempie ad una funzione ricognitiva,
tecnico-formale, in vista della omologazione dell'atto costitutivo.
Naturalmente per le associazioni la facoltà di richiedere o
meno il riconoscimento della personalità giuridica implica
una valutazione discrezionale degli associati sull'attività
dell'ente e sugli impegni che i soci amministratori intendono assumere.
Per linee generali, in caso di associazione non riconosciuta si ha
responsabilità personale e solidale a carico degli amministratori,
mentre con il riconoscimento della personalità giuridica si
ottiene la separazione della responsabilità patrimoniale dell'ente
da quella personale.

L'ente riconosciuto
inoltre ha autonoma capacità per accettare eredità,
legati e donazioni (artt. 600 e 786 c.c.), cosa non di poco conto
per l'acquisizione di fondi da destinare all'attuazione degli scopi
sociali.
Tuttavia, quando sussistono ragioni evidenti di tutela dell'interesse
generale, alcune espressioni associative di maggiore rilevanza sociale
ed istituzionale andrebbero assoggettate all'obbligo ex legge del
decreto autorizzativo. Ciò consentirebbe di assicurare pubblicità
legale e trasparenza amministrativa agli atti di gestione che in ossequio
agli obblighi di legge offrirebbero almeno ai cittadini maggiori garanzie
formali (nella dottrina costituzionale non sono pochi a ritenere ammissibile
l'istituto della "registrazione" dei partiti politici).

Sono comunque
i rapporti tra fondazione ed impresa che ora accentrano l'interesse
del dibattito. Certamente la coesistenza tra attività d'impresa
e fondazione non è nuova nella realtà italiana. Si pensi
agli enti che svolgono attività culturale e di spettacolo,
facendo coesistere finalità istituzionali e commerciali. Ma
i nuovi e più rilevanti impegni economici ora affidati alla
fondazione sollecitano diversi spunti di riflessione in vista di una
organica modifica dell'attuale disciplina civilistica codificata.
Abbiamo elaborato uno schema sintetico delle proposte più significative
emerse in dottrina:
a) Gli utili conseguiti da associazioni e fondazioni che svolgono
attività d'impresa, oltre al finanziamento dell'impresa, devono
essere destinati alla realizzazione degli scopi istituzionali;
b) E' vietata la divisione del patrimonio tra gli associati e l'attribuzione
ai fondatori in caso di estinzione dell'ente che ha esercitato attività
d'impresa;
c) Le associazioni e le fondazioni iscritte nel Registro delle persone
giuridiche (tenuto dalla Cancelleria del Tribunale civile) sono obbligate
ad utilizzare i modelli di contabilità e di bilancio predisposti
dalla speciale Commissione nazionale di vigilanza (da istituire);
d) Per gli acquisti immobiliari e a titolo gratuito le associazioni
e le fondazioni devono agire liberamente, eliminando ogni forma di
autorizzazione ora richiesta (art. 17 c.c.);
e) Nelle fondazioni il potere di annullamento delle delibere appartiene
all'autorità amministrativa, ma se si intende riconoscere ad
esse piena autonomia operativa questo criterio va soggetto a revisione
utilizzando per quanto possibile gli schemi collaudati dell'impianto
societario (art. 25 c.c.);
f) Sotto il profilo fiscale agli enti non-profit va riconosciuta l'esenzione
dall'imposta sul reddito o una consistente detrazione dal reddito
imponibile, in ragione delle rilevanti finalità sociali perseguite.
L'Internal Revenue Code 1954 e successivi emendamenti, in vigore negli
Stati Uniti, prevede l'esenzione dall'imposta sul reddito per una
lista lunga e dettagliata di organizzazioni non-profit (scuole, musei,
biblioteche, alcuni ospedali, ecc.);
g) Lo statuto dell'ente deve prevedere un organo interno di vigilanza.
Va comunque garantita la più completa estraneità ed
indipendenza ai suoi membri, soprattutto rispetto ai soci e agli amministratori.
Il Board of trustees operante negli enti non-profit statunitensi potrebbe
costituire un utile riferimento;

h) Va costituita una Commissione nazionale di vigilanza per tutti
gli enti non-profit. Essa deve predisporre criteri univoci di contabilità,
precise modalità per la redazione e la certificazione dei bilanci
ed esercitare poteri ispettivi sull'amministrazione degli enti;
i) In caso d'insolvenza dell'impresa strumentale occorre stabilire
una norma che renda l'ente di riferimento assoggettabile alle procedure
concorsuali;
l) Va introdotto un divieto espresso a carico dell'ente non-profit
per lo svolgimento di attività che possano direttamente o indirettamente
influenzare i lavori parlamentari, dare sostegno a campagne politiche
di persone, partiti o movimenti organizzati, compiere opera di propaganda;
m) La sede legale dell'ente deve essere su territorio italiano, mentre
le sue attività possono essere svolte in Italia e all'estero;
n) In caso di fusione o incorporazione tra enti non-profit occorre
stabilire espressamente che tutti i servizi operanti al momento della
fusione devono essere garantiti.
L'impegno nel sociale non può restare un fine puramente nominalistico.
Di fronte al crescente pericolo di una articolazione duale della società,
con i poveri in crescita che diventano sempre più poveri (per
l'ISTAT è povero colui che consuma meno della metà del
consumo medio nazionale) e i ricchi sempre più ricchi, la redistribuzione
dei compiti tra Stato e Mercato lascia vuoti molti spazi lungo le
linee direttrici di una corposa domanda sociale (arti, scuola, cultura,
ricerca, formazione professionale, sanità, assistenza, immigrazione,
ecc.). Gli enti non-profit possono occupare stabilmente questi spazi
con proprie, autonome gestioni.
Alle soglie del 2000 si va quindi delineando un nuovo patto sociale,
una triplice alleanza che potrebbe sperimentare forme nuove di coesione
là dove il modello attuale produce divisione, contrapposizione
ed isolamento. Forse la futura "condizione sociale" finirà
per identificarsi proprio con il livello delle prestazioni che volontariato
e non-profit sapranno fornire. Perché funzioni questa triplice
alleanza occorre un disegno strategico globale in cui il cittadino
diventi animatore indiscusso dello spirito di solidarietà e
delle sue proiezioni istituzionali. Incentivando l'associazionismo
su base civile e religiosa, i lasciti e le donazioni individuali;
disponendo la detassazione di sovvenzioni e contributi versati ai
fondi degli enti non-profit si promuoverebbero significativi atti
di liberalità che oltre all'apporto economico avrebbero anche
un forte significato di crescita morale e democratica.
Nello stesso tempo si qualificherebbe la leva fiscale dello Stato
nel suo significato più proprio, orientando almeno in parte
la redistribuzione del reddito con una valenza sociale palpabile.
In quest'ottica l'apporto di denaro pubblico finirebbe per risultare
residuale, indirizzato soprattutto alla necessità di fronteggiare
lo zoccolo duro della indigenza.
Se si riflette sulla circostanza che soltanto la rivoluzione informatica
e multimediale è destinata a produrre forme molteplici di emarginazione
(per aree geografiche, settori produttivi, fasce generazionali) ci
si rende conto che non può essere solo e sempre lo Stato a
dare risposte risolutive. Purché la forma-Stato e le istituzioni
civili intendano dare voce ad espressioni concrete di partecipazione
popolare e non siano il collaudato coperchio di un calderone in cui
ribollono continue e contraddittorie manovre di dirigismo economico.
E' probabile che per muoversi in questa direzione non ci sia ancora
un sufficiente back-ground culturale, ma almeno un po' di logica razionalista
dovrebbe consentire quel minimo denominatore necessario per produrre
riforme minime, illuministiche se non illuminate. Se un treno viaggia
a venti all'ora i passeggeri non possono fare nulla per aumentare
la velocità!
Una riflessione sulla nuova organizzazione della società civile
non può prescindere dal ruolo assegnato alla solidarietà
sociale. Certamente dovranno trovare spazio nella realtà giuridica
ed economica organizzazioni senza fini di lucro gestite con professionalità,
"aziende" che perseguono l'equilibrio economico finanziario
come condizione prima del loro operare.
Ma occorre andare oltre l'attuale mecenatismo d'impresa. La pratica
della solidarietà va promossa su larga scala. Occorre far convivere
ragione e carità, attribuendo al concetto cristiano di charitas
una valenza operativa nuova, fuori dagli stereotipi che lo vogliono
astrattamente ingabbiato nel decalogo dei comandamenti del perfetto
borghese. Per coagulare un vasto, spontaneo, sincero impegno partecipativo
e sottrarre il più possibile la progettualità degli
impegni a sfondo sociale ai consueti e triti circuiti finanziari della
realpolitik.
La legge sul volontariato è bene che viva, ma è altrettanto
necessario che i veicoli finanziari proposti risultino circoscritti
per entità e metodo. A tutt'oggi le maggiori fonti di finanziamento
impegnate nel volontariato provengono da convenzioni con enti pubblici,
ma già nel 1994 le Casse di risparmio avevano erogato per finalità
sociali 318 miliardi, di cui 19 destinati ai fondi speciali istituiti
presso le Regioni.
Se si considera che per il 1995 circa il 10% del Pil statunitense
è imputabile ad attività non-profit mentre da noi il
fenomeno è ancora in fase embrionale, si ha la dimensione del
potenziale espansivo che questo settore può avere nel nostro
Paese.
Dal legislatore si attende un riordino generale della disciplina civilistica
al fine di assicurare condizioni di certezza, trasparenza e flessibilità
operativa utili a tutti, amministratori e cittadini. Ed un impegno
ad utilizzare lo strumento fiscale per dare segnali di ordinario buon
senso, invertendo la rotta del vessatorio patologico. Shaw sosteneva
che il sistema fiscale è lo strumento con cui il governo deruba
Pietro per dare a Paolo, potendo poi contare sul sostegno di Paolo.
Nell'Italia odierna Pietro è noto. Ma chi è Paolo?
Dal management non-profit si attende poi non la semplice sponsorizzazione
di operatori terzi, ma un coinvolgimento pieno nei progetti finanziati,
un fattivo impegno nella loro ideazione ed attuazione. C'è
in gioco la necessità di una essenziale, autonoma centralità
da restituire alla cultura, alla scienza, alle arti ed ai servizi
sociali del nostro Paese. Per bloccare l'ossessiva e rovinosa carica
dei rinoceronti. Per uscire dalle secche dell'immobilismo assicurando
dignità e crescita ad una società che già Pasolini
configurava divisa in due preistorie: la preistoria arcaica del Sud
e la preistoria nuova del Nord. Il degrado successivo ha reso poi
il sistema più conflittuale rispetto al momento in cui questo
giudizio fu pronunciato.
Comunque il carisma derivante da un impegno "etico" nel
non-profit cresce e si sviluppa in palestre per eroi minori, non in
apparati per convitati di pietra. Sarebbe avvilente riprodurre nell'Italia
del 2000 le esperienze dei primi quaccheri inglesi approdati su suolo
americano. Andarono nel Nuovo mondo con la ferma intenzione di fare
del bene... e finirono per fare soldi!