"Nel
campo di coloro che cercano la verità, non esiste autorità,
e chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli
Dei"
Albert Einstein
Senza dubbio,
Sergio Ricossa e Franco Romani sono due studiosi dotti e acuti che
riescono sempre a farci vedere aspetti della realtà spesso
mimetizzati dalle mode correnti e dai luoghi comuni. I loro libri,
malgrado l'estrema diversità dei titoli, hanno un punto di
convergenza, sul quale è bene soffermarsi e riflettere.
Ricossa scrive: Maledetti economisti. Le idiozie di una scienza inesistente.
Ma quello che potrebbe sembrare un odio totale per la professione
è solamente una critica pungente, a volte fino al sarcasmo,
di un certo modo di essere economista e, più in generale, scienziato
sociale: c'è quindi un atteggiamento che, attraverso la critica,
rimane fondamentalmente propositivo. Romani scrive: La società
leggera. Liberalismo, mercato, istituzioni. Quello che qui conta è
la prima espressione, la "società leggera", che è
una situazione in cui gli attori sociali riconoscono i limiti della
ragione umana, che viene così affrancata dal presuntuoso imperativo
di onniscienza. Entrambi gli autori si trovano pertanto sul terreno
del "razionalismo critico", del fallibilismo.
Ciò ci viene mostrato da ulteriori circostanze. Ricossa sembra
essere distruttivo nei confronti di tutti i grandi economisti. Ma
ci sono delle eccezioni. La più rilevante è rappresentata
da Adam Smith. Scrive Ricossa: "Non abbiamo trovato traccia che
gli economisti celebrassero il primo o il secondo centenario della
Teoria dei sentimenti morali. Quanto al primo centenario della Ricchezza
delle nazioni, gli economisti lo celebrarono, ma sarebbe stato meglio
se non lo avessero fatto". E qui egli riporta la testimonianza
di Jevons: "In occasione del pranzo organizzato nel 1876 dal
Political Economy Club di Londra, fu suggerito che gli economisti
avrebbero dovuto celebrare le esequie del libro, non il suo giubileo".
Commenta Ricossa: "Nulla di strano. Gli economisti moderni non
hanno nulla in comune con Smith. Sono moderni perché si scostano
da Smith: è un test".
Sorge tuttavia un interrogativo: in che cosa gli economisti moderni
sono diversi da Smith? La parola passa a Romani: "Si è
di solito portati a sottolineare i benefici per la scienza di un rapporto
più stretto fra teoria e pratica e non a sottolineare abbastanza
i pericoli, che sono molti. Il principale non è poi nemmeno
quello della malafede, conscia o inconscia, ma piuttosto quello che
l'ordine del giorno della ricerca scientifica venga fissato dai problemi
pratici del giorno per giorno dei politici". La separazione fra
teoria e pratica era fortemente affermata da Smith, il quale consigliava
di stare alla larga da "quegli insidiosi e astuti animali, volgarmente
chiamati uomini di Stato o politici, i cui consigli sono dettati da
mutevoli convenienze".
L'atteggiamento di Smith scaturiva da diverse ragioni. Anzitutto,
egli sosteneva che dev'essere la "meraviglia", e non il
vantaggio atteso, il "principio che invita gli uomini allo studio".
Poi, rifiutava le politiche economiche del suo tempo, mercantilistiche
e regolamentatrici. Il che fa dell'economia politica smithiana una
"teoria dei limiti della politica economica e sociale" (Romani).
Il problema merita attenzione. Perché limitare la politica
economica e sociale? Per "catturare" ciò che Ricossa
e Romani ci vogliono dire, dobbiamo entrare nella "cittadella"
smithiana. Smith diffidava dell' "uomo di sistema", che
è"colui il quale tende a presumere d'essere molto saggio;
e spesso è così innamorato della presunta bellezza del
proprio piano ideale di governo che non può tollerare la minima
deviazione da qualunque suo particolare. Egli lo definisce in tutto
e per tutto, in ogni sua parte, senza alcun riguardo per i grandi
interessi e per i forti pregiudizi che possono opporvisi". Ossia:
"l'uomo di sistema" presume di essere saggio, ma più
probabilmente è un folle: "Non soltanto - precisa Smith
- si addosserebbe una cura non necessaria, ma assumerebbe un'autorità
che non solo non si potrebbe affidare tranquillamente a nessuna persona
singola, ma nemmeno a nessun consiglio o senato, e che in nessun luogo
potrebbe essere più pericolosa che nelle mani di un uomo tanto
folle da rendersi capace di esercitarla".
C'è quindi un'obiezione gnoseologica alla politica economica.
Nella società, ci sono conoscenze largamente disperse, che
nessuno può possedere e controllare per intero. L'unica cosa
certa è che "ognuno, nella sua condizione locale, può
giudicare meglio di qualsiasi uomo di Stato o legislatore".
Il che non è tuttavia motivo per stare tranquilli: perché
le nostre conoscenze continuano ad essere parziali e fallibili. Ogni
azione produce una "cascata" di conseguenze inintenzionali,
di esiti cioè che non erano stati progettati dai singoli, ma
che sono il risultato della loro interazione; e tali esiti possono
essere positivi, come possono essere negativi. La nostra ignoranza
è perciò molto elevata. Di qui la conclusione di Hayek
che, "siccome ogni individuo sa poco, e in particolare raramente
sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo agli sforzi indipendenti
e concorrenti dei molti". Il che non significa altro che affidarsi
al mercato e alla "società aperta", che ci consentono
di scoprire, attraverso una permanente competizione, le soluzioni
più adatte a risolvere i nostri problemi.
Torniamo a Ricossa e Romani. Quest'ultimo dice: "Credo che [
... ] vi sia stato da parte degli economisti uno sforzo notevole per
screditare intellettualmente l'impostazione smithiana"; e aggiunge:
"Per me è sempre fonte di ammirata sorpresa vedere la
ricchezza, oserei dire talvolta la sicumera, con cui molti economisti
predicono il livello dei prezzi da qui a sei mesi, un anno, due anni
e così l'andamento dei saggi di interesse, specificano al dettaglio
le somme da immettere e da togliere, per non parlare poi delle stime
a lungo termine dettagliatamente quantificate". Da parte sua,
Ricossa precisa: "Il destino di Smith fu di avere sempre torto";
e ricorda che Otto Eckstein preparò un modello econometrico
con 1.200 equazioni, che nel 1974 fece un fiasco totale, proporzionato
appunto al numero di quelle equazioni.
Quale conclusione? Come ha ripetutamente sottolineato Hayek, quelli
che gli scienziati sociali chiamano "dati", sono esattamente
gli "elementi" che non conosciamo o che, se anche parzialmente
conosciamo in un certo momento, possono cambiare in un momento successivo.
Questa nostra condizione di ignoranza e di fallibilità ci impone
di essere liberi, di consentire a ciascuno di concorrere all'esplorazione
dell'ignoto. Abbiamo ciò è bisogno della libertà,
perché non siamo onniscienti. Dal che discende che lo studioso
deve evitare ogni "presunzione" e rifiutare i panni del
"profeta". Diceva Albert Einstein: "Nel campo di coloro
che cercano la verità, non esiste autorità, e chiunque
tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli Dei".